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Scrivere per esistere...

Scrivere per esistere e per... resistere!!!
Cuore in pace per i suoi detrattori. 
Gli insulti nei suoi confronti sembrano galvanizzarlo. 
Ho incontrato, infatti, un Roberto Saviano entusiasta del suo lavoro e per nulla dimesso, che se ne frega bellamente di tutte le polemiche e che tira dritto per la sua strada. 
Nelle quasi due ore che ho passato con lui ho percepito un narratore di razza proiettato nel futuro con mille progetti in testa e con una voglia di raccontare, una determinazione a continuare a lottare e testimoniare sempre più intensa. 
Spesso l’ho immaginato brandire una stilografica o, più realisticamente, la tastiera di un computer, mentre parla e scrive di collusioni, appalti truccati, vie della droga, omicidi, donne vestite di nero, rifiuti tossici che sbucano fuori dalle aiuole di qualche cittadina del sud, ma incontrandolo ho capito che, nonostante la criminalità e le barbarie da essa perpetrate rivestano sempre un ruolo chiave nella sua narrazione, la sua figura ci vuole trasmettere il dualismo del titolo di uno dei suoi libri: accanto all’inferno trova spazio anche la bellezza, suo diretto opposto, che coincide con la cultura e l’arte.
La gente comune quando desidera fare un omaggio ad una persona particolarmente cara, si trova di solito a scegliere entro un ventaglio di possibilità piuttosto ridotto, sebbene rassicurante: fiori, scatole di cioccolatini, dolcetti di varia natura o pensieri di simile portata. 
Il guaio arriva quando si è, ad esempio, uno scrittore di successo e le persone care da omaggiare sono i propri affezionati lettori: in tal caso l’unico cadeau adatto, e di sicuro ben accetto, è proprio un libro. 
Ed è questo che Saviano ci regala.
Banditi di comune accordo inutili tecnicismi abbiamo parlato soprattutto di letteratura e di arte in genere. 
Ne è emerso un Saviano sorprendente, amante della vita in tutte le sue sfaccettature o, per dirla alla sua maniera, “della vita in tutti i suoi intarsi”.
Nell’immaginario collettivo sei spesso considerato come l’intellettuale anticamorra che si interessa solo di criminalità organizzata. 
Oggi vorrei invece far emergere il Saviano letterato e soprattutto amante della letteratura e delle arti in genere. Cosa ne pensi?
Bene, mi piace l’idea.
Mi sembra che la tua sia una scrittura molto istintiva, di “pancia”. 
È così o dietro c’è un lavoro di fine cesellatura?
No, in realtà non sono un fine cesellatore, anzi non mi piacciono le scritture troppo lavorate, finte, strutturate in laboratorio. 
Lavoro di stomaco, ma la mia scrittura non è così istintuale, anzi cerco di avere, quando scrivo racconti criminali, uno sguardo anche prudente, non generico, non superficiale, non annebbiato dalla rabbia. 
Però mi piace la definizione scrittura “di pancia” perché lì ci sono i succhi gastrici, lì c’è tutto un gran movimento di cose. 
Ecco io cerco di mantenere, di riportare, nella scrittura, un movimento di cose che possono essere la riflessione, l’analisi, il frammento di un’inchiesta, insomma una “molteplicità di cose”.
La questione della forza della parola (sia essa scritta, recitata, cantata, trattenuta in gola, veicolata dalla tv) è uno dei punti letterariamente cruciali della tua narrazione…
Anche qui tutto è molto difficile perché anche questo è un gioco di equilibri molto precari. 
Per me la televisione è fondamentale perché mi ha protetto e mi protegge fisicamente. 
Tutto il meccanismo di protezione militare lo devo alla mia esposizione mediatica, altrimenti in un paese come l’Italia sarei ignorato, messo da parte. 
Quello che mi interessa è fare arrivare la mia parola a più persone possibili e in questo senso la televisione è uno strumento eccezionale. 
Non ho la spocchia che hanno molti intellettuali di considerare la televisione come “sterco del demonio” e allo stesso tempo non ho l’ingenuità di credere che basta che ti accettino per poter cambiare la sintassi televisiva. 
Però ho trovato degli spazi, per esempio il programma di Fabio Fazio è uno di questi. 
Uno spazio che ti permette di arrivare ad un pubblico enorme senza dover compromettere il tuo messaggio. 
Porto dei dati: la prima volta che abbiamo fatto uno speciale, quello che trattava di “Gomorra” abbiamo vinto la battaglia di reti.
Quel programma quella sera è stato il più visto su tutti i canali. 
La seconda volta che abbiamo fatto lo speciale, quello tratto da “La bellezza e l’inferno”, abbiamo battuto la trasmissione “X-Factor”. 
Questo è importante anche se in realtà, da intellettuale della carta, il problema dell’auditel, lo confesso, non me lo ero posto. 
Per uno scrittore anche soltanto cinquecento mila, un milione di persone sono cifre gigantesche. Io in cinque anni di carriera sono arrivato a tre milioni di copie con Gomorra. In un’ora da Fabio Fazio sono arrivato a cinque milioni di persone. 
Quando ho visto che ho battuto i reality mi son detto che tutto ciò ha un significato che va oltre me, va oltre quello che ho detto, oltre la mia faccia, oltre quello che scrivo e cioè che la gente vuole gli scrittori in televisione. 
Le persone vogliono ascoltare storie, vogliono percorsi diversi, tempi diversi di parlata e di discussione, modi diversi di relazionarsi. 
Non la macchinetta, per esempio, delle trasmissioni politiche o dei telegiornali. 
Insomma continuo a credere fermamente che fino a quando mi si darà la possibilità di comunicare attraverso televisione, radio, teatro, cinema questi saranno strumenti che utilizzerò.
Quindi, detto questo, per te la parola può, o potrà mutare ciò che sembra attualmente fermo per sempre?
Sì, nella misura in cui la parola arriva alle persone. 
È anche vero che nessuno può dire quanto un libro possa fino in fondo cambiare le persone o quanto un libro abbia realmente cambiato il mondo. 
Non c’è una prova. Di quanto Balzac, per esempio, ha cambiato il mondo non ci sarà mai una prova. 
Però attraverso cosa in realtà si può arrivare a capire che qualcosa si sta muovendo? 
Semplicemente attraverso se stessi. 
Quanto un libro muta se stessi. 
Ciò non vuol dire che si debba per forza cambiare in meglio o diventare tutti eroici. 
Per esempio, è cambiamento quando si inizia a fare un gesto che prima non facevi o viceversa un gesto che smetti di fare. 
Un pensiero che ti si ferma perché lo consideri idiota, per esempio dopo aver letto quel tal libro. Inizi a guardare diversamente il mondo, guardi le cose con più profondità, analizzi con più cura gli intarsi della vita. 
Su questo voglio essere ancora una volta prudente, cioè non voglio parlare della retorica del cambiamento del mondo attraverso la mia pagina. Io non so cosa possa realmente succedere. 
Quello che so attraverso la mia esperienza è che quando i miei libri sono finiti in mano a molte persone ho visto realmente cambiare qualcosa, ho visto cambiare la macchina mediatica, la macchina giudiziaria, ho visto far partire percorsi fermi da decenni. 
Questo non l’ho fatto io ma lo hanno fatto le persone che mi hanno letto. Lo hanno fatto le suggestioni, il passaparola e in questo senso sono convinto che la letteratura, così stramba come quella che faccio io, possa davvero nel quotidiano cambiare le cose.
Quali sono gli scrittori che nel corso della tua vita ti hanno maggiormente influenzato e formato?
Posso con certezza distinguere tra i narratori e filosofi che ho letto quando ero ragazzino in via di formazione e quelli che sono stati determinanti per scrivere quello che ho scritto. 
È ovvio che quando ho letto Salamov, Primo Levi, Truman Capote, mi sono trovato di fronte ad autori che sono stati capaci, come pochi altri, a leggere il mondo e mi hanno fatto pensare: “Dannazione, è così che voglio essere capace a leggere il mondo”. Non scrivere come loro, perché ero ancora lontano dal diventare scrittore. 
Un libro che mi ha segnato è stato L’abusivo di Antonio Franchini, Il sovversivo o Africo. 
Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta di Corrado Stajano, che trovai su una bancarella perché era fuori catalogo. 
Mi sono reso conto che erano libri che io volevo poter “continuare”. Mi sento comproprietario di quei libri. Franchini scriveva del giornalista Giancarlo Siani, Corrado Stajano di una città sperduta nell’Aspromonte in mano alla ‘ndrangheta. 
Questi libri insieme al Il camorrista di Joe Marrazzo, erano i testi che io avevo come vero riferimento quando ho scritto Gomorra. Anche tecnicamente, li consideravo come le viti, i cacciaviti, i bulloni del romanzo a cui stavo lavorando. 
Infatti loro facevano non-fiction, nessuno di loro ha inventato, i loro libri avevano il rigore documentario del saggio e l’efficacia di rappresentazione della narrativa autentica, cioè la loro realtà è modellata dalla loro scrittura letteraria, e sono in realtà tutti libri di inchiesta. 
Dall’altra parte c’era tutta la mia formazione che si era fondata su Giordano Bruno, su Spinoza, su testi di filosofia. Mi son laureato con una tesi su Max Weber che mi è servita molto per capire l’economia capitalistico-criminale. Se non avessi fatto gli studi weberiani non avrei capito molte cose. 
Alla fine in questa costellazione mi ci ritrovo continuamente, non solo sul piano formativo, ma mi rivolgo a loro idealmente o realmente, per coloro che sono ancora vivi e raggiungibili, ogni volta che ho disastri e problemi.
 Inoltre guardo moltissimo alla biografia di Primo Levi, a quella di Carlo Levi, alla biografia di Salamov per capire cosa significa subire vent’anni di ingiustizie e calunnie.
Tornando a noi, ti dice qualcosa Francesco Mastriani che da molte fonti soprattutto su internet è considerato il tuo vero padre “spirituale”? Si dice anche un po’ polemicamente che tu non sei il primo a fare questo tipo di letteratura.
Sono sincero, in realtà non l’ho mai letto, mi sono sentito connesso a lui, ma va bene, mi hanno detto “non sei sicuramente il primo”. 
Certo, non sono mica Adamo, anzi sono l’ultimo, sono il risultato di un percorso iniziato un po’ di tempo fa. 
Se non avessi avuto la possibilità di saccheggiare informazioni dai giornali, saccheggiare diversi sguardi e modi di sondare la realtà non sarei mai riuscito a fare quello che ho fatto. 
Come un pittore che si trova senza colori, non è che li può inventare e quello che li ha inventati non è che riesce a creare grandi cose come colui che li ha utilizzati dopo. 
Anzi mi fa molto piacere leggere mie genealogie che mi descrivono come figlio di questo o quell’altro autore. 
Per quanto riguarda le polemiche posso dire che il successo che ho avuto io non è paragonabile a nessun scrittore che si è occupato di queste cose. 
Da ciò si sviluppa la rabbia e ci si chiede perché tanti bravi non hanno avuto neanche la metà dei riconoscimenti che questo ragazzino ha avuto in tre anni. 
Da ciò nasce il fastidio o peggio ancora l’invidia.
Ed il tuo rapporto con i critici?
Per me è stato fondamentale confrontarmi con i critici. Luperini, Ferroni, Asor Rosa, Cordelli, Fofi, D'Orrico, sono coloro che hanno guardato più nel profondo il mio testo. E leggere le loro critiche ha orientato il mio lavoro futuro. 
Questo è un privilegio che uno scrittore che ha venduto molte copie in genere non ha. I critici in genere se vendi cinque mila copie, ti considerano uno scrittore importante, da leggere. Invece, come solitamente accade, se inizi a vendere da centomila copie in su iniziano a detestarti.
È automatico. 
Il successo significa, per loro, essere dozzinali. 
Il successo, certo, non sempre significa qualità, ovviamente, ma quando l’insuccesso è puro, il critico può farlo diventare qualità. Nell’insuccesso se il critico ti attacca finisci definitivamente, ti dà il colpo di grazia, se invece il critico ti blandisce vivi grazie a lui. Lui decide della tua esistenza. 
Oggi un autore che è letto da un pubblico ristretto, o di addetti ai lavori deve la sua esistenza ai critici, deve la sua pubblicazione nelle case editrici ai critici. Il potere del critico sul successo, invece, non c’è perché sia che l’attacchi o che lo osanni non dipende da lui la diffusione di quel libro.

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