Di solito, nel mio blog, provo a parlare di cose serie: di appalti pilotati, di cantieri senza alcuna sicurezza, di soldi pubblici svaniti nel nulla, di riciclaggio e corruzione, di politica legata alla criminalità, già... di regole piegate fino a spezzarsi.
Insomma, parlo di quel quotidiano grigio fatto di raggiri, piccoli e grandi, di silenzi compiacenti, di norme e diritti che sembrano carta straccia. Lo faccio perché credo che guardare dritto in faccia questi temi sia un atto di cura e non solo di denuncia fine a se stessa.
Oggi, però, mi concedo una pausa. Non per distrazione, ma per ricordare che siamo fatti anche di altro: di imbarazzi minuscoli, di sguardi che si bloccano senza motivo, di momenti in cui il corpo ci tradisce - o forse ci salva - prima che la mente abbia il tempo di giustificarsi.
Per esempio: quante volte vi è capitato di fermarvi davanti a qualcosa di ambiguo - un quadro, una scultura, una frase scritta su un muro - e di restare lì, immobili, senza capire bene perché? Non perché vi piacesse, non perché lo riconoscevate: semplicemente, qualcosa in quello sguardo si è inceppato. Uno smarrimento improvviso, tra ciò che vedevate e ciò che credevate di dover capire.
Non è stupore, non è ammirazione: è un’incertezza mentale. Gli occhi indugiano, le spalle si irrigidiscono appena, il respiro rallenta, e dentro di noi si accende una domanda muta: Perché sto guardando questo? E perché non riesco a smettere?
Già… come la ragazza di quel museo posta immobile, davanti a un paesaggio che dovrebbe rassicurare - distese erbose, cielo terso, una quiete da campagna d’altri tempi - eppure qualcosa, in primo piano, turba l’armonia.
Funghi, innocui, spuntati tra l’erba come punti di sospensione in un racconto rurale, salvo uno... già... quello, più prominente, più insistente, sembra sfidare la logica botanica con una precisione quasi imbarazzante: è stato modellato - o forse solo rivelato - con una somiglianza che non può essere casuale. L’artista non grida, non provoca: si nasconde dentro la natura stessa, come se il reale avesse sempre contenuto questa ambiguità, e lui si fosse limitato a toglierne il velo.
Lei lo fissa... non ride, non si scandalizza apertamente, non si volta. Resta lì, con quel rossore che le sale lungo il collo fino alle guance, lieve ma inconfondibile, come quando qualcuno pronuncia il suo nome in un posto dove non si aspettava di venir chiamata.
È imbarazzo? Forse. Ma non è solo quello. È la consapevolezza di essere stata intercettata - non da qualcuno, non da telecamere o sguardi indiscreti - ma dal quadro stesso, che sembra chiederle conto del suo stare lì, del suo fermarsi, della sua attenzione divisa tra pudore e curiosità, tra repulsione e un’attrazione che non sa definire, un’intuizione che arriva in ritardo rispetto al corpo, quel corpo che già sa, mentre la testa cerca ancora le parole.
E qui, forse, sta il punto più fragile, più vero: non è tanto l’opera a mettere in crisi, quanto il rapporto con essa, quel momento in cui ci si rende conto che non siamo noi a decidere cosa guardare, ma che qualcosa, dentro di noi, ha già risposto prima che la mente formulasse un giudizio.
Il cervello arriva dopo, con le sue etichette: “volgare”, “geniale”, “scioccante”, “banale”. Ma il corpo ha già parlato, le palpebre non battono al solito ritmo, la postura è cambiata e quel rossore? Non è solo vergogna per ciò che vede: è vergogna per aver riconosciuto, per un istante, qualcosa che credeva nascosto, non nel quadro, ma in sé.
Non siamo abituati a questa onestà. Preferiamo le opere che spiegano, che ci dicono da che parte stare, che ci permettono di uscire dal museo con una frase pronta per i social: “Un’opera potente sulla fragilità dell’uomo” e via, archiviata la visita, archiviata l’emozione.
Ma certe immagini non si lasciano archiviare. Restano lì, a lavorare in silenzio, come un seme piantato non nel terreno, ma nella zona grigia tra il pensiero e il sentimento. L’artista, in fondo, non ha voluto offendere né sedurre: ha semplicemente allargato, per un attimo, la fessura tra ciò che mostriamo e ciò che sentiamo, tra ciò che diciamo di capire e ciò che, invece, ci attraversa senza permesso.
E forse - sì, forse - è proprio questa la funzione più autentica dell’arte contemporanea: non rispondere, ma scomporre la domanda. Non darci strumenti per giudicare, ma spazi per esitare. Perché in quell’esitazione, in quel rossore che non si riesce a nascondere, c’è qualcosa di più sincero di ogni critica d’arte, di ogni curatela, di ogni didascalia scritta in caratteri minuscoli in basso a destra: c’è la prova che siete ancora vivi - sì, vivi - capaci di essere toccati non da ciò che è chiaro, ma da ciò che vi costringe a chiedervi, senza fretta, perché qualcosa, dentro di voi, ha vibrato.
E se, uscendo dal museo, la ragazza non riesce a spiegare a nessuno cosa abbia visto - non perché non abbia parole, ma perché sa che ogni parola rischierebbe di tradire quell’attimo - forse non è un fallimento.
È, semplicemente, il segno che l’opera ha fatto il suo mestiere: non decorare, non istruire, non disturbare per disturbare. Ma risvegliare - con delicatezza, con ironia, con una precisione che fa quasi male - la capacità di restare, con dignità, nel dubbio.
E come ripeto spesso: chi sa ancora dubitare, non è perduto.

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