Ieri, ancora una volta, lo Stato ha dovuto alzare la mano e dichiarare: qui non si governa più!
Quattro realtà locali, disseminate tra Nord e Sud, sono state sciolte per infiltrazioni mafiose. Non è un fulmine a ciel sereno, ma l’epilogo annunciato di storie di connivenze, appalti pilotati, scambi oscuri tra politica e criminalità.
La domanda sorge spontanea: come si arriva a questo punto? Come fa un’intera amministrazione a diventare terreno di conquista per quelle associazioni criminali?
Le risposte, purtroppo, sono sempre le stesse: silenzi complici, omissioni, quella sottile linea grigia in cui l’interesse pubblico si confonde con affari privati. E quando la situazione sfugge di mano, non resta che l’intervento drastico: commissariamento, diciotto mesi di gestione straordinaria, la speranza di un ripartenza pulita.
C’è chi grida allo scandalo, chi parla di decisioni politiche, chi promette ricorsi. Ma al di là delle polemiche, resta un dato innegabile: quando la criminalità organizzata mette radici nelle stanze del potere locale, è la democrazia stessa a essere ferita.
Non si tratta solo di sostituire amministratori, ma di restituire fiducia a comunità lasciate in balia di logiche perverse.
Eppure, ogni volta che accade, c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui reagiamo.
Perché dietro ogni scioglimento c’è una domanda che non vogliamo farci: come abbiamo fatto ad arrivare fin qui? E, soprattutto, cosa possiamo fare perché non accada di nuovo?
Già… la colpa è anche vostra. Perché fintanto che la vostra preferenza sarà legata a un tornaconto personale – una raccomandazione, un favore, un posto di lavoro – non potete stupirvi se poi, a Palazzo, siedono gli stessi che hanno fatto dei vostri bisogni un affare.
Quindi, vi prego: non fate finta di non sapere quanto vale il vostro voto. Lo sapete bene.
E c’è chi, purtroppo, quel prezzo lo ha già pagato al posto vostro.
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