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venerdì 11 luglio 2025

E' una rete sottilissima, a maglie strette, che prende i pesci piccoli, ma che si rompe quando arrivano quelli grossi!

La corruzione ha molti volti, e oggi voglio raccontarvelo attraverso le parole di uno dei miei autori preferiti: Jo Nesbø.

Il maestro norvegese del noir, celebre per i romanzi con l’ispettore Harry Hole (prossimamente protagonista di un adattamento televisivo), ha saputo svelare come pochi i meccanismi oscuri del potere.

Prendo spunto da "La ragazza senza volto", dove Nesbø tratteggia un dialogo rivelatore. Siamo alla festa di addio di Bjarne Müller, da poco in pensione dopo anni a capo della squadra di Harry. Tra brindisi e battute, accade qualcosa di apparentemente banale: Müller regala al suo ispettore il proprio orologio.

Ecco, è in questo gesto – così semplice eppure carico di significato – che l’autore ci mostra l’essenza della corruzione: sottile, personale, a volte persino commovente. Ma perché proprio un orologio? Partiamo da qui...

Bjarne, devi sapere che gli orologi più costosi del mondo hanno un meccanismo a tourbillon, con una frequenza di 28.000 alternanze all'ora. Per questo sembra che la lancetta dei secondi si sposti con un movimento continuo, e il ticchettio è più intenso che negli altri orologi.

Sono davvero notevoli questi Rolex, sì… ma il marchio Rolex è stato aggiunto da un orologiaio, solo per camuffare quello vero.

Come ben sai... si tratta di un A. Lange & Söhne Lange Tourbillon,  che fa parte di una serie prodotta in 150 esemplari. Sì… la stessa serie dell'orologio che mi hai dato tu. L'ultima volta che un analogo Tourbillon è stato venduto all'asta, il prezzo ha quasi raggiunto i tre milioni di corone… oltre 500.000 Euro!

 Waller annui con un sorriso appena accennato sulle labbra.

 «E' così che vi pagavano?» chiese Harry. «In orologi da tre milioni?» Waller si abbottonò il cappotto e sollevò il bavero: "Il loro valore è più stabile e danno meno nell'occhio delle auto".

Sono meno appariscenti di un'opera d'arte di valore, più facili da contrabbandare del contante e non hanno bisogno di essere riciclati. Inoltre possono essere regalati….Esatto. Cos'è successo? E' una lunga storia, Harry…

 E come molte tragedie, è iniziata con le migliori intenzioni. Eravamo un piccolo gruppo di persone che volevano dare il proprio contributo, aggiustare le cose che uno stato di diritto non era in grado di sistemare. Alcuni sostengono che il motivo per cui così tanti criminali sono in libertà è che il sistema giudiziario è una rete a maglie larghe, ma non è affatto vero.

 E' una rete sottilissima, a maglie strette, che prende i pesci piccoli, ma che si rompe quando arrivano quelli grossi. Volevamo essere la rete dietro la rete, in grado di fermare gli squali.

Del nostro gruppo non facevano parte solo poliziotti, ma anche avvocati, politici e burocrati, consapevoli che la struttura della nostra società, con la nostra legislazione e il nostro sistema giudiziario, non era pronta ad affrontare il crimine organizzato internazionale che ha invaso la Norvegia quando sono stati aperti i confini.

La polizia non aveva l'autorità per giocare con le stesse regole dei criminali, almeno finché la legislazione non fosse stata adeguata. Per questo dovevamo operare nell'anonimato.

Ma nei posti chiusi e segreti, dove non circola l'aria, si crea il marcio. Da noi si sono sviluppati dei batteri che all'inizio ci hanno spinto a dire che dovevamo importare armi di contrabbando per fronteggiare gli avversari, poi a venderle per finanziare la nostra attività. Era un paradosso bizzarro, ma coloro che si opponevano scoprirono ben presto che i batteri avevano preso il potere.

E poi cominciarono ad arrivare i regali. Inizialmente delle piccolezze, incoraggiamenti per spronarti, come dicevano, sottolineando al tempo stesso che rifiutare un regalo sarebbe stato considerato una mancanza di solidarietà. Ma in realtà era semplicemente la fase successiva del processo di putrefazione, della corruzione che ti fagocitava quasi senza che te ne accorgessi, finché non ti ci ritrovavi immerso fino al collo.

E non c'era modo di uscire. Avevano troppo potere su di te. La cosa peggiore era che non sapevi chi fossero.

C'eravamo organizzati in piccole cellule che comunicavano tra loro per mezzo di un tramite che aveva l'obbligo di segretezza. Non sapevo ad esempio che Tom Waller fosse uno di noi, che fosse al vertice del contrabbando di armi, né tantomeno che esistesse una persona con il nome in codice di “Principe”. Almeno fin quando tu ed Helen non l'avete scoperto e denunciato!

E allora capì anch'io che avevamo perso di vista il nostro obiettivo reale, che era passato troppo tempo da quando avevamo avuto un obiettivo diverso da quello di riempirci le tasche, che ero corrotto e che ero stato complice!

Un giorno non ce l'ho più fatta. Ho cercato di uscirne. Mi hanno dato delle alternative, molto semplici, ma non temevo per me, bensì per i miei familiari. Ed è per questo che ti sei allontanato da loro.

Harry sospirò: E così mi hai voluto regalare questo orologio per mettere la parola fine a questa storia. 

Dovevi essere tu, Harry. Non poteva essere nessun altro. Lui e noi. Si sentiva un nodo in gola.

Harry si ricordò di qualcosa che Müller gli aveva detto la volta precedente, in cui erano stati proprio lì, su quella cima della montagna. Già… era strano pensare che a sei minuti di cabinovia dal centro della seconda città più grande della Norvegia, ci si potesse smarrire e morire. Credere di trovarsi nel cuore di ciò che si pensasse come giustizia, e poi improvvisamente perdere qualsiasi senso della direzione e diventare come quelli contro cui si voleva combattere.

Pensò a tutti i calcoli mentali che aveva fatto, a tutte le decisioni grandi e piccole prese, già… sono le circostanze e le sfumature a distinguere l'eroe dal criminale.

È sempre stato così. La rettitudine è la virtù di chi è pigro, di chi non ha un ideale. Senza malfattori e senza disonesti vivremmo ancora in una società feudale.

Ho perso, Harry. Tutto qui. Ho creduto in qualcosa, ma ero cieco, e quando ho riacquistato la vista il mio cuore era ormai corrotto.

È così che vanno le cose. Harry rabbrividì investito dal vento e cercò le parole adatte. Quando finalmente le trovò, la sua voce risuonò lontana e tormentata: Scusa, capo, non ce la faccio ad arrestarti. Va bene, Harry. Vedrò di fare da me.

La voce di Müller era calma, quasi consolatoria. Volevo solo che vedessi ogni cosa, e capissi, e magari imparassi. Non c'era altro scopo...

Harry fissava la nebbia impenetrabile, cercando in vano di fare ciò che il suo capo e amico gli aveva chiesto di fare. Vedere ogni cosa. Tenne gli occhi aperti finché non si riempirono di lacrime.

Quando si voltò, Bjarne Müller se n'era andato. Chiamò il suo nome nella nebbia, pur sapendo che il suo ex capo aveva ragione. Non c'era altro scopo, ma pensò che qualcuno doveva comunque farlo...


mercoledì 9 luglio 2025

Tra vendetta e perdono: il dilemma di chi non vede giustizia.

C’è chi lo chiama Far West, ma è davvero colpa dei cittadini se, di fronte a un sistema che non funziona, l’istinto sopravvive? Prendiamo il caso di uno dei tanti femminicidi a quasi due anni di distanza, già... con i genitori dell’assassino intercettati a minimizzare, quasi a volerlo giustificare... 

"Se questo è esser genitori", scrivevo a luglio, allora non stupiamoci se la violenza diventa ereditaria. E mentre i bulli tormentano i deboli, gli stupratori camminano liberi, e i femminicidi si consumano tra una condanna sospesa e un permesso premio, lo Stato cosa fa con quei suoi governanti? Nulla... discute!

Forse è ora di ammetterlo: le leggi attuali non bastano più. Servono pene esemplari, certezze, non promesse. In Israele, ai familiari dei terroristi viene rasa al suolo la casa – un segnale chiaro: la colpa è collettiva

Estremo? Forse. Ma quando lo Stato abdica, il cittadino si trasforma in giudice, boia e vittima insieme. E se la soluzione fosse proprio questa: colpire non solo il colpevole, ma chi lo ha cresciuto nell’odio? Chi ha girato lo sguardo?

Ma attenzione: c’è un confine tra giustizia e barbarie. Per questo, alla fine, resta una verità più alta: "L’animo umano non appare mai così forte e nobile, come quando rinuncia alla vendetta" - link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2020/07/lanimo-umano-non-appare-mai-cosi-forte.html

Perdonare infatti non è debolezza, è l’ultimo atto di fiducia in un’umanità che sembra aver smarrito sé stessa.

Eppure, finché i tribunali continueranno a fallire, finché un ragazzo morirà per 15 euro o una donna per un “no”, la domanda resterà inchiodata alla coscienza di tutti: "Chi paga, in questo Paese, per i reati commessi?". La risposta, purtroppo, la conosciamo già. Sono sempre gli stessi a pagare: quelli che aspettavano giustizia, e hanno ricevuto solo silenzio.

Ci prepariamo a veder scendere il sipario della giustizia. Quel che si profila all'orizzonte è uno scenario da "Far West" postmoderno e come nei film del grande Sergio Leone, ci ritroveremo a contare le "vittime" – coloro che, dopo essersi macchiati di crimini efferati, cadono sotto la vendetta dei familiari di chi hanno distrutto. 

È la legge del taglione che torna a galla, l’antica giustizia privata che sostituisce codici e tribunali. E quando la ragione cede il passo al sangue, non resta che una domanda: Quanti morti ci vorranno prima che qualcuno dica 'basta'?

Giustizia negata, giustizia fatta: il dramma di chi non crede più nello Stato.

Sabato 4 febbraio 2017: Ecco cosa può accadere... quando non c'è giustizia!!!

Mercoledì 31 maggio 2017: Giustizia ritardata è giustizia negata!!!

Mercoledì 5 agosto 2020: L’animo umano non appare mai così forte e nobile, come quando rinuncia alla vendetta e osa perdonare un torto!!!

Sabato 3 febbraio 2024: Ma in questo Paese, chi paga effettivamente per i reati commessi???

Sabato 27 luglio 2024: Se questo è esser genitori: già... si comprende il perché accadono ogni giorno tragedie come quelle che purtroppo andiamo vivendo!!!

Quando una madre piange un figlio ucciso per un paio di cuffie, cosa resta da dire? Le parole si spezzano, e lo Stato – quello stesso Stato che dovrebbe punire, proteggere, garantire – diventa un eco lontano, un meccanismo arrugginito che gira a vuoto.

Eppure, quante volte l’abbiamo ripetuto: "Giustizia ritardata è giustizia negata". Lo scrivevo nel 2017, e oggi, a distanza di anni, la storia si ripete con una ferocia quasi rituale. Madri che urlano in diretta tv, padri che impugnano pistole, familiari che smettono di aspettare. Perché? Perché i tribunali assolvono, le pene si riducono, i colpevoli tornano in strada prima del dolore delle vittime. E allora diventa inevitabile che qualcuno decide di chiudere i conti da solo...

Quelli sopra riportati non sono dei semplici post, sono moniti lasciati cadere nel tempo, pietre lanciate in uno stagno troppo spesso immobile. E oggi, mentre l’eco di un colpo di pistola risuona in una piazza, quelle parole tornano a bussare alla nostra coscienza con domande scomode: Avevamo previsto tutto questo? E soprattutto, potevamo evitarlo?

Perché quando la giustizia istituzionale vacilla, ciò che avanza non è il caos, ma qualcosa di più pericoloso: la rassegnazione. Quella stessa rassegnazione che trasforma un padre in giustiziere, una vittima in carnefice, un lutto in una condanna a vita senza appello. Non è un caso, non è follia. È il risultato matematico di un sistema che ha smesso di contare i fallimenti mentre illudeva di contare i giorni di pena.

Eppure, persino in questo baratro, una verità rimane: la giustizia "fai-da-te" non restituisce i figli uccisi, non risana le ferite, non costruisce società migliori. Al massimo, crea nuovi lutti e nuovi vuoti. Ma come biasimare chi, dopo anni di attesa, si è visto consegnare dalle istituzioni non una sentenza, ma un’amara beffa?

Forse il vero interrogativo non è "perché l’ha fatto?", ma "cosa abbiamo fatto noi per evitarlo?". Abbiamo ascoltato abbastanza le vittime? Abbiamo preteso che ogni condanna fosse all’altezza del dolore inflitto? O abbiamo accettato, con silenzio complice, che i tribunali diventassero fabbriche di promesse non mantenute?

Quel colpo di pistola ha ucciso due volte: un uomo, e simbolicamente, l’ultimo barlume di fiducia in uno Stato che dovrebbe proteggere ma troppo spesso delude. Ora tocca a noi scegliere: continuare a discutere di eccezioni e casi isolati, o ammettere che dietro ogni "gesto folle" si nasconde una lunga scia di giustizia mancata.

Perché come scrivevo anni fa, "l’animo umano è nobile quando perdona"... ma prima di arrivare alla nobiltà, deve attraversare il deserto della giustizia. E quando nel deserto non si trova neppure una goccia d’acqua, perfino i più forti possono impazzire.

martedì 8 luglio 2025

Il procuratore Nicola Gratteri e la verità scomoda di un Paese che convive con la mafia!

La mafia è cambiata, ma la retorica antimafia no e questa distanza tra realtà e narrazione ci dice molto su come oggi siamo disposti a guardare – o meglio, a non guardare – quel fenomeno che un tempo sembrava dover essere combattuto con ogni mezzo. 

Il procuratore che tiene lezioni in televisione non è solo una scelta di sensibilizzazione, è il segnale che ormai siamo arrivati a un punto in cui parlare di mafia serve più a tranquillizzare la coscienza collettiva che a contrastarla realmente.

La verità...? Il Paese ha deciso di convivere con essa, non per paura, non per rassegnazione, ma perché si è fatta strada l’idea che in fondo, in qualche modo, essa funzioni da collante sociale, un male necessario che permette a tanti di ottenere qualcosa senza troppi passaggi burocratici né troppe attese.

Mentre i notiziari raccontano di guerre lontane, di sbarchi quotidiani e di temperature sempre più estreme, la mafia continua a lavorare silenziosa, quasi invisibile, dentro quei meccanismi che tengono insieme un sistema fragile e precario. 

Non è più quella che ti minaccia alla porta di casa, è piuttosto quella che ti fa avere il posto fisso al mercato comunale, che ti assicura un posto in ospedale fuori lista d’attesa, che ti fa assumere tuo cugino anche se non ha esperienza. 

Ecco, questa è la mafia di oggi, non solo criminalità organizzata ma rete informale di scambi, favori, promesse mantenute, dove il confine tra legale e illegale si fa sempre più sottile fino a sparire del tutto.

E allora, mentre si discute di etica pubblica e di legalità, ci si dimentica che molte persone vivono grazie a quelle pratiche che ufficialmente condanniamo. Non parliamo più di complicità esplicite, di omertà urlata nei vicoli dei paesi, ma di una sorta di adattamento quotidiano, una specie di contratto sociale non scritto in base al quale accetti di chiudere un occhio purché ti sia garantita una vita meno complicata. 

Difatti... la mafia non viene più combattuta perché in fondo sono in molti a beneficiarne, direttamente o indirettamente, e nessuno vuole rinunciare al proprio tornaconto pur di mantenere un minimo di equilibrio esistenziale. Un vero schifo, viene il vomito solo a pensarci. Tutti coloro che prendono dalla mafia sono spesso ancor più schifosi degli stessi mafiosi. Siano essi politici, uomini delle istituzioni, magistrati, forze dell’ordine, dirigenti o funzionari pubblici, direttori dei lavori, responsabili della sicurezza, personale della pubblica amministrazione, addetti ai controlli e via dicendo. Un calderone pieno zeppo, sì... anche di quei comuni delinquenti le cui foto vediamo ogni giorno pubblicate sul web, persone che sopravvivono grazie alla mafia e che ne sono, molto spesso, diretti affiliati.

Già... il problema non è più soltanto il silenzio delle istituzioni, ma quel torpore diffuso, quella rassegnata indifferenza che ha preso il posto dell’indignazione. La gente comune ha smesso di ribellarsi davvero, ha imparato a convivere con il marcio, come se fosse una pioggia fastidiosa ma inevitabile. E allora arriva il procuratore Nicola Gratteri, che con le sue parole in tv cerca di scuotere le coscienze, soprattutto quelle dei giovani, sperando in un risveglio collettivo.

Ma quanti, dopo averlo ascoltato, si sentono improvvisamente in pace con sé stessi, come se quella mezz’ora di retorica antimafia bastasse a lavare la loro coscienza? Quanti escono dalla catarsi emotiva del discorso per poi tornare, il giorno dopo, a intascare la bustarella, a cercare la raccomandazione, a voltarsi dall’altra parte? È un gioco pericoloso: credere che ascoltare sia già agire, che indignarsi a parole equivalga a cambiare le cose. Intanto, la mafia ringrazia. Perché sa che finché ci accontenteremo di sentirci puliti solo per aver prestato orecchio, lei continuerà a vincere.

Ma come ripeto ormai da anni, nulla più mi sorprende e soprattutto di una cosa mi sono convinto: il vero dramma non è la mafia, ma la consapevolezza che ormai essa non fa più notizia, non scandalizza più, non mobilita più. È diventata parte del paesaggio, una presenza costante e scontata come la pioggia a novembre o il caldo afoso d’agosto. 

E quando persino i mezzi d'opera nei cantieri o quelli agricoli in agricoltura provocano più morti di quelli compiuti dalla criminalità organizzata, mi chiedo se la battaglia antimafia abbia ancora senso oppure se non sia il caso di ammettere - una volta e per tutte - che siamo noi, già... ciascuno di noi ( o quantomeno consentitemi di fare una precisazione: tutti coloro che partecipano costantemente a quel malaffare...), con le nostre piccole complicità quotidiane, a mantenerla viva e vegeta!

lunedì 7 luglio 2025

Tra ostaggi e illusioni: perché i colloqui su Gaza sono destinati a fallire.

Si è conclusa in nulla la seconda sessione dei negoziati su Gaza, eppure i media continuano a raccontarcela come una semplice battuta d’arresto, un ostacolo temporaneo...

Ma la verità è che qui non si tratta di un banale intoppo diplomatico, bensì dell’ennesima dimostrazione di come la politica internazionale venga gestita con miopia e sudditanza. 

Il "grosso ostacolo" di cui parlano, il mancato rilascio degli ostaggi, non è un dettaglio negoziale, è la sostanza stessa del conflitto. Israele ha chiarito da mesi che senza quel gesto non ci sarà tregua, non ci sarà pace, eppure c’è ancora chi si ostina a credere che basti un vertice, una stretta di mano, una promessa vuota per cambiare le carte in tavola.

I funzionari anonimi intervistati dicono che i negoziati continueranno, come se la perseveranza bastasse a colmare l’abisso tra le parti. Hamas "spera di raggiungere un accordo", dicono. Ma quale accordo può mai esserci con chi ha pianificato il massacro del 7 ottobre, con chi ha trasformato il sangue di 1200 innocenti in una moneta di scambio? 

È grottesco persino doverlo ripetere, eppure sembra che in troppi abbiano già rimosso l’orrore di quel giorno, come se fosse un incidente di percorso e non la scintilla che ha ridisegnato i contorni di questo conflitto.

E mentre Hamas ammette di aver perso l’80% del controllo su Gaza, ecco spuntare la solita retorica della "pressione negoziale", come se Israele dovesse fermarsi proprio ora, proprio quando la vittoria militare è a portata di mano. 

Qualcuno sussurra che Tel Aviv potrebbe estendere le operazioni alla Cisgiordania, ed è allora che scatta il panico diplomatico, l’urgenza artificiale di trovare una soluzione. Ma Israele nega, smentisce, ribadisce che i colloqui proseguono. E intanto, sul campo, nulla cambia: gli aiuti umanitari continuano a essere bloccati, la popolazione di Gaza soffoca, e la guerra non accenna a placarsi.

Trump annuncia ottimisticamente che ci sono "buone possibilità" per un accordo, come se la questione fosse una trattativa immobiliare da chiudere con una stretta di mano. "Abbiamo già liberato molti ostaggi", dice, come se fosse merito suo, come se il resto fosse solo una formalità. 

Ma la realtà è che finché un solo ostaggio rimarrà nelle mani di Hamas, Israele non si fermerà. E chi crede il contrario, chi sogna una soluzione diplomatica senza aver capito la posta in gioco, sta solo illudendo se stesso e gli altri.

E allora, mentre i nostri governanti si affannano a ripetere i copioni scritti da altri, mentre i media ci raccontano una pace che non esiste, la verità è semplice e spietata: questa guerra finirà solo quando Israele deciderà che è finita. E quando quel giorno arriverà, Gaza non sarà più la stessa. 

Forse non ci sarà più. E a quel punto, tutti quei discorsi sui negoziati, sui cessate il fuoco, sulle soluzioni condivise, suoneranno come quello che sono sempre stati: parole vuote in un mondo che non ha più tempo per le illusioni.

mercoledì 2 luglio 2025

La Calabria brucia e lo Stato tace!

Un ospedale in fiamme, ancora e ancora...

Già... non per un incidente o per sfortuna, ma per l’ennesimo atto di violenza contro una terra che implora semplicemente "normalità".

L'Ospedale della Sibaritide aspetta da vent'anni una struttura che dovrebbe salvare vite, e invece vede quel cantiere ridotto in cenere, già... sotto gli occhi di tutti.

E lo Stato? Lo Stato osserva, proclama, promette indagini, ma nel frattempo le ruspe della ‘ndrangheta continuano a demolire il futuro senza che nessuno le fermi davvero.

Presidente Mattarella, Presidente Meloni, dov’è lo Stato quando serve? Quante volte deve bruciare un ospedale prima che qualcuno decida di intervenire con la stessa fermezza con cui si riempiono i discorsi pubblici?

Per favore basta.... mi sono stancato di dover sentire le solite frasi, non servono più parole, servono fatti, servono soldati che presidiano giorno e notte, servono controlli più ferrei che non finiscano come da troppo tempo accade con un comunicato stampa: perché se un cantiere - peraltro videosorvegliato - può essere sabotato due volte in due giorni, allora non c’è sicurezza, ma solo complicità!

Il Commissario alla sanità, Roberto Occhiuto, li chiama “vermi”, e ha ragione. Ma il sottoscritto aggiunge che i vermi prosperano solo dove c’è marcio. E il marcio qui è l’impunità, è il racket che si permette di dettare legge mentre le istituzioni annaspano tra ritardi e omissioni. Sì... l’ospedale sarà ricostruito, dicono sempre così, ma mi chiedo: quanti altri incendi serviranno prima di ammettere che senza una risposta militare, senza una presenza permanente, quei cantieri resteranno sempre ostaggi delle stesse mani che oggi li incendiano?

La Calabria merita di più che essere una cronaca di fuoco e rassegnazione. Eppure, mentre i politici fanno a gara per condannare quanto accaduto - ovviamente (come belle statuine) dinnanzi alle Tv a reti unificate - sul terreno non cambia nulla.

Le fiamme di oggi sono le stesse di ieri, e saranno le stesse di domani - lo dico da sempre per la mia Sicilia, lo ripeto oggi per quella meravigliosa regione (sorella) chiamata Calabria - finché qualcuno non avrà il coraggio di spezzare questo circolo. Ma quel coraggio, a quanto pare, ancora non c'è, ne da noi e ahimè neppure da loro!


martedì 1 luglio 2025

La verità brucia ancora: chi ha davvero ucciso Paolo Borsellino?

"Il popolo italiano ha il diritto di conoscere la verità", dicono...

Ma la verità è già scritta, nascosta sotto gli occhi di tutti, sepolta da decenni di menzogne e complicità!

Già... quella stessa politica che oggi si commuove davanti alla borsa di Paolo Borsellino, è la stessa che ha beneficiato del suo sangue e di quello della sua scorta. Sono loro, quelli che hanno governato e governano ancora, i veri mandanti di quel golpe a tavolino orchestrato con le bombe e il terrore.

La mafia fu solo il braccio armato, i corleonesi gli esecutori materiali, ma chi davvero voleva Falcone e Borsellino morti sapeva che senza di loro il potere sarebbe stato più facile da controllare. E così è stato. 

I nomi, le prove, i collegamenti, erano tutti lì, scritti in quell'agenda rossa. Ma invece di leggerla, di pubblicarla, l’hanno fatta sparire o meglio  chi se ne impossessato ha fatto sì che quelle parole scritte dal giudice restassero celate. 

Penso altresì che gli uomini dei servizi deviati siano intervenuti per recuperarla immediatamente la strage (basti osservare le foto in cui qualcuno - di cui si sconosce l'identità - interviene per recuperare quella borsa e di conseguenza il suo contenuto), oppure leggere le dichiarazioni di quel vigile del fuoco nel 2012, per poi consegnarla a chi aveva partecipato a realizzare quella strage.

Quella borsa non è finita in un magazzino dimenticato, no... è stata recuperata, copiata e nascosta da chi aveva interesse a seppellire la verità!!! Credo altresì che qualcuno che ha avuto modo di averla per qualche istante in mano, l'abbia copiata e autenticata, sì... da un "notaio compiacente" (come accaduto con altri documenti falsi negli anni '90), per poi riporre il tutto in una qualche cassetta svizzera, pronta per essere usata come ricatto contro politici e/o giudici.

Chiamiamolo un salvacondotto per una carriera senza macchia nei confronti di chi sapeva e di chi ha taciuto per i propri interessi politici e finanziari, già... se quella borsa conteneva l'agenda personale con riportati i nomi dei collusi, tenerla nascosta - ma "pronta all’uso" - ha garantito a quei soggetti impunità e favori per decenni, per i propri familiari.

Oggi parlano di sacrificio, di memoria, di lotta alle mafie, ma sono le stesse voci che per anni hanno taciuto, che hanno girato lo sguardo, che hanno fatto finta di non sapere. Il movimento di popolo nato dopo quelle stragi è stato ahimè strumentalizzato, trasformato in retorica, svuotato del suo significato più profondo. Perché la verità scomoda non serve a chi ha costruito il proprio potere sulle macerie di via D’Amelio e di Capaci.

La borsa esposta in Parlamento è un simbolo, dicono. Sì, è il simbolo di tutto ciò che è stato rubato, di tutto ciò che è stato insabbiato. L’odore della pelle bruciata è ancora lì, ma nessuno vuole più sentirlo davvero. 

Perché ammettere che la politica è complice di quelle stragi significherebbe smantellare un sistema costruito sul sangue dei giusti. E questo, nessuno di loro è disposto a farlo.

lunedì 30 giugno 2025

Se l’Antimafia è un albero nella foresta della corruzione, in Sicilia è una giungla!

La Sicilia è un teatro dove le ombre del potere si confondono con la luce del giorno, e ciò che dovrebbe essere un baluardo contro il male finisce per assomigliargli in modo inquietante. 

L’ultimo atto di questa tragedia infinita è la condanna a dodici anni per corruzione di un uomo che un tempo siedeva tra i vicepresidenti della commissione antimafia. Un paradosso che non stupisce più, perché l’isola ha imparato a convivere con l’amaro sapore dell’ipocrisia istituzionale. 

"Se vuoi nascondere un albero, piantalo in una foresta", già... dicevano bene gli inquirenti, riferendosi a una presunta loggia massonica segreta nascosta tra quelle ufficiali. Ma altri loro colleghi hanno smentito, cancellando con una sentenza l’esistenza di quell’ombra. Peccato che, anche senza logge segrete, il male fosse lì, evidente, tra scambi di favori, minacce velate e poliziotti che facevano da “gole profonde” per proteggere gli amici sbagliati. 

Il sistema, si sa, funziona così: non servono giuramenti segreti quando basta un’amicizia influente per piegare le istituzioni a proprio piacimento. L’ex vicepresidente della commissione antimafia muoveva i fili di una rete che includeva medici, funzionari dell’Inps, presidenti di enti formativi e persino uomini in divisa. Invalidità fabbricate su misura, carriere pilotate, informazioni riservate sussurrate al momento giusto. Tutto legale, si difendevano gli imputati. 

Peccato che i giudici abbiano visto ben altro: un “cerchio magico” dove la corruzione era moneta corrente, e il consenso elettorale la scusa perfetta per coprire affari sporchi.

Quello che emerge è un meccanismo perfetto nella sua perversione. Non servono mandanti né esecutori quando tutti sono complici. La segreteria politica dell’ex parlamentare era uno “sportello unico” per risolvere problemi, dove ogni richiesta trovava la sua soluzione, purché si appartenesse al clan giusto.

E gli uomi delle forze dell'ordine? Non servivano a combattere il crimine, ma a proteggerlo, rivelando indagini in corso a chi avrebbero dovuto arrestare. Una beffa che si trasforma in tragedia, perché se persino chi dovrebbe contrastare la mafia ne diventa strumento, allora il fallimento non è solo di alcuni uomini, ma di un intero sistema.

Eppure, nonostante le condanne, nulla cambierà. Perché questa non è la storia di una maniglia marcia da sostituire, ma di un edificio che poggia su fondamenta corrotte! 

La massoneria ufficiale o quella segreta poco importa: il vero problema è che il male si annida lì dove dovrebbe essere combattuto. Nelle procure, nelle commissioni, tra le forze dell’ordine.

Una verità scomoda, ma innegabile. La Sicilia continua a sanguinare, e chi dovrebbe medicare le ferite è - ahimè - spesso chi le infligge!

domenica 29 giugno 2025

Grazie Jeff Bezos, per aver scelto l'Italia. E grazie a chi protesta contro il tuo matrimonio: un lusso che ci ha arricchiti, mentre i miei connazionali si indignano, come sempre, per le cose sbagliate!

Gli italiani sono bravi a protestare per cose futili, come ad esempio il matrimonio di Jeff Bezos e Lauren Sánchez a Venezia, un evento che ha lasciato nella città lagunare non solo pubblicità ma anche milioni di euro, eppure sembra che questa capacità di indignazione si esaurisca rapidamente quando si tratta di questioni davvero importanti. 

È curioso notare come ci si accalchi volentieri per criticare eventi mondani o per lamentarsi di problemi minori, ma quando si parla di referendum, di scelte politiche cruciali, di responsabilità collettive, di scendere in piazza per i propri diritti, ecco che allora tutto tace, già... tutto si dissolve in un silenzio assordante!

Non è raro vedere persone che si infervorano per un parcheggio occupato, per una fila saltata al supermercato o per una multa ingiusta, ma quando si tratta di andare a votare, di prendere posizione contro le inchieste giudiziarie che coinvolgono i nostri politici o di chiedere le loro dimissioni in maniera concreta, ecco che quella passione latita. 

Sì... è come se ci fosse una sorta di meccanismo interno che seleziona ciò che merita il nostro tempo e la nostra energia, privilegiando sempre l’effimero rispetto all’essenziale.

E poi vi sono quelli che preferiscono marciare contro un matrimonio miliardario piuttosto che scendere in piazza per rivendicare giustizia, trasparenza o semplicemente un futuro migliore! Per quest'ultimi è più facile puntare il dito contro qualcosa di esterno, di estraneo, piuttosto che affrontare i nodi interni, quelli che riguardano il sistema, la casta, le disuguaglianze, i privilegi di pochi a discapito di molti. 

E così, mentre i politici indagati restano saldamente al loro posto, protetti da lacchè e compiacenti, loro si distraggono con polemiche sterili che non cambiano nulla, se non forse il nostro umore momentaneo.

Ma chissà... forse è più comodo vivere così, senza mettersi in gioco, senza assumersi la responsabilità di dire basta, di chiedere conto, di pretendere cambiamenti. E difatti alla fine, cosa ci resta? Una società sempre più divisa, sempre più distratta, sempre più incline a dare peso alle cose sbagliate. 

E mentre Venezia diventa teatro di proteste per un evento glamour, altrove, nel silenzio generale, si consumano ingiustizie ben più gravi, quelle che nessuno sembra disposto a contrastare.

È un paradosso che ci accompagna da anni, un vizio nazionale che non accenna a scomparire. Forse sarebbe il caso di fermarsi un attimo, di riflettere su cosa davvero conta, su cosa merita la nostra voce e la nostra presenza. Perché, alla fine, se non lo facciamo noi, chi altri lo farà?

Grazie quindi Jeff Bezos, per aver scelto il nostro Paese e la bellissima Venezia. Ma un grazie va anche a chi ha deciso di protestare contro il tuo matrimonio: un lusso che ci ha arricchiti, mentre i miei connazionali si indignano, come sempre, per le cose sbagliate!

Ed è proprio grazie a quest'ultima riflessione che mi posso permettere di concludere in maniera serena questo mio post, sì... augurando al Sig. Bezos e alla sua consorte tanta e tanta felicità.

sabato 28 giugno 2025

TAORMINA: The White Lotus Effect!

Taormina è da sempre uno dei luoghi più incantevoli al mondo, con quel mare cristallino che abbraccia l’Isola Bella, una gemma sospesa tra cielo e acqua. Salendo verso il borgo, in funivia o lungo le curve panoramiche, si respira una storia fatta di glamour, di stelle del cinema e di notti indimenticabili. 

Negli anni ’60, il jet-set internazionale ne fece la meta più desiderata, con quel tocco di magia dato anche dal casinò “Kursal”, ospitato per pochi anni a Villa Mon Repos.

Di quel periodo, pur non avendolo vissuto di persona (non ero ancora nato), mi è rimasto un ricordo lontano, filtrato dal tempo eppure vivido, già... quelle bellissime fiches in madreperla, così calde al tatto e piene di eleganza, tanto diverse dai freddi e impersonali gettoni di plastica di oggi.

Erano piccole opere d’arte, luminose e preziose, ricavate dal ventre delle conchiglie, e quando l’amico Saro Fichera – ahimè scomparso – me le fece sfiorare tra le dita, sentii il peso di un’epoca leggendaria. Erano le stesse che Cary Grant usava al tavolo da gioco, lo stesso Cary Grant che Hitchcock immortalò in quelle strade, tra i vicoli e i panorami mozzafiato.

E poi loro, le icone: Elizabeth Taylor e Richard Burton, Ava Gardner, Marlene Dietrich, che aveva uno scivolo costruito apposta per lei per scendere sul palco. Fellini, Woody Allen, e poi ancora Tom Cruise, De Niro, Monica Bellucci... Nomi che hanno trasformato Taormina in un palcoscenico senza tempo, dove ogni sera era una festa, ogni incontro una storia da raccontare.

Ricordo ancora le foto conservate negli album, quando in quel periodo della mia giovinezza - siamo alla fine degli anni 80 - trascorrevo le mie notti nella "Villa Mon Repos" ad organizzare le serate di quella che era a suo tempo, la più famosa discoteca dello Jonio, chiamata "Tout Va". 

Anch'io nel mio piccolo come quelle Star passavo le mie notti estive (e anche invernali...) in maniera spensierata, tra luci, musica, risate ed altro ancora, in un’atmosfera che sembrava non finire mai. Poi, come accade per quel jet-set, anche per il sottoscritto quel periodo svanì o almeno così ho creduto per Taormina e per il suo circondario: Giardini Naxos, Recanati, Letojanni...

Viceversa quel borgo ha ritrovato la sua luce, e oggi il mondo se n’è accorto di nuovo. Il New York Times parla di un milione e quattrocentomila presenze solo nel 2024, di hotel di lusso e voli diretti dagli States, di turisti che arrivano per assaporare quel mix unico di storia, cucina e mare.

E mentre la serie HBO la riporta sotto i riflettori, mi tornano in mente le parole di Guy de Maupassant, che definì quel borgo: “un quadro in cui si ritrova tutto ciò che esiste per sedurre occhi, spirito e immaginazione”. 

È così, Taormina non è solo un posto, è un’emozione che ti resta dentro, come quelle fiches di madreperla, come le risate di una notte d’estate, come il riflesso del mare al tramonto. Sì... un luogo che, non importa quanto tempo passi, sa sempre tornare a splendere.

venerdì 27 giugno 2025

Lo scudo 'imperfetto' di Israele? Ma quando mai... una strategia calcolata tra difesa e punizione selettiva!

Nella recente escalation con l’Iran e i suoi alleati, Israele ha subito un attacco massiccio con centinaia di missili e droni lanciati in simultanea.

Eppure, c’è una verità che pochi sanno e si fidano esclusivamente di quanto stanno costatando, non sapendo che quello che viene ora presentato da molti come uno scudo difensivo "vulnerabile" è in realtà una macchina perfetta, orchestrata con precisione millimetrica. 

Sì... so bene che alcuni razzi hanno colpito infrastrutture civili, come il Soroka Medical Center di Beersheba, ma non per un fallimento del sistema, piuttosto, perché Israele ha deciso che quei colpi dovessero arrivare a segno.

Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) dichiarano che "la protezione totale non è tecnicamente possibile", ma questa è una narrazione costruita ad arte: Iron Dome, Arrow e THAAD sono sistemi così avanzati che, se lo volessero, potrebbero intercettare quasi tutto. 

E allora perché lasciar passare qualche missile? Perché il mondo deve credere che Israele sia vulnerabile, che abbia dei limiti, che sia esposta alla minaccia iraniana e ai gruppi terroristici. È un gioco strategico, una partita a scacchi dove ogni mossa è studiata.

Israele non solo intercetta i missili, ma ne calcola le traiettorie con anticipo, determinando esattamente dove cadranno. Attraverso algoritmi sofisticati e radar avanzati, il sistema decide quali obiettivi possono essere colpiti e quali no. 

E qui emerge un dettaglio inquietante: molti dei missili che hanno superato le difese sono esplosi in aree a maggioranza araba, comunità spesso critiche verso il governo Netanyahu. Non è un caso. È una scelta. Una punizione calcolata, un monito a quelle frange della popolazione che si oppongono alle politiche di Tel Aviv, mascherato da "fallimento tecnico".

La prova? I numeri. Nonostante il lancio di centinaia di missili, le vittime israeliane sono state irrisorie rispetto alla potenza distruttiva dispiegata. Se davvero lo scudo avesse fallito, le esplosioni nelle città avrebbero causato un massacro. Invece, i danni sono stati contenuti, quasi come se fossero stati "dosati". 

Troppa precisione per essere un incidente. Troppa selettività per essere casuale. È l’ennesima dimostrazione che quei colpi sono stati lasciati passare deliberatamente, con obiettivi precisi: alcuni simbolici, altri politici, altri ancora punitivi.

Lo scudo israeliano è una rete stratificata, un sistema "a cipolla" che integra Iron Dome per le minacce a corto raggio, Arrow per i missili balistici e THAAD per la fase terminale degli attacchi. Funzionano alla perfezione, ma Israele ha interesse a mostrare qualche falla. Iron Dome ha un’efficacia tra l’80% e il 90%, ma quel 10-20% di missili che sfuggono non sono un errore di calcolo: sono una scelta. Un modo per mantenere viva la percezione di una minaccia reale, per giustificare azioni future, per ricordare al mondo che il pericolo esiste e che Israele deve essere sempre un passo avanti.

Arrow, sviluppato con gli Stati Uniti, è capace di intercettare missili anche oltre l’atmosfera, eppure qualche attacco dal Yemen è arrivato a destinazione. THAAD, con la sua tecnologia "hit-to-kill", potrebbe neutralizzare quasi tutto, eppure qualcosa sfugge. Non è un caso. 

È calcolato. Proprio come sapevano che Hamas avrebbe varcato i confini il 7 ottobre, proprio come sapevano che alcuni missili iraniani avrebbero colpito. I danni collaterali servono, purtroppo, a raggiungere obiettivi più grandi. Lo abbiamo visto con l’11 settembre, lo stiamo vedendo ora.

Il sistema difensivo israeliano non è infallibile solo perché Israele ha deciso che non debba esserlo!

Le criticità – saturazione, costi elevati, tecnologie emergenti – sono enfatizzate per creare un’immagine di fragilità controllata. Ma la verità è che, se lo volessero, potrebbero bloccare quasi tutto. E allora perché non lo fanno? 

Perché nella guerra moderna, a volte, è più utile far credere di essere vulnerabili che mostrarsi invincibili. Perché il vero potere non sta solo nell’intercettare i missili, ma nel controllare la narrazione che li circonda. E, soprattutto, nel decidere chi deve pagare il prezzo di quei pochi colpi che "sfuggono".

giovedì 26 giugno 2025

Like, share, obbedisci: chi controlla l'opinione controlla il potere!

I fenomeni d’opinione non sono una novità, ma oggi hanno assunto una forma diversa, pervasiva, quasi opprimente...

Non si tratta più di semplici correnti di pensiero che si alternano nel dibattito pubblico, bensì di un flusso ininterrotto, un rumore di fondo che plasma percezioni, orienta scelte e, soprattutto, indebolisce la capacità di discernere tra ciò che è essenziale e ciò che è costruito. 

Potremmo definirlo l’era del “potere dell’eco”, una dittatura dell’opinione che non si limita a influenzare, ma determina la realtà stessa, spesso al servizio di chi detiene il controllo mediatico, economico o politico.

Ci si sveglia ogni mattina immersi in un clima già definito, in una narrazione preconfezionata, come se il pensiero collettivo fosse stato deciso prima ancora che noi ci svegliassimo...

Le notizie non vengono solo raccontate, vengono incorniciate, selezionate, accompagnate da commenti che ne fissano in anticipo l’interpretazione. E così, anche quando crediamo di formarci un’opinione, in realtà stiamo solo scegliendo tra quelle che ci vengono offerte, magari illudendoci di averle scelte liberamente. 

Il potere, oggi, non agisce tanto imponendo verità, quanto creando confusione, moltiplicando le fonti e i punti di vista fino a rendere impossibile ogni certezza, ogni confronto sincero.

Il problema difatti non è rappresentato dalla sola manipolazione in sé, ma dall’accelerazione con cui avviene, la mancanza di pause, di silenzi in cui fermarsi a riflettere. Siamo costantemente immersi in narrazioni contrapposte, ognuna presentata come l’unica verità, mentre il terreno comune, lo spazio del dialogo autentico, si sgretola. 

Ogni argomento viene ridotto a battaglia, ogni discussione a schieramento, e alla fine non resta che la fatica di capire davvero, la frustrazione di non riuscire a distinguere il fondato dal sensazionale, il serio dal rumoroso. Così, molti rinunciano. Preferiscono seguire la corrente, affidarsi a chi sembra parlare più forte, più chiaro, più sicuro, anche quando quel linguaggio nasconde solo semplificazioni pericolose.

E in questo caos, la democrazia rischia di diventare un simulacro, un gioco di apparenze in cui ciò che conta non è più il bene collettivo, ma la capacità di dominare il racconto. I cittadini, invece di essere protagonisti di un processo partecipativo, si trasformano in destinatari passivi di messaggi, oggetti di sondaggi e statistiche, mai soggetti di una vera rappresentanza. 

E la politica, che dovrebbe guidare il cambiamento, spesso lo subisce, inseguendo gli umori del momento, piegandosi all’urgenza delle notifiche, abbandonando qualsiasi prospettiva lunga o visione complessiva.

Comprenderete come la posta in gioco sia alta, perché il futuro della democrazia dipende dalla nostra capacità di ristabilire un equilibrio tra due forze che dovrebbero completarsi, ma che troppo spesso si contrappongono: la politica e i media. 

La politica, se vuole sopravvivere, deve tornare a essere qualcosa di più di un’elaborazione di sondaggi e tweet. Deve riscoprire il contatto diretto, la fatica dell’ascolto, il coraggio di sporcarsi le mani con le paure e i bisogni reali delle persone. Deve smettere di inseguire l’onda emotiva del momento e ritrovare la sua funzione più nobile: mediare, rappresentare, costruire, ma soprattutto deve ricominciare a parlare ai cittadini come adulti, non come utenti da monetizzare o follower da conquistare.

Altrimenti, al momento opportuno, sarà travolta. Perché la rete, i social, i media amplificano tutto, ma risolvono poco. Trasformano il malcontento in hashtag, le proteste in le proteste in fenomeni mediatici, ma raramente restituiscono complessità o soluzioni. E se la politica abdica al suo ruolo, se si riduce a mera reazione al clamore mediatico, allora non ci sarà più spazio per una vera rappresentanza. Ci sarà solo un eterno presente di opinioni contrastanti, dove chi urla più forte o ha più mezzi a disposizione decide cosa pensare e come farlo. 

Eppure, una via d’uscita esiste. Passa dalla ricostruzione di un legame autentico tra istituzioni e cittadini, da un’informazione che torni a fare il suo mestiere anziché inseguire click, da una politica che smetta di avere paura della complessità e riparta dalle strade, dalle piazze, dalle storie concrete. Serve ritrovare il valore dello sguardo diretto, del confronto faccia a faccia, del tempo necessario per ascoltare davvero chi la pensa in modo diverso. Serve una cultura della responsabilità, una consapevolezza diffusa che ogni opinione, per essere tale, debba poggiare su basi solide, su fatti, su esperienze condivise.

Perché la democrazia non è un algoritmo che reagisce in tempo reale agli umori del pubblico, ma un patto che richiede tempo, ascolto e, soprattutto, coraggio. Coraggio di resistere alla tentazione di semplificare tutto, di ridurre la realtà a like e condivisioni. 

Coraggio di ricordare che, prima di ogni narrazione, ci sono persone, bisogni, speranze, e che senza di esse, qualsiasi opinione, per quanto urlata, è solo un vuoto esercizio di potere!

mercoledì 25 giugno 2025

Il cambiamento viene da dentro: ma fino a che punto la forza interna può piegare una dittatura?

La convinzione che un intervento esterno possa liberare un popolo da un regime oppressivo è una suggestione forte, seducente, ma la storia ci ha più volte dimostrato quanto essa sia fragile nella realtà dei fatti. 

Le cose non funzionano quasi mai così. Dietro ogni tentativo di imporre il cambiamento con la forza si cela spesso un groviglio di conseguenze inaspettate, un caos difficile da controllare e un ritorno alla stabilità che nulla ha a che fare con la libertà auspicata.

Prendiamo l’Iran come esempio. Molti osservano quel Paese e vorrebbero che qualcosa cambiasse, che le donne possano camminare per strada senza dover temere di essere fermate, insultate o peggio, solo perché hanno osato scoprire i capelli. 

Ma non si tratta soltanto dell’hijab: è un simbolo di controllo, di sottomissione, di un sistema che vede nelle donne non degli individui liberi, ma delle sentinelle della morale maschile. Eppure, anche se desideriamo ardentemente che quelle donne possano scegliere, dobbiamo chiederci: preferiamo donne vive sotto un regime ingiusto o donne morte per una libertà calata dall’esterno, con bombe e missili? La risposta, purtroppo, è chiara per chi vuole davvero il bene di quel popolo.

Il vero cambiamento, quello che dura, nasce sempre da dentro. Non è sufficiente che qualcuno da fuori decida di "aiutare", per quanto buone possano essere le sue intenzioni. Il problema è che nei regimi autoritari, dove il potere si regge su pochi e su una rete di repressione ben consolidata, il popolo difficilmente riesce a ribellarsi in massa. Perché sa perfettamente cosa significherebbe: arresti, torture, morte. 

Ma d'altronde, quanti sono stati realmente quei casi storici in cui un popolo ha fatto crollare il proprio regime dall’interno? Pochissimi. Quasi nessuno. Il muro di Berlino, ad esempio, è uno di quei momenti in cui sembrò che la pressione interna fosse sufficiente. Nessun esercito straniero entrò in Germania Est, nessun governo estero dette il via alla rivoluzione. Fu la gente comune, stanca di divisioni e menzogne, a spingere per abbattere quel muro. Forse un giorno accadrà anche in Iran, ma sarà una scelta loro, non un effetto collaterale di interessi geopolitici altrui.

I regimi autoritari, quando percepiscono una minaccia esterna, trovano sempre nuove ragioni per giustificare il proprio potere. Il nazionalismo diventa un collante potentissimo, capace di far dimenticare ai cittadini persino le ingiustizie quotidiane. Chi criticava il governo fino al giorno prima, improvvisamente si schiera con esso, non per fedeltà ideologica, ma per paura. 

Paura del nemico esterno, paura di perdere quel poco che si ha. Israele lo sa bene: ogni conflitto ha sempre rafforzato il consenso verso i suoi leader, anche quelli più controversi. E in Iran, un attacco esterno avrebbe lo stesso effetto: gli ayatollah verrebbero riabilitati come paladini della patria, mentre i movimenti riformisti verrebbero costretti a tacere o a schierarsi con il regime, per non apparire traditori.

Guardiamo ciò che è accaduto in Iraq, in Afghanistan, in Siria. In Iraq è stato rovesciato Saddam Hussein, un dittatore sunnita, per installare un governo sciita, che poi si è rivelato filo-iraniano. Presto ci siamo accorti che quegli stessi sciiti non ci andavano più a genio e abbiamo ricominciato a guardare con interesse i sunniti, dimenticando però che furono proprio loro a dar vita all’ISIS. In Afghanistan, dopo anni di guerra, i talebani sono tornati al potere, gli stessi che erano stati combattuti con tanto impegno. In Siria, si voleva eliminare Assad, ma oggi trattiamo con ex jihadisti che esultarono per l’11 settembre. Già... un circolo vizioso senza fine, in cui i liberatori di ieri diventano i nemici di domani, e ogni azione genera reazioni imprevedibili.

Tutto questo insegna una cosa fondamentale: i cambiamenti imposti dall’esterno non portano democrazia né pace, ma instabilità, caos e sofferenza. Quei regimi cadono, certo, ma al loro posto spesso non arriva nulla di meglio. Anzi, il vuoto di potere crea nuovi mostri, nuove guerre civili, nuove oppressioni. 

Difatti, credo che se in Iran dovesse partire una vera rivoluzione dal basso, vedremmo scappare i governanti, i militari, le loro famiglie, tutti coloro che hanno alimentato quel sistema. Vedremmo cadere statue, distruggere immagini, cancellare murales con urla di libertà che echeggerebbero in tutto il paese. Ma finché questa presa di coscienza non sarà collettiva, finché non saranno gli iraniani stessi a decidere di alzarsi, non credo che alcuna bomba possa servire a qualcosa. Al contrario, ogni esplosione sarebbe solo un passo ulteriore verso l’abisso.

Per questo, per quanto doloroso e lento, l’unico cammino sostenibile è quello della ribellione interna. È l’unica strada che, seppur insanguinata, può dare frutti duraturi. Ed è per questo che, nonostante il desiderio di vedere un Iran libero, in molti si stanno chiedendo: finché non sarà il popolo a muoversi, non sarebbe meglio lasciare stare le bombe e aspettare che la storia prenda il suo corso?

Il sottoscritto ritiene però che senza un sostegno esterno – certo non di natura militare, ma politico, culturale ed economico, proveniente soprattutto dalla comunità internazionale e in primo luogo dai paesi arabi – la rivolta interna auspicata, quella in cui il popolo iraniano trovi finalmente la forza di alzarsi e abbattere il regime, resti purtroppo una prospettiva assai remota.

Dopotutto, quanti anni sono passati? Quarantasei lunghi anni sotto il tallone di un governo religioso e militare che non ha mai vacillato davvero, nonostante le proteste, le rivolte giovanili, le lotte delle donne. Eppure nulla è servito a scalfire il potere radicato. Quindi, se dopo tanto tempo il sistema non è crollato, non possiamo - in questo particolare momento storico - ignorare che da solo quel popolo difficilmente riuscirà a liberarsi!



martedì 24 giugno 2025

Offresi aspirante regista per film sulla "gestione statale italiana": budget 2 milioni (ma ne bastano 800mila se il film non lo giriamo davvero).

Sì… forse è arrivato il momento di abbandonare la passione del "blogger" e dedicarmi all’arte del cinema... 

Già... potrei esordire come regista con un film dal titolo emblematico: "Truffe ai danni dello Stato" -una tragicommedia ispirata a fatti realmente accaduti.

D’altronde, se bastano un progetto fasullo e un po’ di fantasia per ottenere finanziamenti pubblici, viene spontaneo chiedersi: perché non approfittarne? 

E magari, per rendere il progetto più autentico, potrei presentare il tutto con uno pseudonimo, un bel "tax credit" già prenotato, e qualche scena girata solo nella mia immaginazione. Peraltro, se lo Stato regala soldi per film che non esistono, chi sono io per contraddire il sistema?

Come dite? La sceneggiatura? Ah... ma quella è già stata scritta nella realtà e la cosa bella è che non servono neppure effetti speciali: basta la solita, squallida normalità italiana!

Lo so... viene da piangere e allora ripartiamo dall'inizio...

Sì... la storia rappresenta un pseudo regista e il suo film fantasma; la perfetta metafora di un sistema che, invece di sostenere la cultura, regala soldi pubblici a chiunque sappia aggirare le regole con un po’ di fantasia e un passaporto falso. Ottocentomila euro svaniti nel nulla, come se fossero stati gettati nel vento, mentre lo Stato fingeva di controllare. 

Eppure, basterebbe un minimo di buonsenso per capire che se un film non esiste, non può aver diritto a un finanziamento. Ma qui, evidentemente, il buonsenso è un optional.

Il trucco era semplice: presentare documenti falsi, inventarsi un regista inesistente, e approfittare di un buco normativo che non richiedeva neppure la prova che il film fosse stato girato. Così, mentre il ministero si illudeva di aver visto "spezzoni" di un’opera mai realizzata, quel pseudo regista intascava (o quasi) un credito fiscale da 836mila euro. Una farsa tragicomica, se non fosse che quei soldi erano nostri, dei contribuenti, e potevano essere spesi per cose reali, come scuole, ospedali, o magari per finanziare veri film.

E mentre qualcuno giocava con identità false, il governo annunciava trionfante il successo del tax credit, senza accorgersi che il sistema era così fragile da poter essere raggirato da chiunque avesse un po' di malizia. Ma non preoccupatevi: oggi, dopo lo scandalo, il ministro ha promesso nuovi controlli. Peccato che servissero due omicidi e un film inesistente per rendersi conto che forse, già... forse, qualcosa non funzionava.

La cosa più grottesca? Questo non è un caso isolato. È solo l’ultimo di una lunga serie di sprechi, dove i soldi pubblici finiscono in progetti evanescenti, mentre il cinema vero soffre. Eppure, il tax credit potrebbe essere uno strumento prezioso, se solo lo si gestisse con un minimo di serietà. Invece, siamo qui a discutere di come un truffatore abbia preso in giro lo Stato, mentre i politici si affrettano a fare dichiarazioni indignate, come se non avessero avuto anni per sistemare le cose.

Ed allora, invece di finanziare film immaginari, dovremmo produrne uno sulla realtà: un thriller sulla burocrazia italiana, dove i soldi spariscono nel nulla, i controlli sono solo sulla carta, e l’unico finale possibile è l’ennesima beffa per chi crede ancora nello Stato. 

E pensare che a me, per scrivere questo post, non hanno dato nemmeno un euro di tax credit; mi sarebbero bastati poco meno di due milioni di euro per raccontare questa farsa tragicomica. Ma forse è meglio lasciar perdere: la mia vena artistica resterà un sogno inespresso, mentre lo Stato continuerà a finanziare opere che nessuno vedrà mai. D’altronde, in questo paese, l’unica vera arte è: l’arte della fuga… dei capitali.

D'altronde, con le regole in vigore in questo nostro Paese, realizzare truffe è qualcosa di banale, all'ordine del giorno, difatti... basterà a qualcuno presentare un nuovo progetto falso e un nome inventato, ed altri milioni seguiranno la strada della sparizione.

Tanto - lo ripeto da anni come un disco rotto - verifiche non ne fa nessuno. E mentre i fondi evaporano, l'unica "opera d'arte" che ne risulta è la perfezione grottesca del sistema: una macchina che trasforma denaro pubblico in fantasia.

Consentitemi di aggiungere: con un efficienza da "Premio Oscar"!

lunedì 23 giugno 2025

Un mondiale senza vincitori: Quando i confini diventano campi di battaglia

Buongiorno. Questa mattina su un social mi sono imbattuto in un’immagine che, con amara ironia, trasformava il mondo in un tabellone di calcio. 

Un calendario come quelli della FIFA, ma invece delle squadre nazionali c’erano interi Paesi, alcuni già in guerra, altri in attesa del proprio turno sul campo di battaglia. Un gioco macabro dove il pallone era sostituito da bombe e i tifosi da popoli in fuga.

Quella rappresentazione grottesca mi ha fatto riflettere su come abbiamo normalizzato il conflitto, riducendolo a partita da seguire tra un caffè e un titolo di giornale. 

Eppure, dietro ogni "incontro" di quel tabellone maledetto, non ci sono risultati provvisori, ma ferite che non smetteranno di sanguinare. Perché la guerra non è uno sport: quando finisce, non ci sono promozioni o retrocessioni, solo vincitori che presto scopriranno di aver perso qualcosa, e vinti che non dimenticheranno.

Forse il lato più tragico di tutto questo è la rassegnazione con cui accettiamo quel tabellone come fosse inevitabile. Come se l’umanità avesse scelto di giocare a scaricabarile con la propria storia, dove l’unica regola è che prima o laterale, tutti perdiamo. 

Quell’immagine ironica, in fondo, non è una caricatura. E' uno specchio, sì... riflette un mondo che ha smesso di chiedersi se vi siano alternative al conflitto, limitandosi a scommettere su quando scoppierà il prossimo.

Già... perché dietro ogni conflitto vi sono ferite mai rimarginate, confini tracciati con il sangue, identità che si definiscono per opposizione. Quello che oggi chiamiamo "crisi" è spesso il risultato di decenni, a volte secoli, di silenzi carichi di rancore, eppure, il mondo sembra aver dimenticato che nessuna guerra finisce davvero con un trattato.

Prendiamo il Nagorno-Karabakh, ad esempio. Per alcuni è solo una striscia di terra contesa, per altri è il simbolo di un’identità negata. Baku e Yerevan continuano a giocare una partita dove ogni mossa è calcolata, ogni ritirata è temporanea, e ogni tregua nasconde la preparazione del prossimo round. Le vittime? Numeri su un bilancio, finché non diventano fantasmi che aleggiano tra le macerie, ricordando a tutti che la pace firmata su una carta non placa gli spiriti di chi ha perso tutto.

E poi c’è lo scontro silenzioso, ma non per questo meno pericoloso, tra Cina e Taiwan. Pechino gioca una partita di pazienza, convinta che il tempo lavori per lei, mentre Taipei resiste, consapevole che un solo passo falso potrebbe significare la fine. I cieli si riempiono di aerei, il mare di navi, e le dichiarazioni ufficiali suonano sempre più come ultimatum. Ma in questa partita, non ci sono spettatori neutrali: il mondo intero è costretto a schierarsi, e ogni mossa avvicina l’intero pianeta a un baratro.

E allora, tornando a quel tabellone ironico, viene da chiedersi: chi vincerà questo torneo? La risposta è semplice: nessuno. Perché nelle guerre non esistono vincitori, solo perdenti che impiegano più tempo a rendersene conto.

Osserviamo quanto accade altresì tra Cambogia e Thailandia che, potrebbe apparire ai più, come un episodio marginale, quasi invisibile rispetto alle cronache quotidiane, eppure racchiude in sé il peso di una storia millenaria, di popoli che hanno condiviso e diviso lo stesso territorio, di sacralità dei luoghi e di identità che si scontrano senza mai davvero incontrarsi.

E proprio quando ci si illude che questi attriti possano restare localizzati, ecco che emergono legami inaspettati: il rapporto tra India e Pakistan, un nodo gordiano che da decenni tiene in scacco l’Asia meridionale e con essa gran parte del sistema internazionale. 

Lì, nel cuore del subcontinente, si incrociano religione, identità, acqua, energia e armi nucleari. Un singolo gesto sbagliato, un attentato imprevisto o un errore di comunicazione possono far precipitare due nazioni intere verso un baratro dal quale nessuno uscirebbe indenne.

Le loro dispute territoriali, in particolare per il Kashmir, non sono solo una ferita aperta, ma uno specchio distorto di quel che succede in altre aree del globo, dove il diritto all’autodeterminazione si scontra con la logica della sicurezza nazionale. Così, mentre New Delhi e Islamabad si sfidano a distanza con test missilistici e movimenti militari, altrove si consumano altri drammi simili, sebbene meno visibili.

La Turchia e la Siria, ad esempio, vivono un rapporto complicato, fatto di confini porosi, ingerenze reciproche e visioni opposte sul futuro del Medio Oriente. Ankara cerca di espandere la propria influenza, nonostante le criticità interne, mentre Damasco, ridotta a un frammento di sé stessa dopo anni di guerra civile, tenta di riprendere il controllo del proprio destino, appoggiata da chi vede nella resistenza siriana una forma di legittimità politica.

Nel frattempo, nel Caucaso, Azerbaigian e Armenia continuano a girare attorno allo stesso punto nevralgico: il Nagorno-Karabakh. Dopo il breve conflitto del 2020, che ha visto Baku prevalere grazie a nuove tecnologie belliche e supporto esterno, l’apparente pace è fragile come il vetro. 

Le popolazioni locali non dimenticano, né perdonano e ogni volta che un soldato viene ucciso lungo il confine, o un villaggio viene bombardato, si riapre una ferita che nessun accordo diplomatico riesce davvero a rimarginare.

E ancora, nel cuore dell’Asia orientale, il contrasto tra Nord Corea e Sud Corea non accenna a placarsi. Seoul continua a cercare dialogo e aperture, pur mantenendo una rete difensiva poderosa, mentre Pyongyang, isolata ma determinata, insiste nel mostrare la propria forza con lanci di missili sempre più avanzati e minacce dirette.

L’intera penisola coreana è un campo magnetico di tensioni, dove gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e la Russia giocano partite parallele, usando Seul e Pyongyang come pedine in un gioco di potere globale.

Ma forse il fronte più delicato, quello che potrebbe innescare una reazione a catena impossibile da controllare, è rappresentato dalla situazione tra Cina e Taiwan. Pechino non ha mai nascosto la sua volontà di riunificare l’isola sotto il proprio controllo, considerandola parte integrante del proprio territorio, mentre Taipei, forte del sostegno di alcuni Paesi occidentali, resiste con orgoglio e determinazione.

Gli ultimi mesi hanno visto aumentare significativamente le incursioni aeree cinesi nello spazio taiwanese, accompagnate da manovre navali e dichiarazioni sempre più aggressive da entrambe le parti.

Questa non è più una semplice disputa bilaterale: è un punto di incontro tra interessi geopolitici globali, dove Washington e Pechino si misurano quotidianamente, consapevoli che un passo falso potrebbe cambiare il corso della storia.

Persino in Africa, dove i conflitti spesso passano inosservati, le tensioni si accumulano come nubi prima di un temporale. Vedasi il brutale conflitto in Sudan che ha costretto quasi 13 milioni di persone a fuggire dalle proprie case e mentre la violenza continua ad intensificarsi, i civili in fuga cercano disperatamente sicurezza e protezione nei Paesi vicini. 

E poi c'è il Sahel, il Corno d’Africa, la regione dei Grandi Laghi: territori dove le frontiere sono state disegnate a tavolino, ignorando tribù, lingue, legami antichi. E quando scoppia la violenza, nessuno riesce più a distinguere tra cause e pretesti. Si combatte per il potere, per le risorse, per la sopravvivenza, ma soprattutto, si combatte perché ormai non si ricorda più come fare altrimenti.

Tutti questi conflitti, apparentemente distanti, sono invece profondamente connessi. Quando uno si accende, gli altri tremano. 

E mentre leader e governi parlano di cooperazione e multilateralismo, i fatti raccontano di schieramenti crescenti, di basi militari che si espandono, di alleanze che si rafforzano e di una fiducia reciproca che si assottiglia sempre di più.

Non è detto che tutto questo debba necessariamente sfociare in un conflitto generalizzato, ma non possiamo permetterci di ignorare i segnali che il mondo sta lanciando.

La diplomazia deve tornare a essere strumento prioritario, non solo un discorso da summit annuale.

Perché il vento dell’incertezza soffia sempre più forte e il filo su cui cammina la stabilità globale si fa sempre più sottile.

Ogni bomba che esplode, ogni confine che viene spostato, ogni trattato stracciato, non fa che seminare i semi del prossimo conflitto. E mentre i leader parlano di "vittoria" o "pace duratura", da qualche parte, un bambino cresce con l’immagine di una casa distrutta, e impara che la giustizia si ottiene solo con la forza.

Come dicevo sopra, invece di un tabellone, avremmo bisogno di uno specchio, per ricordarci che dietro ogni bandiera, ogni strategia, ogni discorso politico, ci sono persone che chiedono solo una cosa: vivere senza paura. Ma finché continueremo a vedere il mondo come un campo di battaglia, anziché come una casa comune, quel desiderio resterà ahimè un’utopia.

E il torneo continuerà, senza vincitori, ma con milioni di sconfitti!

domenica 22 giugno 2025

Ogni guerra è un debito che la storia farà pagare!

C’è qualcosa di stranamente familiare nel modo in cui i conflitti si ripetono, come se la storia fosse un palcoscenico su cui gli stessi attori, con maschere diverse, recitano sempre lo stesso dramma. 

I raid aerei sugli impianti nucleari iraniani non fanno eccezione e hanno immediatamente acceso quel vortice di dichiarazioni contrapposte che ormai conosciamo fin troppo bene. 

Da una parte, l’Iran ribadisce con orgoglio che il cemento può essere distrutto, ma la conoscenza umana no, che le strutture crollano ma non la volontà di costruirne di nuove. 

Dall’altra, Washington risponde con quel tono asciutto e calcolato che le è proprio, come a dire che la pace ha un prezzo e quel prezzo si paga in termini di forza, minacce e dimostrazioni di potere.

Ma al di là delle parole ufficiali, al di là dei comunicati stampa e delle analisi strategiche, ciò che veramente si muove sotto la superficie è qualcosa di meno visibile e molto più pericoloso: il risentimento!

Non è solo una reazione immediata, non è semplice indignazione politica, ma è un sentimento che si incarna nelle persone, nelle culture, nei racconti che i popoli si tramandano nel tempo. 

Quando Teheran dice che non dimenticherà, non sta facendo una promessa di vendetta, sta seminando un seme. E quel seme crescerà, anche a distanza di anni, di decenni, di secoli, diventando parte del tessuto identitario di un intero popolo.

Gli esperti, intanto, continuano a parlare di equilibri, di deterrenza, di accordi da negoziare o imporre. Come se tutto questo potesse essere gestito con un foglio di calcolo, dove ogni azione corrisponde a una reazione misurabile. 

Ma nessun modello riesce davvero a tenere conto della profondità emotiva di un popolo ferito, dell’accumulo di offese che si sedimentano nel tempo, diventando materia viva della memoria storica. Perché ogni colpo sparato, ogni missione compiuta, ogni parola pronunciata con arroganza, lascia un segno che va ben oltre il momento in cui le armi smettono di sparare.

E allora ci chiediamo, quasi senza rendercene conto, quanto durerà questa rabbia? Quante volte tornerà a galla, mutando forma, travestendosi da nuovo nemico, nuova causa, nuovo conflitto? Perché qualsiasi guerra, anche quella che si crede giusta, porta con sé un carico di dolore che non si esaurisce mai del tutto. Si trasforma, si nasconde, si accumula dentro le pieghe della storia, fino a che non trova un’altra occasione per manifestarsi.

Quel che resta dopo i bombardamenti non è solo il cemento spezzato o le strutture danneggiate, ma uno squarcio aperto nel rapporto tra due mondi, due visioni, due modi diversi di stare al mondo. E quando il rumore degli aerei si sarà spento e i riflettori si saranno spostati altrove, resterà quel silenzio pesante, fatto di domande che nessuno sa davvero come risolvere. 

La pace, quando arriverà, sarà fragile. Sarà provvisoria. E soprattutto, porterà con sé il peso delle scelte di oggi, scelte che altri dovranno sopportare, comprendere e forse, un giorno, pagare.

sabato 21 giugno 2025

Il fantasma dello scrivere (e il vuoto dietro le quinte).

C’è qualcosa di profondamente ironico nel modo in cui, oggi, chiunque si svegli con un minimo di notorietà, si scopra improvvisamente “scrittore”. 

Non importa se per tutta la vita hanno parlato solo di calcio, gossip o reality show: basta un contratto con un editore compiacente, ed eccoli lì, autori di romanzi, "memoir", riflessioni filosofiche che non hanno mai avuto. 

Eppure, i libri escono... e qualcuno - solitamente scialbi fan, esigui follower o per lo più familiari e/o amici - li compra.

Il sospetto, più che legittimo, è che dietro quelle copertine patinate si nasconda un esercito di "ghostwriter", professionisti dell’ombra che trasformano quelle chiacchiere da backstage in prosa stampata. 

Non sarebbe un problema, se non fosse che questa pratica svuota ancora di più un mercato editoriale già allo sfascio, dove l’unico vero valore non è più la scrittura, ma il nome posto in copertina. 

Che sia un calciatore, un influencer o un comico di terza serata, poco importa: l’importante è che il pubblico riconosca la faccia, anche se poi il contenuto, è puro cartone pressato!!!

E qui viene il bello. Perché mentre questi "libri-fantasma" vivono il loro breve momento di gloria (di solito lo spazio di una stagione, tra una presentazione imbarazzante e un tweet promozionale), migliaia di testi scritti da autori veri, finiscono ahimè nel dimenticatoio. 

Già... perché senza notorietà o dovrei aggiungere la parola "soldi", sì... senza alcuna mirata promozione, tutto si riduce esponenzialmente di numero, quello che nessuno legge. 

Difatti molti di questi libri diventano carta straccia ancor prima di essere stati sfogliati, sepolti sotto montagne di “opere” firmate da chi, viceversa, non ha mai letto neanche un libro, quantomeno mai fino alla fine.

La verità è che scrivere è un mestiere, non un hobby per annoiati, mediocri, vuoti o dilettanti (certamente senza arte né parte) eppure, in quest’epoca di contenuti "usa e getta", la differenza tra chi sa scrivere e chi no, si è volatilizzata. 

Basta avere un seguito, un amico di un amico editore, ed ecco ottenuto l'aggancio, cui si somma un poi un po' di faccia tosta (e forse qualche concessione in più...) ed allora, anche l’ultimo degli analfabeti funzionali può fregiarsi del titolo di “autore”, p0eccato che, a conti fatti, di quel libro non resterà nulla, già... nemmeno il ricordo.

E forse è proprio questo il punto: in un mondo dove tutto è merce, anche la letteratura è diventata un prodotto a scadenza breve. Una volta esaurito il clamore iniziale, finisce nel dimenticatoio, insieme alle carriere di chi l’ha “scritto”. 

E mentre i "ghostwriter" continuano a lavorare nell’ombra, i veri scrittori sopravvivono ai margini, in attesa che qualcuno si accorga che, sotto tutta quella polvere, c’era ancora qualcosa da leggere...

venerdì 20 giugno 2025

Finché non estirpiamo questo marciume, non ci sarà futuro per il Paese.

C’è qualcosa di profondamente malato nel modo in cui il potere si muove, qualcosa che va ben oltre la corruzione occasionale e che affonda le sue radici in un sistema costruito per proteggere se stesso e i suoi protagonisti. 

Osservate con attenzione tutti quei politici che all’improvviso decidono di dimettersi, quasi sempre poco prima che emergano notizie poco piacevoli sul loro conto, noterete come il più delle volte, non si tratta di vere rinunce ma solo di manovre preventive, una sorta di passo indietro calcolato per non bruciare definitivamente la propria immagine e lasciare aperta una porta da cui rientrare quando l’attenzione si sarà spostata altrove. 

A questi soggetti si sommano poi tutta una serie di imprenditori che, pur essendo sotto inchiesta (o addirittura esser stati già condannati...), continuano a vincere appalti pubblici, aggiudicandosi commesse milionarie come se nulla fosse. 

Tutti sanno, ma nessuno fa niente! Le Istituzioni tacciono, chi dovrebbe vigilare sembra guardare da un’altra parte e alla fine ci ritroviamo a parlare di quei meschini impiegati pubblici, "infedeli", che compaiono puntualmente nelle liste dell’agenda di quell’imprenditore che ogni mese si premura di far arrivare a ciascuno la sua bustarella.

Questo non è frutto del caso, né tantomeno di singole deviazioni morali. No, è qualcosa di più strutturato, un meccanismo perverso e perfettamente oliato dove politica e alcuni pezzi dello Stato si intrecciano in un gioco sporco che ha poco a che fare con il bene comune e molto con l’arricchimento di pochi. 

Pensiamo ai casi recenti: politici indagati per associazione a delinquere, voto di scambio, tangenti, truffa, turbativa d’asta. Sono centinaia i nomi coinvolti, eppure molti di loro occupano ancora ruoli di potere, altri gestiscono affari con la stessa naturalezza di sempre, distribuendo incarichi e favori ai loro fedelissimi. 

La cosa più assurda non è neanche il fatto che siano finiti nei guai, quanto il modo in cui il sistema reagisce al loro allontanamento apparente. Si crea immediatamente un vuoto che viene colmato da altri imprenditori con interdittive alle spalle, da funzionari infedeli che ormai da anni alterano gare d’appalto senza mai essere fermati, cui seguono assessori che fanno da ponte tra soldi pubblici e interessi privati.

E quando finalmente qualche inchiesta giudiziaria comincia a scoperchiare il vaso, ecco che improvvisamente arrivano le dimissioni, sempre motivate da ragioni personali o familiari. Una commedia all’italiana, recitata così tante volte da aver perso ogni credibilità. Ma quanti sono realmente caduti in disgrazia? 

Quanti hanno davvero pagato per i loro errori? Ormai da oltre trent’anni assistiamo a questa sceneggiata, riproposta in ogni città, in ogni regione, come se fosse diventata la regola e non l’eccezione. Non si tratta più di singoli episodi isolati, ma di un vero e proprio metodo, consolidato nel tempo e ormai radicato nella nostra quotidianità.

L’imprenditoria malsana, quella che negli anni abbiamo visto sfilare in televisione, sui giornali e sui social, non ha servito soltanto la criminalità organizzata, ha altresì alimentato anche quel pezzo dello Stato che avrebbe dovuto controllarla. 

Funzionari, dirigenti, politici che invece di vigilare sono diventati complici, garantendo che il flusso di denaro e soprattutto i favori non si interrompessero mai. Un circolo vizioso in cui la politica si nutre di affari sporchi e gli affari sporchi si nutrono della politica, in un abbraccio mortale che strangola ogni possibilità di cambiamento.

Allora chiedo: chi mai potrà smantellare questo meccanismo? Se la politica continua a perseguire i propri interessi opachi, gli scandali che leggiamo ogni giorno saranno semplicemente fuochi di paglia, destinati a spegnersi senza lasciare traccia. 

La corruzione non è più un incidente di percorso, è diventata strutturale, quasi inevitabile. È come un cancro che si autoalimenta grazie a politici corrotti finanziati da imprenditori poco puliti o legati alla criminalità, i quali a loro volta chiedono favori a burocrati che, in cambio della carriera, chiudono entrambi gli occhi.

Ma una speranza c’è. Forse dobbiamo tornare a quel momento storico del 1945, quando il Paese, dopo anni di guerra e umiliazioni, seppe rialzarsi, capì che era necessario ricostruire tutto, partendo da zero e abbandonando il marciume del passato. 

Solo così potremo sognare un'Italia diversa, equa, senza diseguaglianze, senza ladri nascosti dietro poltrone istituzionali. Dobbiamo trovare il coraggio di estirpare questa malattia, di liberare il Paese da chi lo sta soffocando, perché solo eliminando il male alla radice potremo sperare di riavere un Paese degno di essere chiamato tale.

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