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sabato 15 novembre 2025

Difendersi non è mai un eccesso!

Ieri sera leggevo una notizia e non ho potuto fare a meno di pensare a quanto sia fragile il confine tra casa e pericolo.

Un uomo di 68 anni, in casa propria, si è trovato faccia a faccia con un ladro travisato, un passamontagna nero al posto del volto, un cacciavite puntato verso di lui nel buio della sua stessa casa.

Ha sparato. Non per uccidere, ma per fermare. E oggi, grazie a una legge che finalmente riconosce l’urgenza di difendere ciò che è proprio, non è lui a dover rispondere di nulla.

È questa la giustizia che attendevamo o è solo il primo passo verso un diritto che dovrebbe essere scontato? Già... il diritto di non essere costretti a scegliere tra la vita e la paura.

La premier Meloni lo ha detto senza esitare: «La difesa è sempre legittima». Parole che non sono solo un commento, ma un principio. E Salvini, subito dopo, ha ricordato come questa norma nasca da anni di battaglie per tutelare «i cittadini perbene», quelli che non chiedono favori, ma il semplice diritto di non essere aggrediti nella propria casa.

Eppure, nonostante le dichiarazioni, resto colpito da come certi fatti parlino da soli: la Procura di Rovigo, dopo aver ricostruito l’accaduto, ha deciso di non iscrivere neppure un verbale contro il 68enne. Perché? Perché aveva sparato con un’arma regolarmente denunciata, mirando a parti non vitali, mentre l’intruso, armato di cacciavite e con un complice probabilmente in agguato, avanzava verso di lui nel buio.

Leggendo quanto accaduto mi sono tornati in mente tutti quei dibattiti infinito sui social, dove qualcuno urla che «non si può sparare per un furto», come se la vita valesse meno di un televisore. Ma chi non è mai stato svegliato dal rumore di una finestra che si rompe, chi non ha mai sentito il cuore battere a mille mentre cerca di capire se è solo il vento o qualcuno che sta entrando, non può giudicare. 

La legge, oggi, finalmente lo riconosce: non esiste un manuale per la paura. Non esiste una scala di valori che dica «puoi difenderti solo se rubano X, ma non se minacciano Y». Se c’è pericolo, se c’è aggressione, se non c’è via di fuga, allora ogni mezzo è lecito. Non per vendetta, non per crudeltà, ma per sopravvivere!

La nota della Procuratrice Fasolato è chiara: l’uomo aveva già urlato di essere armato, aveva chiesto all’intruso di andarsene, aveva fatto scattare l’allarme. Eppure, il ladro non si è fermato. Anzi, ha continuato ad avanzare, con un’arma in mano. In quel momento, non c’è tempo per calcolare proporzioni, per chiedere aiuto, per sperare che basti una voce alta. C’è solo l’istinto di proteggere ciò che è tuo, di non lasciare che qualcuno trasformi la tua casa in una trappola. Ed è proprio lì, in quel secondo sospeso tra la vita e la morte, che la legge deve stare dalla parte di chi difende, non di chi attacca.

Qualcuno obietterà che «la violenza non risolve nulla». Ma chi dice così non ha mai avuto un cacciavite puntato alla gola. La violenza è già nell’aggressione, non nella reazione. La violenza è nel silenzio delle istituzioni che per anni hanno lasciato i cittadini in balia di chi non rispetta nessuna regola. Oggi, invece, per la prima volta, c’è una norma che non lascia spazio a dubbi: l’articolo 52 del codice penale non parla di «forse», di «a volte», di «se le circostanze lo permettono». Dice semplicemente che non è punibile chi agisce per difendere sé stesso o i suoi cari, quando il pericolo è reale e immediato.

E allora mi chiedo: perché ci è voluto così tanto tempo per arrivare a questo? Perché per anni abbiamo sentito parlare di «eccesso di legittima difesa» come se difendersi da un’aggressione fosse già di per sé un reato? Forse perché certi politici hanno sempre preferito parlare di sicurezza a parole, senza mai voler affrontare la verità scomoda: che la paura non è una questione di destra o sinistra, ma di essere umano. E la paura, quando diventa concreta, non aspetta il tempo di una legge.

Oggi, però, qualcosa sta cambiando. Non è solo un caso isolato: è un segnale. Un segnale che dice ai ladri, agli aggressori, a chi crede di poter entrare in casa altrui come in un gioco, che non saranno più accolti con la complicità del silenzio. E dice a ogni cittadino: non sei solo. Non devi nasconderti, non devi scusarti per aver difeso ciò che è tuo. Perché la casa non è solo un muro, una porta o una finestra, è il confine ultimo della tua dignità e nessuno, mai, potrà pensare o ancor più pretendere che tu lo lasci violarla, senza aspettarsi che non reagisca.

Sì... la legge non è perfetta. Non lo sarà mai. Ma oggi, per la prima volta, ha scelto di stare dalla parte giusta. Dalla parte di chi, al buio, ha il coraggio di accendere una luce per difendersi!

venerdì 14 novembre 2025

La corruzione non ha più confini: Quando la talpa indossa la divisa!

In questi giorni mi sono trovato a leggere pagine di una storia che purtroppo ha il sapore amaro di chi vorrebbe che certe circostanze non accadessero mai, già... una di quelle vicende che ci fanno riflettere su quanto il male possa infiltrarsi persino laddove dovremmo sentirci più al sicuro. 

La notizia peggiore parla di un alto ufficiale, un uomo che indossa una divisa simbolo di onore, e che invece viene accusato di averne tradito il giuramento, sussurrando segreti dell’istituzione a chi quelle indagini avrebbe voluto eluderle.

Sì... l’immagine di una talpa che, invece di scavare nella terra, scava nell’archivio sacro della giustizia, avvisando un uomo già condannato in passato e i suoi alleati che l’occhio della legge si stava posando nuovamente su di loro.

Ciò che lascia sgomenti non è solo l’atto in sé, ma il contesto in cui si inserisce, un quadro fosco che sembra ripetersi con una sconcertante regolarità. A distanza di molti anni, lo stesso personaggio sembra poter ancora contare su qualcuno pronto a macchiare quella divisa in cambio di cosa, forse di un favore, di una raccomandazione, di un posto di lavoro per una persona cara. 

È l'abituale logica del baratto che sostituisce quella del dovere, la stessa che trasforma un presidio di legalità in una stanza dei bottoni occulta. I magistrati parlano di un comitato d’affari che si muove nell’ombra, capace di infiltrarsi e deviare la macchina amministrativa, una trama che sembra riavvolgere il nastro fino ai giorni delle talpe di un lontano passato.

Emerge così il racconto di un incontro clandestino, organizzato nello studio di un legale, dove le parole sussurrate valgono più di qualsiasi documento ufficiale. L’ex governatore, attraverso un amico, viene a sapere che un colonnello vuole vederlo per questioni delicate, e il sospetto che si tratti di informazioni riservate sulle indagini a suo carico diventa rapidamente certezza. 

L’unica soluzione è incontrarlo, guardarlo negli occhi e ascoltare. Le telecamere di sorveglianza catturano i volti, i tabulati confermano gli spostamenti e il quadro diventa sempre più nitido e desolante. Quel faccia a faccia non era una cortesia tra conoscenti, era il luogo dove la riservatezza delle indagini veniva mercificata.

Poco dopo, in una conversazione intercettata, l’ex governatore racconta al suo braccio destro il contenuto di quell’incontro. Il consiglio era di fare attenzione, di vigilare sulle proprie parole e su quelle di chi li circonda, un monito che suona più come un’ammissione di complicità che come un generico avvertimento. 

Ma il punto cruciale, quello che trasforma una rivelazione in un patto osceno, arriva dopo. Le informazioni preziose, quelle che potrebbero scongiurare guai giudiziari, avevano un prezzo non detto ma chiarissimo. In cambio delle notizie riservate, si chiedeva un posto di lavoro per la moglie in un programma di microcredito. È questo il baratto, lo scambio che umilia la divisa e tradisce la fiducia di tutti noi.

E così, mentre leggevo su questa notizia mi chiedevo: dove è il limite, dove finisca l’errore e inizia la corruzione sistemica? Cosa fare quando chi dovrebbe essere il baluardo della trasparenza diventa egli stesso una falla?

Una cosa è certa... non ci sono più alibi, quanto accade è un male che non conosce confini, che non si ferma davanti a nessun simbolo di autorità e che macchia in modo indelebile non solo le persone, ma l’idea stessa di giustizia che faticosamente cerchiamo di preservare. 

Sì... oggi è toccato a loro, a quei nomi che deliberatamente scelgo di non riportare perché non meritano l’attenzione di queste pagine, ma domani chissà. La riflessione che mi porto a casa è amara, ma necessaria. La vigilanza deve essere costante, perché l’integrità è un bene fragile, e la sua difesa non ammette pause.


giovedì 13 novembre 2025

Caro Salvo (Ficarra), la piazza è vuota, ma io sono qui che ti aspetto!

Ho letto ieri sera un'intervista di Irene Carmina a Salvo Ficarra, e sono state le sue prime parole a colpirmi...

Parlava di un limite, usava la metafora della casa comune, depredata non solo dei suoi valori più preziosi ma persino delle cose più umili, quelle di ogni giorno. A quel punto, diceva Ficarra, scatta qualcosa: ci si chiede, ma un limite non dovrebbe esserci? E la risposta, amara, era che forse quel limite in Sicilia lo abbiamo superato da tempo.

Dopo aver letto quell'intervista con passione, ha serpeggiato in me un interrogativo ancora più amaro, già... le stesse sue parole che vado ripetendo da anni: come mai non siamo ancora scesi in piazza a dire basta, a pretendere che qualcosa, finalmente, cambi? Come mai i miei conterranei non fanno nulla per cambiare questo stato di cose che, da quasi un secolo, infetta questa nostra terra?

Nel 2015 provai a dare una risposta attraverso un post intitolato "È la mafia che ha preso dai siciliani o sono i siciliani che hanno preso dalla mafia?". Ma risposta non c'era. Forse perché, come scrivevo allora, mi stavo convincendo ogni giorno di più che diventa difficile credere - per la maggior parte dei siciliani - di poter estirpare ciò che da sempre appartiene organicamente al Dna della nostra vita, accettato da oltre un secolo, dal corpo e dalla mente. Potrei dire metaforicamente che è ormai "cosa nostra"!

Scendere in piazza sarebbe bello per cambiare definitivamente questo stato di cose. Ma la verità è che i siciliani l'hanno fatto una sola volta, e parliamo di un tempo lontanissimo: quello dei Vespri. Mi sono ormai convinto che la maggior parte dei miei conterranei è corrotta nell'animo. Non definirei mafiosi tutti i siciliani, sarebbe scorretto e ingiusto; ma la Sicilia non ha nulla a che fare con la mafia? Ahimè non è così, se essa vive, prospera e si sviluppa a macchia d'olio in questo territorio, la colpa principale è proprio dei siciliani.

Osservate i comuni sciolti per mafia, i sindaci coinvolti in inchieste giudiziarie, i deputati, gli assessori, i consiglieri, tutti quegli appartenenti a giunte di partito che, da tempo posti sotto processo, continuano purtroppo a sedere su quelle poltrone. Non voglio ergermi a paladino della giustizia – chi mi conosce sa che è proprio ciò che faccio quotidianamente – ma la verità, senza alcun tono polemico, è che dietro a questa nostra società vi è una parte consistente di miei conterranei che non fa il proprio lavoro in maniera onesta. Opera costantemente nell'illegalità, proprio attraverso i propri incarichi, per ricevere mensilmente un ulteriore tornaconto economico.

Ecco qual è la più pericolosa associazione illegale di questa terra: non la mafia, i mafiosi o i loro familiari. Sono le persone insospettabili, quelle che conosciamo tutti, che detengono il potere sociale, economico e finanziario e rappresentano un vero e proprio cancro per questa terra. Parliamo di una classe dirigente che si fa incantare dalle lusinghe, dalle carriere, dalle promesse di favori e dal denaro messo loro a disposizione, lo stesso con cui alimentano quel mondo corruttivo.

Ai siciliani interessa poco confrontarsi con la mafia, anzi non gli importa minimamente di farne parte. A loro interessa soltanto cosa si può ricevere da essa: approfittare del bisogno di quell'organizzazione per entrare negli appalti pubblici, nei finanziamenti, nella gestione degli interessi imprenditoriali, per ottenere autorizzazioni, concessioni, sfruttare i posti di lavoro offerti, ricevere mazzette, raccogliere quel voto di scambio ottenuto grazie ai consensi sociali di cui essa gode nel territorio.

La Sicilia è bellissima, ma ahimè corrotta nell'animo. Certo, non tutti i siciliani risultano contagiati, ma la maggior parte di essi evidenzia una particolare bramosia che li tiene saldamente soggiogati. La Magistratura ormai ci propina inchieste che conosciamo a memoria, nomi di indagati che hanno la durata di un istante e noi tutti ci siamo stancati di leggere quei nomi. Dice bene Ficarra: in questa storia non c'è proprio nulla di comico, neppure un barlume.

Ma caro Salvo, questa è la società che essi preferiscono: immobile, rassegnata, soprattutto individualista, che tende ad escludere i bisogni della maggioranza, premiando esclusivamente le necessità personali e familiari, il proprio orticello. Perché a questi siciliani non importa la condizione in cui vivono, né ricercano un futuro migliore per i propri figli. Preferiscono subire il fascino dell'agonia, di quell'angoscia vissuta sulla propria pelle, quasi vivendo in attesa di un miracolo.

Basta osservare quanto avviene intorno a noi: una vera e propria negazione sociale che spinge ciascuno verso lo scetticismo, allontanando ogni ipotesi di miglioramento. Una contraddizione latente che cerca in ogni occasione quel consenso politico, quel sistema affaristico e clientelare legato a filo diretto con il mondo illegale, mafioso e consociativo. Ecco la doppia anima dei siciliani: quella a cui non interessa riflettere, quella che pur amando la propria terra non vuole cambiare rotta, che resta elettrice "fedele" di quanti, grazie a quel voto, hanno abusato del potere conferito loro.

Ai siciliani – lo dimostrano nelle votazioni regionali e nazionali – non interessa un cambiamento, una nuova possibilità. In loro non vi è alcuna insofferenza, né fermento di rivoluzione. Non riescono neppure ad aggregare e mobilitare quelle poche forze oneste in grado di spezzare il circuito dell'illegalità e della corruzione. Alla maggior parte di loro non serve: va bene così. Peraltro, non è grazie a quel mondo – e soprattutto a quell'economia sommersa – che riescono a sopravvivere?

Non posso che apprezzare le parole espresse da Ficarra. Sì... sarebbe bello se a quelle parole si potesse dare seguito con i fatti, iniziando a scendere in piazza per farci sentire da chi non vuole ascoltare. 

Io comunque sono già qui, in attesa che anche lui mi raggiunga. Auspico solo che, alla fine, in mezzo a quest'enorme piazza, non saremmo solo in due.

mercoledì 12 novembre 2025

Catania: la prossima pagina dell'inchiesta!

C’è un momento, prima che la notizia si adagi come fosse polvere su una scrivania dimenticata, in cui essa vibra, non come fatto, ma come segnale. Già… proprio come un avviso scritto in una lingua che conosciamo bene, anche se facciamo finta di non capirla.

Ora quel segnale non è solo l’eco di una sentenza né il rilancio di un comunicato stampa: è il peso specifico di ottantamila euro in contanti, gli ennesimi soldi a nero che circolano in questo Paese, e lasciatemi ricordare come, in tutti questi anni, nessun governo nazionale ha mai voluto adottare provvedimenti veri contro il riciclaggio e i pagamenti in nero, trovati chiusi nell’ennesima cassaforte, nascosta tra le mura di una casa in città o in una tenuta fuori mano.

Non è tanto la cifra a colpire – ormai sappiamo che i numeri si gonfiano, si riducono, si mimetizzano – quanto il gesto di nasconderla, di tenerla lì, ferma, come un’assicurazione silenziosa, un pegno in attesa di essere riscattato o di corrompere chiunque si mostri disposto a farsi infettare.

È la conferma che, contrariamente a quanto dichiarato ieri dal Presidente Mattarella – «la mafia tracotante che fu sconfitta» – la sua totale distruzione non è mai avvenuta. Anzi, quel sistema non è in crisi: funziona benissimo, più florido che mai.

Certo, funziona per pochi (infetti) e contro tutti: appalti, sanità, assunzioni, gare che si aprono e chiudono con la stessa facilità di una saracinesca. Un sistema criminale «pubblico», non per servire, ma per selezionare, per garantire che quella casta sopravviva, che il cerchio resti chiuso, che le mani che stringono siano sempre le stesse, anche se i volti cambiano, le generazioni si susseguono e le etichette politiche si rinnovano.

Non è corruzione occasionale, non è una deviazione momentanea: è un metodo consolidato, oliato, che si ripete, si perfeziona, si trasmette. Un linguaggio condiviso, fatto di pressioni discrete, rinvii strategici, punteggi modificati in silenzio, commissioni che decidono non per quello che vedono, ma per ciò che gli viene suggerito.

E chi credeva che tutto questo fosse circoscritto a un ufficio, a una provincia, si sbagliava. Il contagio non rispetta i confini amministrativi: segue le relazioni, i favori, i debiti non scritti, dalla costa occidentale fino alle pendici dell’Etna, lungo strade secondarie che non compaiono sulle mappe, ma solo sulle agende private.

Non sono più solo le parole intercettate a raccontare questa storia: sono i corpi che si irrigidiscono al suono di un telefono, le dimissioni annunciate con ritardo, i sit-in silenziosi davanti ai palazzi, con striscioni che non gridano rivoluzione, ma chiedono una cosa sola: rispetto. Ma rispetto di cosa? Per chi lavora onestamente, per chi aspetta un’assunzione meritata, una strada riparata non per grazia ricevuta, ma per diritto?

Mentre alcuni sperano che l’inchiesta si esaurisca tra verbali e interrogatori programmati per venerdì, qualcosa già si muove più a est. Sì… Catania non è un’ipotesi: è una direzione. Lo sento nell’aria, nel modo in cui certe telefonate si interrompono prima del previsto, nelle carte ricontrollate all’improvviso, nei nomi cancellati da liste e protocolli.

Non è fantasia: quando un sistema viene scosso davvero, non crolla pezzo a pezzo, ma tutto insieme. E saranno in molti a dover piangere. Chi ha costruito la propria fortuna su fondamenta marce non può non tremare, soprattutto chi, insieme alla sua famiglia, ha goduto di un «improvviso» benessere senza mai chiedersi da dove venisse..

Perché questa volta non si tratta di coprire, archiviare o attendere che il tempo cancelli tutto. Questa volta, la luce entra da più finestre. E anche se qualcuno spera che il clamore si spenga, ciò che è stato commesso – l’infamia con cui si sono macchiati – non svanirà!

Perché lì, nell’asettico mondo virtuale, nulla viene cancellato. I nomi, i cognomi, le date resteranno per sempre, scolpiti nella memoria digitale che non perdona. E quando qualcuno proverà a dimenticare, basterà un click per ricordare chi ha tradito, come ha tradito, e a chi è costato. Perché la verità, una volta esposta, non torna più nell’ombra.

martedì 11 novembre 2025

"Enjoy" si è fermata a Eboli? No... a Castel di Iudica! Segue aggiornamento.

Già… in questo nostro Paese, il più delle volte ci si gira dall’altra parte, come se voltare lo sguardo bastasse a cancellare i problemi. 

Viceversa il sottoscritto - proprio due settimane fa - mentre tornavo a casa lungo una strada desolata che da Castel di Iudica conduce verso l'autostrada A19 (Catania-Palermo), non ha potuto che notare un’auto: nuova, bella, rossa, con il logo “Enjoy” stampato sulla carrozzeria, come un ironico slogan pubblicitario, abbandonata lì... in mezzo al nulla.

All’inizio sembrava solo parcheggiata in modo strano, forse dovuto a un problema meccanico o chissà a un errore di qualcuno che in maniera celere l'avesse abbandonata, ma poi, giorno dopo giorno, ho visto i pneumatici sparire, i cerchioni strappati e via via, sembra apparire come ossa da uno scheletro, mentre i ladri – o forse qualcuno in cerca di ricambi per la stessa marca – inizia a smontare pezzo a pezzo, quel relitto sotto il naso di tutti.

Pensavo altresì ai possibili rischi, già... a ragazzini che per gioco potrebbero lanciare sassi contro quei finestrini e ai poveri ciclisti che rischierebbero di finire in mezzo ai vetri divelti, eppure vedendo quell'auto mi son chiesto come mai finora nessuno avesse mosso un dito? Le forze dell’ordine, secondo quanto riportato al bar la scorsa settimana - dove avevo preso un caffè - erano passate a controllare.

Ed allora pensavo: ma c'è qualcuno a cui interessa? Perché nessuno ha chiamato un carro attrezzi? Ed allora stamani ho rallentato e l’ho fotografata nuovamente e mi sono chiesto se non fosse il caso di segnalarla anche attraverso questo blog, ripensando ai rischi che quell'auto possa - in quelle condizioni - provocare, soprattutto di notte, quando l'area è così fitta che sembra di camminare a occhi chiusi.

Eppure si tratta di una vettura a noleggio, non un relitto di proprietà privata. La società dovrebbe sapere dov’è, no? O forse no. Forse il sistema di tracciamento è stato disattivato, forse è stata rubata, forse il cliente l’ha lasciata lì dopo un guasto e tornato a riprenderla ma viste le sue condizioni, ha deciso di fare diversamente... 

Ma la vera beffa è che “Enjoy” (che significa godimento, in inglese) è diventata il nome di un monumento all’indifferenza.

Chi l'ha abbandonata? Un utente distratto che ha premuto “fine noleggio” senza accorgersi di aver lasciato l’auto in mezzo al deserto? Un dipendente troppo impegnato a compilare scartoffie per verificarne la posizione? O forse siamo tutti colpevoli, già... noi che passiamo e non facciamo niente, convinti che “tanto non è affar nostro”?

E così... mi torna in mente quel film, "Cristo si è fermato a Eboli", dove la storia cerca di spiegare il mondo, guardando tra le sue pieghe più nascoste. Solo che qui, a Castel di Iudica, non è Cristo che si è fermato: è il senso civico! 

È l’idea semplice che, se vedi un’auto abbandonata in una zona pericolosa, fai una telefonata. Che se sei delle istituzioni, non ti limiti a controllare e basta: agisci! 

Invece, no... siamo qui a quasi due settimane di distanza, e nessuno ha chiamato un carro attrezzi. Già... si preferisce parlare al bar, lamentarsi tra un caffè e l’altro, e poi tornare a casa senza alzare lo sguardo e aspettare che quell'auto diventi prima o poi un problema.

Mi chiedo: quanto deve durare questa farsa? Quanti vetri devono andare in frantumi, quante altre altre parti meccaniche o di carrozzeria debbono esser trafugate, prima che qualcuno decida di muovere un dito?

Forse basterebbe una segnalazione, un messaggio alla società, auspico solo che non si preferisca - come sempre - che siano gli altri a risolvere i problemi. La vera tragedia infatti, non è l'auto abbandonata, è che nessuno si sente responsabile di rimetterla in carreggiata.

Spero quantomeno che questo post, con la targa ben visibile, arrivi a chi di dovere. Ma la domanda che mi porto dietro è un’altra: quando capiremo - noi cittadini - che la civiltà non è solo questione di leggi o di controlli, ma di guardare ciò che abbiamo davanti e non far finta di non vedere, ma fare sempre la nostra parte? 

INCREDIBILE: sono le 13.45 ed è successo. L’auto è stata ritirata con un carro attrezzi. Proprio adesso, dopo due settimane di abbandono, di cerchioni rubati, di vetri a rischio per i ciclisti, dopo tutti i caffè al bar in cui si parlava di “non è affar mio”, dopo le forze dell’ordine che hanno controllato e basta… è bastato scrivere un post, mostrare la targa, ricordare che la civiltà non è un optional.

Mi chiedo: se è successo così in fretta, perché non è accaduto prima? Perché ci voleva un cittadino che alza la voce, che non si gira dall’altra parte, per far muovere le cose? Forse perché a volte basta un granello di sana vergogna, un po’ di luce puntata su un angolo dimenticato, per smuovere ingranaggi che sembravano arrugginiti. O forse, semplicemente, qualcuno ha letto queste righe e ha deciso di fare la sua parte.

Non voglio esultare, non ancora. Perché la vera vittoria non è il carro attrezzi che se ne va con quel relitto, ma il fatto che, per una volta, qualcuno ha scelto di non voltare lo sguardo. La domanda resta: perché aspettare sempre che sia un post a risolvere ciò che dovrebbe essere normale? Perché lasciare che siano i cittadini a fare il lavoro che spetta ad altri?

Intanto, però, oggi auspico di avervi trasmesso una cosa: a volte, basta poco. Un click, una segnalazione, un “non mi va di tacere”. Non è molto, ma è già qualcosa. E se questa auto è finalmente sparita, spero che domani non ce ne sia un’altra al suo posto. Perché la civiltà non è questione di miracoli: è questione di non smettere mai di guardare!

A evidenza di quanto riportato sopra, vi allego - stamani - la foto realizzata (12/11/2025).

lunedì 10 novembre 2025

Luca Attanasio: Lo Stato che non ascolta i suoi eroi.

Ed allora ci risiamo.

Già… mi ritrovo a scrivere di questa storia e mi chiedo se il tempo qui da noi non sia un inganno, un cerchio che gira su se stesso senza mai spezzarsi. 

Rileggo i miei post, già di quando l’ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci furono uccisi in quel viaggio mai autorizzato, quando scrissi di documenti scomparsi e dei sospetti che preannunciavano una tempesta, già... come nuvole cariche di pioggia. 

Prevedevo che la verità sarebbe stata sepolta, che lo Stato avrebbe preferito il silenzio alla responsabilità ed oggi più che mai, capisco che non ero io a essere pessimista: era il sistema a essere già marcio, allora come adesso.

I familiari in queste ore hanno chiesto una commissione d’inchiesta, non per vendetta, ma per poter dire alle loro figlie che quei morti non sono stati inutili. Una richiesta che dovrebbe essere scontata, se non fossimo in Italia, dove persino il dolore deve passare al vaglio della convenienza politica. 

E difatti... la maggioranza non firma, non si presenta, lascia che la sala resti vuota come un teatro dopo l’ultimo atto. Un silenzio che non è assenza di rumore: è un urlo, è la conferma che quelle vite, per chi conta, non valgono neppure una firma su un foglio.

Mi tornano allora in mente le parole della moglie di Luca Attanasio, quando parlava di verità per le sue bambine, di un futuro in cui il loro papà non sarebbe stato solo un nome su una lapide. Penso oggi a cosa le starà passando per la mente mentre osserva che gli stessi uomini e donne per cui suo marito ha lavorato, per cui è morto, non trovano neppure cinque minuti per ascoltarla?

Non si tratta di disorganizzazione, di impegni presi, di mancanza di tempo, no... è mero calcolo, la consapevolezza che - in fondo - nessuno chiederà conto a chi lascia nel dimenticatoio chi ha servito lo Stato.

Ma d'altronde basti ripensare ancora una volta a quel viaggio in Congo, alle scorte mai arrivate, alle responsabilità svanite nel fumo dei comunicati stampa, già... come se la morte di due uomini potesse essere cancellata con un colpo di penna. Ed ora, guarda caso, il copione si ripete qui, nel cuore delle nostre istituzioni!

La verità non è più un obiettivo: è una merce di scambio, un favore da concedere solo a chi sa negoziare meglio. E quando la morte di un ambasciatore o di un carabiniere diventa una questione di colore politico, allora non stiamo più parlando di errori. Stiamo parlando di un sistema che sa benissimo cosa sta facendo.

Qualcuno dirà che è inutile arrabbiarsi, che “tanto è sempre stato così”. Ma io non ci credo. Non ci posso credere quando ripenso a quei volti, a quelle storie interrotte, a quelle madri, mogli e figli che non vedranno più i loro cari tornare a casa.

La verità non è un lusso, non è un’opzione per chi ha tempo da perdere. È un dovere, e quando lo Stato rinuncia a questo dovere, non è solo colpa: è complicità! Perché lasciare nel buio chi ha dato la vita per le istituzioni è come uccidere con lentezza, con la crudeltà dell’indifferenza.

E allora mi chiedo: se l’ambasciatore Attanasio fosse stato meno uomo e più politico, se avesse imparato a tacere quando serviva, a non fidarsi troppo, a non andare in quel viaggio “non autorizzato”, chissà… forse sarebbe ancora qui.

Ma soprattutto, forse oggi non sarebbe solo un nome cancellato tra i comunicati, un fastidio da archiviare tra le “questioni scomode”. La sua colpa, forse, è stata quella di credere davvero nel ruolo che rivestiva, di pensare che la divisa che indossava valesse più dei giochi di palazzo e forse, in fondo, è per questo che lo hanno lasciato solo.

Ma io - a differenza loro - non l'ho dimenticato. Non ho dimenticato il suo impegno per le comunità del Nord Kivu, il suo lavoro per i progetti scolastici, quel modo di guardare il mondo come se ogni persona fosse già un ponte verso la pace. 

Ecco perché nella foto che ho realizzato lo immagino seduto in una poltrona senza tempo, circondato da un movimento sfocato che sembra il caos del mondo in fuga. Dietro di lui, una luce intensa lo avvolge, e tra le mani un libro - il suo - che non avrà mai il tempo di finire: "Luca Attanasio, un ambasciatore di pace", scritto da Fabio Marchese Ragona; un racconto che non parla solo di diplomazia, ma di un uomo che, spogliandosi di giacca e cravatta, entrava nelle baracche di Goma per ascoltare chi nessuno ascoltava. Un uomo che costruì una famiglia con Zakia, musulmana, e insegnò alle sue figlie che la fede non divide, ma unisce.

I racconti di chi lo ha conosciuto svelano un eroismo quotidiano: il giovane cresciuto in oratorio che non ebbe paura di sognare in grande, il diplomatico che preferiva le strade polverose alle sale dei ricevimenti, il marito e padre che portava a casa non solo storie di conflitti, ma semi di speranza. Questo è il Luca che non voglio dimenticare. Non il nome su un comunicato, non la vittima di un agguato, ma l'uomo che credeva possibile un mondo migliore, anche quando nessuno lo vedeva.

Forse è lì che vive oggi, in quel confine tra il terreno e l’eterno, dove la sua voce non è stata spenta, ma trasformata in un sussurro che ci ricorda: la verità non muore, anche quando lo Stato cerca di cancellarla. E finché qualcuno continuerà a raccontare chi era davvero, quel sussurro diventerà grido!

domenica 9 novembre 2025

Quel che resta da fare: Quando il cittadino entra in scena.

Dopo aver parlato del ritmo e del silenzio, resta ora da chiedersi: e noi?

Già... noi, non come denuncianti improvvisati, non come investigatori della domenica, ma come cittadini che camminano ogni giorno per strade costruite - o non costruite - da scelte che qualcuno ha fatto al posto nostro, spesso senza chiederci nulla.

Non si tratta di sostituirsi alle autorità, né di sostituire il sospetto alla fiducia: si tratta, più semplicemente, di non lasciare che la complessità diventi scusa per l’indifferenza.

Esistono oggi strumenti che, fino a pochi anni fa, sarebbero sembrati fantascienza. Ad esempio il portale "OpenCantieri", mette a disposizione - in tempo reale e in formato aperto - dati su oltre 150.000 cantieri pubblici in tutta Italia: chi li ha vinti, a quanto, con quale procedura, se sono in ritardo e di quanto. Non è un archivio per esperti: basta inserire il nome del proprio comune e compariranno le voci di spesa, i soggetti aggiudicatari, le date di inizio e fine lavori. Certo, è uno specchio a volte impietoso, ma quantomeno veritiero.

Poi c’è l'Indice della Pubblica Amministrazione, gestito dall’ANAC, che permette di verificare, con pochi clic, se una stazione appaltante ha pubblicato i suoi bandi sul sito previsto dalla legge, se ha rispettato i tempi minimi di consultazione, se ha motivato le scelte tecniche con trasparenza.

Ed ancora, il Portale Unico dei Contratti Pubblici, dove ogni bando, ogni aggiudicazione, ogni variazione deve essere registrata - pena sanzioni amministrative. Non sempre lo si fa. Ma se qualcuno lo nota, e lo segnala - con calma, con precisione, senza clamore - qualcosa può cambiare.

Segnalare non significa per forza "accusare", significa viceversa chiedere chiarimenti, inviare una PEC alla stazione appaltante per sapere perché un bando è stato pubblicato un lunedì con scadenza giovedì; significa, in alcuni casi, rivolgersi all’ufficio preposto all’accesso civico, previsto dalla legge 241/1990, per ottenere copia dei verbali di gara. Significa ahimè - quando i dubbi diventano troppo consistenti - scrivere all’ANAC, che ha un canale dedicato (segnalazioni@anticorruzione.it) che garantisce riservatezza a chi denuncia irregolarità. Non serve quindi essere avvocati, basta semplicemente essere precisi: citare il CIG del bando, la data di pubblicazione, il punto del capitolato che appare anomalo.

Ho visto piccole cose nascere da gesti altrettanto piccoli. Un lettore del mio blog, qualche anno fa, notò che lo stesso raggruppamento temporaneo si era aggiudicato quattro scuole in altrettanti comuni limitrofi, sempre con ribassi identici al 29,7%. Non scrisse un articolo. Non lanciò accuse. Mandò una mail all’ufficio trasparenza di uno dei comuni coinvolti, allegando i quattro bandi. La risposta arrivò dopo due settimane: la gara fu sospesa, avviata una verifica interna, e infine annullata. Nessuno finì sui giornali. Ma la scuola fu rifatta, da un’altra ditta.

Non sto dicendo che basti questo. Sto dicendo che, senza questo, non basta nient’altro...

Perché la corruzione non teme le leggi più severe - quelle... le ha già imparate e soprattutto le sa aggirare. Quello che teme di più, siamo noi, lo sguardo attento di chi è ostinatamente ordinario, di chi non ha potere, ma ha una forte memoria.

Già... di chi non alza la voce, ma non distoglie gli occhi, di chi sa che, talvolta, la prima crepa in un sistema opaco non è un'inchiesta, ma una domanda scritta in una mail, inviata un pomeriggio qualunque, mentre prendiamo all'interno di un bar una tazza di te, da una semplice scrivania improvvisata.


sabato 8 novembre 2025

Il silenzio tra un appalto e l’altro: Quando la gara finisce prima di cominciare.

Il metodo forse più subdolo è quello che si nasconde dietro la formula dell’“offerta economicamente più vantaggiosa”. In teoria, un modo per premiare il valore tecnico. In pratica, a volte, un meccanismo perfetto per favorire gli amici. 

Come si può pensare di pubblicare un bando da milioni di euro e concedere solo quindici giorni per presentare uno studio migliorativo? Un tempo così esiguo che non basta neppure per leggere e comprendere a fondo il progetto. Viene il sospetto che il capitolato sia stato disegnato su misura per qualcuno, che conosceva in anticipo i dettagli e ha potuto preparare l’offerta con calma. 

Non è fantasia: la Corte dei Conti, nella sentenza n. 746 del 28 marzo 2024, ha annullato l’aggiudicazione di un intervento di messa in sicurezza idrogeologica in Calabria proprio per questo motivo - un bando pubblicato un venerdì sera, con scadenza di giovedì successivo, e un capitolato tecnico contenente requisiti così specifici da coincidere, quasi alla lettera, con le caratteristiche di una sola delle tre imprese partecipanti. La sentenza, consultabile nel registro ufficiale della Corte, parla chiaro: non si tratta di errore procedurale, ma di “alterazione della par condicio sostanziale”, una formula che, tradotta in parole semplici, significa che la gara non era una gara.

La caccia al bando stesso diventa una prima, ardua selezione. Documenti nascosti su siti inaccessibili, pubblicazioni fatte circolare in ritardo, gare indette a ridosso di festività. Sono tutti espedienti che, sommati, scoraggiano i concorrenti sgraditi e restringono il campo a pochi eletti. E se, nonostante tutto, vince un'impresa “sbagliata”, ecco che i tempi di avvio dei lavori si dilatano magicamente, fino a quando un intoppo burocratico non permette di ripiegare sulla seconda in graduatoria, che guarda caso è proprio l’impresa amica. 

In questo panorama, persino l’ipotesi più fantasiosa, come quella di un accesso informatico illecito per conoscere le offerte degli altri pochi minuti prima della scadenza, lascia un dubbio amaro in gola.

Non è solo un dubbio, del resto. Il Rapporto 2024 della Direzione Nazionale Antimafia dedica un’intera sezione al “rischio informatico nei sistemi telematici degli appalti”, segnalando come, in almeno tre inchieste concluse negli ultimi diciotto mesi, sia emersa la pratica di accessi non autorizzati a piattaforme di gara da parte di consulenti esterni - figure apparentemente neutrali, spesso nominate con procedure semplificate, che avevano accesso simultaneo ai documenti delle stazioni appaltanti e alle bozze delle offerte. 

Il rapporto, disponibile nel sito ufficiale della DNA , non parla di casi isolati, ma di un’evoluzione della collusione: non più bustarelle in contanti, ma intrusioni digitali, scambi di file criptati, tempi di risposta sospettosamente sovrapposti. È una corruzione che ha imparato a digitare.

Proprio in queste ore, la cronaca giudiziaria torna a occuparsi della materia, con inchieste che coinvolgono figure di alto livello nella pubblica amministrazione. La politica assicura massima attenzione e rigore, in attesa degli esiti dell’autorità giudiziaria. È un segnale che qualcosa, forse, potrebbe muoversi. 

Ma la sensazione è che, senza una vigilanza costante e una volontà ferrea di cambiare le regole del gioco, questo meccanismo ben oliato sia destinato a riavviarsi, ciclo dopo ciclo, appalto dopo appalto.

Eppure, ogni volta che un funzionario sceglie di non voltarsi dall’altra parte, ogni volta che un cittadino chiede copia di un bando e ne verifica i termini, ogni volta che un giornalista ricostruisce una catena di aggiudicazioni che nessuno aveva collegato - in quei momenti, il silenzio tra un appalto e l’altro non è vuoto: Sì... è per fortuna lo spazio in cui, forse, può ancora nascere qualcosa di diverso.

venerdì 7 novembre 2025

Il ritmo che conosciamo: Quando il bando non è una gara.

Si torna a parlare di gare d'appalto, ed è come riaprire un libro di cui si conosce già il finale, ma la cui lettura continua a turbare. Mi riferisco a una sensazione che conosco bene, fatta di sospetti che si accumulano giorno dopo giorno, osservando la stessa scena ripetersi con una regolarità che ha del perturbante.

Basti guardare l'alta frequenza con cui certe imprese si aggiudicano i lavori, una ciclicità che sembra sfidare ogni legge statistica. Si presentano da sole, in temporanea associazione, o celate dietro il comodo paravento di un consorzio, e costantemente, come baciate da una fortuna insolitamente propizia, ottengono la vittoria. È un ritmo che fa riflettere, un ritmo che parla di meccanismi non proprio limpidi.

Certo, qualcuno obietterà che sia solo una coincidenza, che non si debba dar credito a ombre dove non ce ne sono. Eppure i numeri raccontano una storia diversa, fatta di episodi di corruzione che affiorano in continuazione, con la Sicilia purtroppo in testa a queste classifiche.

Il settore più a rischio rimane sempre quello dei lavori pubblici in genere, un mondo vasto che va dalle costruzioni al ciclo dei rifiuti, settori notoriamente sensibili eppure ancora così opachi. So bene che parliamo di un ambiente in cui, per operare, si dovrebbe essere inseriti in appositi elenchi di soggetti affidabili, ma a volte sembra che quei controlli ed i criteri applicati siano ben altri, o quantomeno evidenzino una scarsa attenzione al merito e alla dignità del servizio pubblico.

Si osserva poi una strategia quasi scientifica nella distribuzione degli appalti. Per le commesse più ricche, sembra prevalere un sistema di turnazione tra aziende, con ribassi d’asta così minimi da apparire coordinati. Per gli affidamenti di minore entità, invece, si scende più in basso nella scala amministrativa, coinvolgendo figure tecniche con promesse di contropartite in denaro, in prestazioni o in favori.

In cambio, le imprese ottengono una certa discrezionalità nell’esecuzione, alterando qualità e quantità, chiedendo varianti e risparmiando persino sulla sicurezza. Basterebbe blindare le procedure, verificare seriamente la reale consistenza di queste aziende, per scoprire che molte di loro, a guardarle bene, non sarebbero in grado di riparare neppure la tapparella di casa di mia nonna.

A volte i sospetti trovano conferma in modo così immediato da lasciare senza parole. Già: alcuni anni fa, dopo aver messo nero su bianco in un mio post queste considerazioni, un presidente dell’associazione dei costruttori lanciava pubblicamente l’allarme, parlando di sorteggi sospetti e rischi di una nuova Tangentopoli.

Non era un’allusione generica: pochi mesi prima, l’Autorità Nazionale Anticorruzione aveva dedicato un intero capitolo del suo Rapporto annuale 2024 proprio al fenomeno della “frequenza anomala di aggiudicazione”, un’espressione asettica che nascondeva un dato concreto — il 42% delle stazioni appaltanti con almeno un procedimento sanzionato per irregolarità gravi aveva visto prevalere sempre le stesse imprese in più del 70% dei bandi negli ultimi tre anni.

I casi analizzati includevano appalti per opere stradali, edilizia scolastica e gestione del ciclo idrico, tutti ambiti in cui la qualità dell’esecuzione non è una questione tecnica, ma di sicurezza collettiva. Il rapporto, disponibile integralmente sul sito ufficiale dell’ANAC, non parla di eccezioni: parla di pattern ricorrenti, di procedure formalmente corrette, ma sostanzialmente orientate.

È un richiamo sinistro a una storia ben documentata, non a un ricordo vago o lontano - come quella del cosiddetto “ministro dei Lavori Pubblici” di Cosa Nostra, un ruolo non ufficiale, ma reale: un uomo incaricato dall’organizzazione di decidere chi poteva vincere appalti milionari per le opere pubbliche, chi doveva restare fuori, e a quale prezzo. Un controllo esercitato non con le armi - almeno non sempre - ma con una rete di imprenditori, tecnici e funzionari collusi, capace di far vincere bandi già scritti a misura.

Quella vicenda ci ricorda che il meccanismo corruttivo rappresenta un'infezione che si è ormai normalizzata, diventando quasi ordinaria, e che ormai non affligge più solo alcuni territori ma, in forme diverse, l’intero Paese. Sono parole che confermavano ciò che si osserva ormai da troppo tempo: circostanze curiose nelle aggiudicazioni e un pericolo concreto per la trasparenza.

Cosa aggiungere? Domani proseguirò, seguendo il silenzio che cala tra un bando e l’altro, tra un’aggiudicazione sospetta e la successiva, tra ciò che si scrive nei capitolati e ciò che si decide fuori, già... in stanze dove il tempo sembra non passare mai.

giovedì 6 novembre 2025

Oltre il porno, la vera sfida: identità verificata anche per i social!

Stamani ho deciso di condividere con molti di voi una riflessione nata da una notizia che ho letto in questi giorni navigando in rete. 

A partire dal 12 novembre 2025, infatti, entrerà in vigore in Italia una norma importante: non sarà più possibile accedere ai siti pornografici con una semplice autodichiarazione, ma sarà obbligatorio verificare la propria età attraverso sistemi certificati come SPID o la Carta d'Identità Elettronica.

 La motivazione, profondamente condivisibile, è la tutela dei minori e l'aumento della sicurezza online, un argine finalmente costruito contro l'accesso inconsapevole a contenuti inadatti. Chi tenterà di entrare senza questa verifica si troverà davanti un avviso di inibizione, un muro digitale eretto a protezione dell'innocenza.

Davanti a questa notizia, il mio pensiero non ha potuto fare a meno di espandersi verso quelle piazze digitali dove l'identità è spesso un optional comodo e senza conseguenze. Ed allora mi sono chiesto perché un principio così chiaro di responsabilità e verifica non possa trovare una sua applicazione naturale anche nell'universo dei social network, in tutte quelle piattaforme come Instagram, X o Facebook dove ogni giorno fioriscono discussioni offensive e purtroppo anche troppi insulti.

Sarebbe bello, forse utopico, immaginare che per pubblicare un contenuto, per lasciare un commento, fosse necessario legare il proprio nome e cognome reali (e quindi non più nickname o false identità) attraverso quei medesimi sistemi di identità digitale.

Sono profondamente convinto che se ogni parola scritta in quei luoghi portasse con sé il peso di una identità verificata, il panorama della discussione online subirebbe una trasformazione radicale e benefica.

Già... quella fitta coltre di commenti offensivi, di aggressioni gratuite lanciate dal sicuro anonimato, si dissolverebbe per una larga parte, forse proprio quel novanta percento di veleno che avvelena il dialogo. 

La libertà di esprimere il proprio pensiero non verrebbe certo meno, ma finalmente sarebbe accompagnata dalla consapevolezza e dalla responsabilità di chi sta parlando, costringendo tutti a ricordare che dall'altra parte dello schermo c'è una persona in carne e ossa.

Sì... sarebbe un ritorno a una forma di conversazione più autentica, dove la maschera dell'impunità cade e rimane solo la genuinità, a volte scomoda, di un volto e di un nome. Forse è un sogno, ma è un sogno per cui vale la pena spendere le proprie energie, perché la rete torni ad essere un luogo di incontro e di crescita civile.

mercoledì 5 novembre 2025

La metastasi perfetta e un sistema ormai diffuso che si auto-assolve.

Ho letto ieri dell’ennesima inchiesta giudiziaria della Procura di Palermo compiuta sugli appalti pilotati, con i nomi riportati degli indagati, ed allora mi ritrovo a pensare a questa ondata di arresti, a questa ridda di nominativi che riempiono le cronache e che parlano un linguaggio antico eppure sempre attuale. 

Appalti pilotati, dicono, e la mente corre a quelle stanze dove si decide, dove si dovrebbe servire il pubblico bene e invece si tessono trame private. È un male che non conosce quartiere, ormai, che ha messo radici profonde e che sembra aver imbevuto ogni livello del potere, dalla politica che dovrebbe legiferare, ai dirigenti e ai funzionari che dovrebbero amministrare.

Si parla di un ex governatore, di un deputato di un "partello" (per chi non lo sapesse, non è un errore grammaticale, ma un termine volutamente dispregiativo per sminuire l'istituzione partitica), di un ex ministro, di manager sanitari, di direttori generali. 

Volti noti e altri meno noti, ma tutti accomunati da quell’unico, sottile filo che lega carriere e affari opachi. Persone che hanno avuto in mano la salute pubblica, le opere, il territorio, e che avrebbero dovuto essere garanti e invece, si sospetta, siano diventati ingranaggi di un sistema marcio.

Sì... è questa la normalità che ci ritroviamo, un pantano in cui sembra che tutto giri intorno a logiche di favore, di spartizione, di illecito, di raccomandazioni, di clientelismo, etc...

E mi chiedo, in questo scenario, cosa possiamo attenderci da una riforma della giustizia voluta da un governo che oggi si regge proprio su forze politiche i cui esponenti, alcuni già condannati, altri indagati, figurano in queste inchieste. 

Non serve essere di una parte per vedere la realtà, basta essere onesti con se stessi. Si poteva forse sperare in una sterzata verso la trasparenza, in un cambio di passo? A guardare come vanno le cose, non ci si poteva aspettare diversamente. È un circolo vizioso che si autoalimenta, una palude che nessuno ha davvero interesse a bonificare.

La sensazione amara, che si fa sempre più forte, è che in questo paese andrà ahimè sempre peggio. È uno schifo che non accenna a diminuire, anzi, pare si stia normalizzando, diventando quasi folklore, un dato di fatto contro il quale è inutile indignarsi. E forse la cosa più terribile è questa rassegnazione, questo smarrimento di fronte a un male che sembra ormai incurabile. 

Già... non so più cosa ci potrà salvare da questo schifo...

Se si vogliono conoscere i nomi degli indagati, questo è uno dei tanti link che parla dell'argomento sul web: https://www.lasicilia.it/news/cronaca/3004513/appalti-pilotati-i-nomi-di-tutti-gli-indagati.html?ch=1

martedì 4 novembre 2025

4 novembre: il giorno in cui Yitzhak Rabin e la pace ci furono sottratti

Oggi, mentre la luce di questo novembre si posa con una malinconia inconsueta, sento il bisogno di tornare con voi in un luogo e in un tempo preciso, a trent’anni di distanza da quel 4 novembre in cui due colpi alla schiena non uccisero soltanto un uomo, ma recisero di netto una speranza collettiva. 

Era Yitzhak Rabin, il soldato divenuto costruttore di pace, colui che aveva stretto la mano a Yasser Arafat sotto gli occhi del mondo, a cadere in quella piazza di Tel Aviv che oggi, come allora, si prepara a riempirsi di volti e di memoria. 

E così, mentre questa sera migliaia di persone si raduneranno nuovamente, è come se il filo del tempo si annodasse, costringendoci a un confronto doloroso e necessario con un’assenza che ancora brucia.

Ripercorrere quei momenti attraverso le voci di chi c’era - come il dottor Joseph Klausner, il medico che tentò disperatamente di salvare il primo ministro - non è un semplice esercizio di reportage, ma un modo per interrogarci su come un singolo, folle gesto possa deviare il corso della storia. 

Quella stretta di mano a Washington, nel 1993, non era soltanto un simbolo, ma il fragile eppure concreto risultato di un calcolo politico audace, di una volontà di uscire dall’eterno ciclo di violenza che, per la prima volta, sembrava non un’utopia, ma una possibilità praticabile. 

Gli Accordi di Oslo avevano aperto uno spiraglio, creato una crepa nel muro dell’inimicizia, e Rabin, con il linguaggio asciutto di un generale, ne era diventato l’architetto più inatteso: un uomo che parlava di pace non con le parole dei sogni, ma con quelle della sicurezza e del pragmatismo.

Eppure, proprio quel pragmatismo, quella ricerca di una normalità per il suo paese, lo aveva reso un traditore agli occhi di chi quella normalità la immaginava costruita soltanto sulla forza. 

L’omicidio non fu un evento isolato, ma il punto di esplosione di un odio che si era andato incubando nella società israeliana, alimentato da una retorica violenta che dipingeva ogni compromesso come un tradimento. La pallottola che lo colpì partì dalla pistola di Yigal Amir, un estremista ebreo, e questo ci dice quanto la frattura fosse ormai profonda, quanto il veleno della discordia avesse contaminato non soltanto il dialogo con il nemico esterno, ma anche il tessuto civile interno. 

La morte di Rabin non fu soltanto la fine di un uomo, ma l’eclissi di un’idea di Israele - quella che poteva permettersi di negoziare da una posizione di forza senza sentirsi minacciata nella sua stessa anima.

Le conseguenze di quel vuoto le viviamo ancora oggi, in un presente che sembra aver smarrito del tutto la strada tracciata in quei giorni. Con Rabin se ne andò l’autorità di chi poteva guidare un processo di pace con il consenso di una larga fetta della popolazione, e il timone passò a mani meno salde, a visioni più frammentate e spesso più bellicose.

Il processo di Oslo, già fragile, si inceppò irrimediabilmente: da un lato, perché perse il suo più convinto sostenitore israeliano; dall’altro, perché la società israeliana entrò in una fase di polarizzazione acuta, dove il dibattito politico cedette il passo alla demonizzazione reciproca. 

Da allora, ogni tentativo di dialogo è sembrato più uno spettacolo di ombre che una trattativa reale, e la piazza che aveva celebrato la pace divenne il luogo del suo funerale. L’eredità di Rabin si è trasformata in un monito, in un “cosa avrebbe potuto essere” che grava come un macigno su ogni successivo passo verso la riconciliazione.

Oggi, tornare in quella piazza è un atto di resistenza contro l’oblio. È un modo per ricordare a noi stessi che la storia non è un destino ineluttabile, ma è fatta di bivi, di scelte, e a volte di colpi di pistola che chiudono brutalmente una porta.

Quella speranza non morì perché fosse sbagliata, ma perché fu lasciata sola, vulnerabile all’odio di chi non voleva neppure provarci. E mentre le ombre si allungano su questo anniversario, non possiamo che chiederci, con un nodo in gola, che volto avrebbe oggi il Medio Oriente se quelle due pallottole non avessero mai trovato la loro strada.

lunedì 3 novembre 2025

Quando l'onestà paga: Stefano Milone.

Ci sono storie che meritano di essere raccontate non solo per i fatti in sé, ma per la luce che gettano su ciò che conta davvero. 

Penso a quanto l’onestà possa sembrare, a volte, una strada in salita, un principio scomodo che mette alla prova il carattere di una persona. 

Eppure, oggi voglio parlare di quando l’onestà paga, non in moneta sonante, ma in qualcosa di infinitamente più prezioso: la dignità.

Tutto prende forma nella notte del 17 agosto, in una stanza d’albergo, alla vigilia di una partita di calcio giovanile. 

Un giovane arbitro, Stefano Milone, si trova di fronte a una scelta che ne avrebbe messo alla prova l’anima più che la competenza. 

Due persone gli si presentano con un’offerta chiara e indecente: tremila euro per piegare il corso del gioco a un risultato prestabilito. È in quel preciso istante, in quel silenzio carico di implicazioni, che il mondo sembra fermarsi in attesa della sua risposta.

E la risposta di Stefano Milone arriva, netta e senza esitazione. È un no. Un rifiuto che non rimane confinato tra quelle quattro mura, ma che diventa subito denuncia, parola data al designatore, primo mattone di un’indagine che avrebbe svelato un sistema corrotto che minava le fondamenta dello sport più amato. Quel "NO" non è stato solo un gesto di rifiuto, è stato un atto di costruzione, la prova che una sola persona, con il suo coraggio, può diventare un argine.

Quel gesto di straordinaria lealtà ha avuto una risonanza che va ben oltre l’episodio di cronaca. Nelle scorse ore, a Roma, Stefano Milone è stato premiato con il riconoscimento “Rispetto e Legalità”, un tributo a chi dimostra che lo sport può e deve essere ancora una scuola di valori. La sua sezione, l’AIA di Reggio Calabria, ha espresso un orgoglio che va oltre l’appartenenza associativa, toccando il cuore di una comunità che ha ritrovato in lui un esempio di purezza morale.

Questa vicenda ci ricorda che la tentazione del silenzio è spesso più comoda, più facile da digerire. Ma ci mostra anche, con limpida chiarezza, che quando una persona sceglie di essere incorruttibile, alla fine non ha che da guadagnarne. Non in denaro, certo, ma in stima, in rispetto, in quella certezza interiore che è la sola vittoria che nessuno potrà mai contestare. 

Il suo nome, Stefano Milone, brilla oggi come un promemoria necessario: la vera vittoria non è quella segnata sul tabellino, ma quella che si conquista ogni giorno difendendo i propri valori, senza sconti e senza compromessi.

domenica 2 novembre 2025

Temperatura: con 22 indicatori già in rosso, il futuro del pianeta resta sospeso.

Come sapete da mesi seguo con attenzione l’evolversi di una narrazione scientifica che non parla più in toni ipotetici, ma con la fermezza di chi descrive un presente già in atto.

Il rapporto “The 2024 State of the Climate Report: Tracking the World’s Progress Toward the Paris Agreement”, pubblicato su BioScience, non si è semplicemente limitato a registrare dati, viceversa, ha disegnato il ritratto di un pianeta che sta superando, in molti punti chiave, i limiti entro cui la vita umana e naturale ha prosperato per millenni.

Di questi 35 “segni vitali” che il report monitora con rigore - scelti per rappresentare cause, impatti e risposte della società - ben 22 mostrano ormai segnali di grave stress. 

Non si tratta di allarmismi isolati, ma di un sistema interconnesso che vacilla sotto la pressione di un riscaldamento globale senza precedenti. La temperatura superficiale terrestre continua a salire, e con essa si innalza il livello del mare, alimentato dallo scioglimento accelerato dei ghiacci in Groenlandia e in Antartide, oltre che dal bilancio negativo dei ghiacciai montani sparsi in ogni continente.

L’Artico, in particolare, perde ogni fine estate, una porzione sempre più ampia della sua copertura di ghiaccio marino, mentre l’Antartide, pur con dinamiche più complesse, mostra un declino preoccupante nel suo massiccio ghiacciato. Questi non sono semplici cambiamenti geografici: sono leve che innescano reazioni a catena, dal rallentamento delle correnti oceaniche all’innalzamento del rischio di eventi estremi. E lo stesso fanno gli oceani, che assorbono oltre il 90% del calore in eccesso, già... non solo si riscaldano in superficie, ma si acidificano, minacciando interi ecosistemi, a partire dalle barriere coralline, la cui salute è ormai ridotta a brandelli a causa di un mare sempre più ostile.

Intanto, le foreste - polmoni e serbatoi di carbonio del pianeta - continuano a scomparire. La copertura delle foreste primarie tropicali si assottiglia di anno in anno, e la deforestazione in Amazzonia, nonostante gli annunci e gli impegni, rimane su livelli allarmanti. Questa distruzione non è solo una causa del cambiamento climatico, ma ne diventa anche una conseguenza: incendi sempre più frequenti e intensi divorano territori un tempo rigogliosi, trasformando serbatoi di carbonio in fonti di emissione.

Sul fronte delle cause, le concentrazioni atmosferiche di CO₂, metano e protossido di azoto raggiungono nuovi massimi storici, spinte soprattutto dalle emissioni legate ai combustibili fossili, al consumo di carne su scala industriale e ai sussidi che ancora, incredibilmente, gonfiano l’uso di carbone, petrolio e gas. Il consumo globale di energia da fonti fossili non accenna a diminuire, nonostante la crescita delle rinnovabili - solare ed eolico in testa - mostri segnali incoraggianti.

Tuttavia, questa transizione energetica, pur reale, non è ancora sufficiente a ribaltare la traiettoria. Gli investimenti in energie pulite crescono, ma restano controbilanciati da politiche che continuano a proteggere gli interessi consolidati del vecchio sistema. Il prezzo del carbonio, in molte parti del mondo, è ancora troppo basso per disincentivare le emissioni, e i ritardi nell’attuazione dei piani nazionali dimostrano quanto la volontà politica stenti a tenere il passo con l’urgenza fisica del clima.

Altri indicatori, apparentemente più lontani, rivelano anch’essi tensioni crescenti: la copertura nevosa nell’emisfero nord si riduce in primavera, alterando cicli idrologici essenziali; gli eventi di caldo estremo si moltiplicano in ogni angolo del globo; lo stress idrico colpisce un numero sempre maggiore di popolazioni. Ed anche negli Stati Uniti - spesso considerati termometro del dibattito climatico - le temperature estive medie continuano a salire, con impatti sulla salute, sull’agricoltura e sulla stabilità sociale.

Questi 22 indicatori non sono semplici misure: sono campanelli d’allarme che suonano all’unisono. Ci dicono che non stiamo solo attraversando una crisi ambientale, ma che stiamo ridefinendo, giorno dopo giorno, le condizioni stesse della vita sul pianeta. Eppure, ciò che più colpisce non è la gravità dei dati - ormai inequivocabili - ma il divario persistente tra la chiarezza della scienza e la lentezza della risposta collettiva.

Parliamo di rapporti non di condanna e nemmeno di propaganda, ma di semplice registrazione. Ed è proprio in questa registrazione sobria che risiede la sua forza. Perché ci ricorda che il tempo delle scelte non è finito, ma si sta facendo sempre più breve.

Se desiderate ancor più approfondire questi temi, vi lascio di seguito i link ufficiali dai quali ho potuto estrapolato i dati per questo post:

"BioScience": https://academic.oup.com/bioscience/article/74/7/585/7638659

World Scientists’ Warning to Humanity” (con dati aggiornati e risorse): https://scientistswarning.org
Infine, vi allego i 35 indicatori e/o parametri vitali (“vital signs”), suddivisi in due categorie: Indicatori principali (16) e Indicatori supplementari (19).

L'elenco è aggiornato al report del 2024:

Primary Indicators (16)

Concentrazione atmosferica di CO₂

Concentrazione atmosferica di CH₄ (metano)

Concentrazione atmosferica di N₂O (protossido di azoto)

Temperatura globale superficiale

Estensione del ghiaccio marino artico (settembre)

Estensione del ghiaccio marino antartico (febbraio)

Massa del ghiaccio della Groenlandia

Massa del ghiaccio dell’Antartide

Bilancio di massa dei ghiacciai mondiali

Temperatura superficiale degli oceani

Acidificazione degli oceani (pH superficiale)

Livello del mare globale

Copertura forestale primaria tropicale

Deforestazione dell’Amazzonia brasiliana

Emissioni globali di CO₂ da combustibili fossili

Emissioni globali di CO₂ pro capite da combustibili fossili

Supplementary Indicators (19)

Popolazione mondiale

Consumo globale di carne

Numero globale di passeggeri aerei

Emissioni globali di CH₄ da attività umane

Emissioni globali di N₂O da attività umane

Emissioni globali di gas fluorurati (F-gas)

Uso globale di energia da fonti fossili

Uso globale di energia rinnovabile

Capacità installata globale di energia solare fotovoltaica

Capacità installata globale di energia eolica

Prezzo del carbonio (media ponderata globale)

Sussidi ai combustibili fossili (globale)

Investimenti globali in energie rinnovabili

Percentuale di elettricità globale da fonti rinnovabili

Temperatura media estiva negli Stati Uniti

Frequenza degli eventi di caldo estremo (globale)

Copertura nevosa nell’emisfero nord (maggio)

Salute dei coralli (copertura globale di barriere coralline vive)

Indice di stress idrico globale

sabato 1 novembre 2025

Lavori ben fatti: ora manca solo qualche piccolo foro...

Va riconosciuto: finalmente quel tratto di strada, a lungo invaso da arbusti che si allungavano fin dentro le carreggiate, è stato messo in sicurezza.

L’intervento di scerbamento, insieme alla pulizia e alla manutenzione della segnaletica e dell’illuminazione, era atteso da tempo, e va dato atto all’amministrazione comunale di averlo portato a compimento con cura.

Tuttavia, resta un nodo irrisolto, non tanto nei lavori in sé, quanto nella loro comunicazione. Il calendario ufficiale indicava la conclusione dei cantieri entro mercoledì 29 ottobre, senza alcun accenno a possibili proroghe.

Non ho trovato, né sul sito istituzionale né sui canali informativi locali, alcuna notizia che segnalasse il proseguimento dei lavori anche nella giornata del 30. Così, l’altro ieri, mi sono ritrovato a imboccare l’Asse Attrezzato convinto che fosse tutto regolare, per poi dover deviare all’improvviso verso Librino, costretto a un giro tortuoso lungo la strada nazionale fino all’imbocco dell’autostrada.

Per fortuna, l’indomani — il 31 ottobre — il raccordo era stato riaperto. Ma, come accade da anni (e non so più quante volte ne ho scritto su questo blog), all’ingresso dell’Asse Attrezzato da Corso Indipendenza si è di nuovo formato quel fiume d’acqua che tutti conosciamo.

Basta guardare la foto pubblicata in alto per rendersene conto: l’acqua si accumula su entrambe le corsie, sia per chi proviene dalla città sia per chi arriva dall’autostrada A19, creando pericoli non solo per le auto, ma soprattutto per chi percorre quel tratto in moto o in scooter.

Si tratta di un problema elementare, risolvibile in mezza giornata. Stiamo parlando di un viadotto: basterebbe praticare piccoli fori laterali con una carotatrice, in modo da permettere all’acqua piovana di defluire oltre i parapetti che oggi la intrappolano. Se necessario, si potrebbero aggiungere semplici grondaie nella parte inferiore del ponte per convogliare il deflusso senza danneggiare le aree sottostanti. Non stiamo parlando di un’opera faraonica, né costosa: è manutenzione ordinaria, quella che dovrebbe essere prevista di routine.

Ecco perché mi rivolgo ora all’amministrazione con una richiesta precisa: dopo aver eseguito in modo impeccabile i lavori di cui sopra, si proceda anche con questo piccolo, ma cruciale intervento.

Lo chiedo non solo come cittadino, ma come chi attraversa quotidianamente quel tratto per recarsi al lavoro. E vi chiedo altresì di perdonare questa ulteriore nota: da qualche giorno ho installato una "dash cam" sul cruscotto della mia auto.

Se la situazione non dovesse cambiare, non mi resterà, ahimè, che documentare, giorno dopo giorno, ciò che accade ogni volta che cade anche solo una pioggia leggera.

Preferirei di gran lunga dedicare questo spazio alle bellezze della mia città: alle luci del mare e del vulcano, ai suoi silenzi, alla sua cucina, alle sue storie ormai dimenticate.

Ma finché la negligenza trasformerà un viadotto in un guado, temo che il mio blog dovrà diventare, mio malgrado, un archivio di ciò che non funziona.

Spero quindi che qualcuno, dopo aver letto queste righe, decida di accontentarmi. Non per spirito polemico, ma per senso di cura - verso la mia città, che è anche la loro, verso chi la abita, e soprattutto verso il tempo di ciascuno di noi.

Cosa aggiungere, se non… grazie.

venerdì 31 ottobre 2025

Quando il pianeta parla e il mondo ascolta con "interesse".

Continuando il discorso che porto avanti da mesi sul blog, mi sono imbattuto in una nota su una pagina Instagram che ha catturato subito la mia attenzione e da cui ho tratto spunto per questa riflessione.

La notizia confermava, con dati incontrovertibili, ciò di cui si parla da tempo: il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato e, con ogni probabilità, il più caldo degli ultimi 125.000 anni. Non si tratta di un semplice numero, ma di un segnale profondo emerso dal sesto rapporto sullo “Stato del Clima”.

Mi colpisce sempre pensare a come questi parametri vitali del pianeta — 22 su 35 ormai a rischio (nel post di domani ne parlerò più nel dettaglio) — non siano più fredde statistiche, ma sintomi visibili di un’accelerazione della crisi climatica. Dagli oceani che si surriscaldano alle foreste divorate dalle fiamme, la percepiamo ormai come un rumore di fondo alla nostra esistenza.

Ascoltando Johan Rockström, si comprende che molti di questi indicatori hanno da tempo superato ogni soglia storica. Non si può allora non riflettere sulla natura interconnessa dei rischi che affrontiamo: dall’indebolimento delle correnti oceaniche alla fragilità delle risorse idriche. È un monito che va ben oltre l’allarme ambientale: ci parla della salute stessa dei sistemi che ci permettono di vivere.

Eppure, mentre la realtà fisica del pianeta ci parla con un linguaggio diretto e implacabile, la nostra risposta collettiva sembra annaspare in un paradosso stridente. Gli “Accordi di Parigi” fissano obiettivi vincolanti, ma di fatto non prevedono sanzioni, affidandosi unicamente alla buona volontà degli Stati.

Questo meccanismo è visibile anche nel nostro paese, dove i piani vengono aggiornati senza che i ritardi comportino conseguenze reali. Si rivela così un conflitto profondo tra sovranità nazionale e urgenza globale: non esistono tribunali internazionali capaci di imporre tagli alle emissioni, ma solo un dialogo tra pari, un osservarsi a vicenda mentre la situazione precipita.

È affascinante e, al tempo stesso, angosciante notare come, nonostante il collasso dei parametri climatici, l’interesse mondiale per il tema stia crescendo. Forse la spinta non viene più solo dalla coscienza morale, ma dagli incentivi economici che stanno inclinando l’ago della bilancia verso la cosiddetta transizione ecologica, trasformandola da dovere etico a calcolo strategico.

Forse è proprio in questa frizione — tra la lentezza della politica e la nascita di nuovi interessi — che si sta scrivendo il nostro futuro. E forse è qui che si conferma un meccanismo ricorrente: le istituzioni, nazionali e internazionali, sembrano più concentrate nel coltivare un “interesse” economico e finanziario che nel monitorare con serietà gli indicatori chiave — quei “vital signs” che dovrebbero misurare lo stato reale del sistema climatico e il progresso effettivo verso il suo recupero.

giovedì 30 ottobre 2025

RESISTERE!

Talvolta le parole appaiono consumate, quasi svuotate del loro significato più profondo, eppure alcune conservano un potere antico, una risonanza che scuote l’anima. RESISTERE! 

È questa la parola che scelgo, che abbiamo scelto, come un faro nell’oscurità di un presente spesso sconcertante. 

Non è un titolo, ma è il battito del cuore di tutti coloro che avvertono un profondo malessere, un disagio viscerale verso uno stato di cose che non ci rappresenta più, e che anelano a un cambiamento non più rimandabile, un cambiamento definitivo.

Mi torna in mente l’immagine della mia pagina di Facebook - https://www.facebook.com/resistworld - e quella citazione attribuita a Malcolm X che sembra scavata nella pietra della nostra contemporaneità: «Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono». 

Queste parole non sono un semplice monito, sono una lente di ingrandimento gettata sul meccanismo più subdolo dei nostri tempi, quello che ci porterebbe, quasi senza accorgercene, a sostenere per il carnefice mentre guardiamo con sospetto la vittima, un ribaltamento della realtà che intorpidisce le coscienze e spegne la volontà.

E proprio oggi, l’associazione LIBERA, a cui ho l’onore di appartenere, ci ricorda con parole chiare e dolorose perché quella vigilanza sia più cruciale che mai. Negli ultimi giorni si sono riaffacciate modalità criminali e barbare, atti vigliacchi concepiti per mettere a tacere chi della verità e dell’informazione libera ha fatto la propria bandiera. È un colpo che ci ferisce tutti, che ci riporta a pagine buie che credevamo di aver voltato, e invece no, ci siamo ancora in mezzo, e questo ci grida che non possiamo più permetterci di essere spettatori.

C’è un mondo che resiste, sì... un mondo fatto di persone comuni, di cittadini che, in silenzio o a gran voce, hanno compiuto la scelta più importante: hanno deciso da che parte stare. È il mondo di chi non si volta dall’altra parte quando passa l’ingiustizia, di chi crede nella verità anche quando è scomoda, di chi ha il coraggio di mettere in discussione il potere e di fare domande che bruciano. È fatto di chi difende i diritti di tutti, anche dei più invisibili, di chi non si rassegna ma costruisce alternative concrete, di chi si ostina a credere nel bene nonostante tutto, di chi agisce con la ferma determinazione di non lasciare indietro nessuno.

Ecco perché mi permetto in questo post di riportarvi la nota pubblicata in questi giorni dall'associazione LIBERA: Negli ultimi giorni si sono riaffacciate modalità criminali per mettere a tacere chi della verità e dell’informazione libera ha fatto il proprio lavoro. Un atto barbaro e vigliacco che ci riporta indietro nel tempo, ma che ci ricorda quanto sia ancora necessario prendere parte. E Resistere! C’è un mondo che resiste. Un mondo fatto di persone comuni, cittadine e cittadini che hanno scelto da che parte stare. È il mondo di chi non si volta dall’altra parte, di chi crede nella verità, di chi mette in discussione il potere, di chi fa domande scomode, di chi difende i diritti, di chi costruisce alternative, di chi si ostina, di chi non lascia indietro nessuno, di chi agisce, di chi non si rassegna alle ingiustizie. Noi la nostra scelta l’abbiamo fatta. Adesso tocca a te!

Sì... noi tutti, in LIBERA, quella scelta l’abbiamo fatta da tempo, piantando i nostri piedi sul terreno della legalità e della giustizia sociale. Ma una scelta, da sola, non basta. Deve diventare un coro, un movimento, un’onda che non si può più fermare. E allora consentitemi di rivolgervi una domanda, semplice e diretta, che bussa alla porta della vostra coscienza: e tu? La tua scelta qual è? Perché il tempo di sperare che qualcun altro sistemi le cose è finito, è scaduto. È giunto il momento, il tuo momento, di fare la tua parte. Il futuro non aspetta, e la storia ci guarda.

mercoledì 29 ottobre 2025

Quando la scienza rifiuta il confronto. Non resta che incontrare la Prof.ssa Celeste Saulo e il Prof. Jan Barani.

Facendo seguito a quanto avevo riportato nel post di ieri - avevo anticipato la mia intenzione di contattare il Dott. Grassi per un aggiornamento - beh, l'ho fatto, e lui mi ha risposto quasi subito, con una chiarezza che non ammette repliche.

La sua risposta ha il suono secco di un'ammissione che conferma ogni più fondato sospetto. Non solo mi ha confermato la correttezza di quanto avevo ricostruito, ma ha aggiunto altri dettagli essenziali che rendono il quadro ancor più fosco.

Mi ha riferito (e quindi confermato) ad esempio, che per ben due volte è stato modificato lo schermo della stazione senza che il SIAS comunicasse al pubblico l'avvenuta modifica, e soprattutto senza spiegarne le ragioni. Questo non è più solo incuria, ma un pattern di opacità volontaria, una sistematica alterazione della scena senza rendere conto a nessuno.

E poi, il cuore della questione si sposta a Torino, al Laboratorio INRiM, quel tempio della metrologia che rappresenta il garante ultimo della veridicità del dato. 

Il Dott. Grassi mi ha confermato che, nonostante le ripetute interlocuzioni compiute dal suo legale, il Laboratorio non ha dato riscontro alla sua richiesta di accesso agli atti o di confronto. Per cui, a differenza di quanto si pensava, il muro di silenzio, non è solo regionale, ma si erge anche di fronte a un Istituto Nazionale di altissima competenza. 

Le sue parole successive squarciano il velo su quello che potrebbe essere il nodo cruciale di tutta la vicenda. Egli ricorda che nel documento tecnico-scientifico a firma di vari autori del laboratorio INRiM di Torino, con il quale la WMO ha poi deciso di approvare il record di 48,8°, è stato riportato che la stazione non era danneggiata e che dall'analisi delle foto non risultavano anomalie. 

A questa affermazione il Dott. Grassi - vedasi le prove evidenziate da egli, link: https://www.meteoweb.eu/2025/07/caldo-sicilia-record-europeo-floridia-siracusa-agosto-2021-e-clamoroso-falso-storico/1001819097/?_gl=1*m4g6uu*_up*MQ..*_ga*MTgyMDk3MzEzMS4xNzYxNjY2Mjg3*_ga_KQG15EME6Z*czE3NjE2NjYyODQkbzEkZzAkdDE3NjE2NjYyODQkajYwJGwwJGgw - oppone una constatazione di un'evidenza disarmante, quasi un paradosso tragico: peccato che lo schermo solare avesse un buco in cui ci potevano entrare anche gli uccellini.

Questa immagine, così potente e grottesca, riassume da sola l'abisso che separa la realtà dei fatti dalla narrazione ufficiale. Da un lato, un documento scientifico di convalida che, basandosi su foto non specificate, asserisce l'integrità della strumentazione, dall'altro, la testimonianza oculare di un buco tale da poter accogliere un uccello. 

Viene quindi spontaneo chiedersi: come si conciliano queste due verità? Quali foto sono state esaminate? E perché, di fronte a una discrepanza così macroscopica, non c'è stata la minima volontà di un confronto tecnico trasparente con chi quelle anomalie le ha documentate per anni? 

Ciò che emerge, ormai in modo inequivocabile, non è più la storia di un semplice dato sbagliato, ma il racconto agghiacciante di come un dubbio, coltivato con tenacia e supportato da prove incontrovertibili, stia mettendo a nudo le crepe di un sistema che forse ha più a cuore la protezione di una narrazione e dei finanziamenti che essa genera, che non la pura, semplice e, in questo caso, tremendamente scomoda, accuratezza.

Il Dott. Grassi ha aggiunto di aver già richiesto un incontro ufficiale al World Meteorological Organization (WMO), indirizzando la richiesta direttamente alla Prof.ssa Celeste Saulo, Segretario Generale dell'organizzazione, e in copia anche al Prof. Jan Barani

Da questo passaggio cruciale, posso già prevedere che a breve questo muro di gomma inizierà a mostrare tutte le sue incrinature, e sono certo che molti aspetti della storia verranno finalmente portati alla luce.

Lasciate quindi che concluda questa vicenda con un pensiero in versi: 

Del sole che ha surriscaldato i sensori,

nessuno più ascolta i suoi colori.

Si spensero i sogni e i loro splendori,

povere misurazioni senza valori.

E del vento che avrebbe detto il vero,

non resta che un silenzio bugiardo e severo.

Delle temperature... mani velate

ne han falsato le cifre incantate. 

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