Scrivevo che forse, a Gesù, poco importa di code davanti a un presunto luogo sacro. Ciò che conta è che il suo messaggio circoli nei cuori, ovunque essi siano. Quel dubbio, quel fastidio per una fede trasformata in "commodity", non mi ha mai abbandonato.
Oggi quel sospetto ritorna, acuito, e si trasforma in uno sconcertante senso di frattura. Perché leggo quanto il cardinale, di ritorno da Gaza, ha dichiarato: “La guerra è finita, ma Gaza resta un simbolo del conflitto e della tentazione di fuggire”. Descrive che non c’è più la guerra, ma restano povertà, tende allagate e bambini senza scuola. Sostiene che gli aiuti entrano, soprattutto quelli commerciali, anche se Gaza resta simbolo del conflitto e della fatica di restare. Pur riconoscendo le enormi difficoltà, la sua affermazione cardinale resta dunque quella: la guerra è finita. Una riflessione alta, pacata, che invita a una testimonianza di presenza.
Poi, quasi nello stesso respiro, apro i notiziari. Raid aerei israeliani su Gaza City e Rafah nella notte. Attacchi con droni nel sud del Libano, miliziani uccisi. Il ministro della Difesa israeliano parla di istituire avamposti militari nel nord di Gaza. Persino Vatican News, organo di Santa Sede, titola senza mezzi termini: “Israele, nuovi raid dell’aviazione su Gaza e Rafah”. Notizie di ieri, di oggi, in un flusso continuo che parla non di pace, ma di un conflitto che si ramifica, si intensifica, muta forma ma non sostanza.
E allora, cosa resta da pensare? Mi ritrovo spaesato, come se vivessi in due dimensioni parallele che rifiutano di incontrarsi. Da un lato, la narrazione pastorale di una guerra conclusa, che invita a guardare oltre il dolore, a ricostruire, a restare. Dall’altro, la cronaca spietata di esplosioni, dichiarazioni di belligeranza, e una tensione internazionale che non accenna a placarsi. Due verità inconciliabili occupano lo stesso spazio, e una di esse sembra vivere in una sorta di bulbo protetto, isolato dal frastuono dei motori dei caccia e dal boato degli obici.
Mi chiedo, con amarezza, se non ci troviamo di fronte all’ultima, sofisticata evoluzione di quel “business del culto” di cui parlavamo a novembre. Forse, in questa fase, il prodotto da vendere non è più solo il pellegrinaggio sicuro, ma addirittura la narrazione di un conflitto terminato. Una narrazione necessaria per far ripartire i flussi, per rassicurare, per costruire un’immagine di normalità che è funzionale a tanti, tranne che a chi sotto quelle bombe ci vive ancora. È una spiritualità che rischia di diventare una forma di negazione, un rifugio in un contesto simbolico così elevato da perdere ogni contatto con la terra bruciata della realtà.
Il cardinale insiste: “Dio non cancella la notte, ma la illumina”. È un’immagine potente. Ma quando la notte è solcata dalle traccianti e illuminata a giorno dalle esplosioni, quella luce divina rischia di essere oscurata, o peggio, di essere strumentalizzata per far vedere qualcosa che, semplicemente, non c’è. La testimonianza di fede è un atto eroico, soprattutto in quelle terre martoriate. Ma perché non si accompagna, oggi, a un grido altrettanto forte che denunci l’abisso tra le parole di pace pronunciate in una sala e le guerre che continuano fuori dalla finestra?
Forse è questa la tentazione più grande: non quella di fuggire materialmente, ma di fuggire nella narrazione. Di costruire un recinto sacro di parole rassicuranti mentre fuori infuria la tempesta. Il vero coraggio, forse, non sarebbe solo quello di “restare”, ma di restare guardando in faccia tutta la contraddizione, chiamandola per nome, senza edulcorarla in un messaggio di pacificazione prematura. Perché se il business ha bisogno di normalità, la profezia ha il dovere di gridare l’anormalità, anche quando è scomoda, anche quando disturba il ritorno ai giri d’affari.
Quel grido, oggi, mi sembra dolorosamente assente. E in questo silenzio, rischia di perdersi non solo la credibilità di una parola, ma il significato stesso di una presenza.
