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sabato 20 dicembre 2025

Riforma del condominio: A volte le denunce presentate servono a migliorare (di molto) questo paese corrotto!

Sì… a volte basta un gesto, una scelta precisa, per far sì che qualcosa inizi a muoversi.

Non parlo di rivoluzioni, né ambisco a drammi o proclami; vorrei semplicemente sottolineare quel minimo coraggio che spinge un cittadino a fare ciò che molti si aspettano e – ahimè – pochi compiono: denunciare con i fatti, non con le parole!

Ho presentato documentazione completa alla Procura nazionale e alla Gdf della mia città, allegati ufficiali, integrazioni puntuali, nessuna illazione, solo prove.

Lo feci non per interesse personale, né per vantaggio diretto, e ancor meno per “salvaguardare il proprio orticello”, ma perché chi riceve un incarico – anche se compiuto in forma gratuita – ha il dovere morale di portarlo avanti con trasparenza, soprattutto quando intorno c’è confusione, opacità, forse illegalità. Peraltro, la sentenza di condanna che ne seguì non fu solo una vittoria giudiziaria, fu la conferma che qualcosa, in quel condominio, non funzionava da tempo.

Eppure, quanti anni ed ostacoli prima di arrivare fin lì. Quante porte chiuse, quanti silenzi imbarazzati, quante risposte evasive che sembravano uscite da un copione già scritto. Mi sono sentito come Don Chisciotte davanti ai mulini a vento, che per raggiungere il suo obiettivo deve attraversare sabbie mobili, superare muri di gomma, e avanzare senza mai sapere se quel che vede è reale o solo illusione. Ogni tentativo di dialogo interpretato come fastidio, ogni richiesta di chiarezza respinta come disturbo all’ordine delle cose.

Ricordo un collega, anni fa, sempre con gli occhi fissi sul monitor delle slot online, che senza voltarsi mi diceva: Nicola… non ora, non vedi che sono impegnato? Ecco, certe volte ho avuto la stessa sensazione: mentre tu cerchi di fare chiarezza, qualcuno altrove sta giocando con luci che girano piene di corone, campane e ciliegie, totalmente indifferente al caos che genera senza nemmeno accorgersene.

Ma fortunatamente non tutti sono così. C’è chi ancora crede nel proprio ruolo, nei valori della toga e della divisa, chi tra mille difficoltà continua a lavorare con senso del dovere, procuratori rigorosi, militari onesti, ma anche dirigenti e funzionari attenti, che pur tra bastoni tra le ruote, non abbassano la guardia. Ed è grazie anche a loro che infatti qualcosa si muove.

Ed allora finalmente ecco giungere quella riforma tanto auspicata, e permettetemi di fare un plauso anche a chi – seduto in quelle poltrone di governo – ha saputo ascoltare e prendere in mano l’argomento di migliaia di condomini e delle loro difficoltà, riportando il problema ai propri colleghi del Parlamento, affinché si realizzasse quella fondamentale – per non dire necessaria – riforma della gestione condominiale.

Il 17 dicembre scorso è stato presentato il progetto di legge “AC 2692”, una riforma attesa da tredici anni, dall’ultima modifica sostanziale della disciplina condominiale. Cambia molto, e non soltanto sulla carta. Pagamenti obbligatoriamente tracciabili, fine del contante, conti correnti condominiali come unico canale per incassi e spese: niente più transazioni nell’ombra. I creditori potranno agire direttamente sul fondo comune, senza dover inseguire singolarmente i morosi, e se le somme non bastano, i condòmini in regola pagheranno in anticipo, conservando però il diritto di rivalsa. Un sistema più efficiente, certo, ma anche più equo, purché accompagnato da controlli veri.

L’amministratore non sarà più chiunque, nemmeno se interno al condominio. Dalla laurea triennale in ambito economico, giuridico, tecnico o scientifico, al percorso formativo obbligatorio, fino all’iscrizione a un registro nazionale tenuto dal Ministero delle Imprese: la professionalità diventa requisito imprescindibile. Niente più improvvisazione. Accanto a lui nasce il revisore contabile condominiale, figura nuova, indipendente, con competenze specifiche e iscrizione a un albo dedicato. Controllo reale, trasparenza finanziaria, prevenzione dell’evasione: non sono slogan, sono strumenti concreti.

Anche il fisco entra in gioco: le spese condominiali ordinarie potranno essere portate in detrazione nella dichiarazione dei redditi. Un incentivo chiaro: pagare in tempo conviene. E chi non paga? L’amministratore potrà chiedere il decreto ingiuntivo solo dopo l’approvazione del rendiconto, entro 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio. Tempi più lunghi, sì, ma più coerenti con una gestione corretta dei bilanci.

Chi esercita senza titolo rischia sanzioni pesanti, multe oltre i cinquemila euro. E in caso di reati gravi, si apre la strada alla confisca dei beni, anche di quelli posseduti dai familiari, se non ne viene dimostrata la legittima provenienza.

Non è punizione, è dissuasione. È il segnale che i tempi cambiano...

venerdì 19 dicembre 2025

COSEDIL Spa: Il problema non sono i 29 giorni per ottenere il permesso di costruire, bensì la media di 800 giorni finora...

Ho letto in questi giorni un articolo su "Il Fatto Quotidiano", una delle poche testate che ancora leggo, non per fedeltà incondizionata, ma perché almeno tenta di non arrendersi al copione condiviso.

Le altre testate ormai, sono troppo allineate ai voleri degli editori o dei palazzi della politica, e quindi da tempo, le ho lasciate indietro senza alcun rimpianto...

Eppure, stavolta non mi trovo d’accordo, già... con l’impostazione scelta: non tanto per i fatti riportati - chiedo scusa sin da ora all’autore, se ho frainteso - quanto per il sottinteso che accompagna il racconto: come se una pratica conclusa in tempi umani non potesse che nascondere qualcosa di storto o una scorciatoia illegittima dietro la vicenda della COSEDIL Spa.

Il punto per me non è se quella società abbia ottenuto un permesso in 29 giorni - un tempo che, sì, fa sobbalzare chi conosce bene i tempi biblici della burocrazia edilizia italiana - ma piuttosto perché, per ottenere un permesso c'è bisogno di otto mesi, due anni, una vita intera, tra attese, solleciti, correzioni e ahimè silenzi?.

Il vero interrogativo non è dunque chi è stato bravo oppure ha saputo correre più veloce, ma perché tutti gli altri sono costretti a camminare con i piedi nel cemento fresco. Ecco la vera domanda da porsi è: quali ingranaggi si inceppano, dove si annidano le inefficienze, chi ha interesse a lasciarle lì, e soprattutto, cosa potremmo fare, domani, se davvero volessimo svecchiare un sistema che non rallenta lo sviluppo per difetto, ma lo paralizza per scelta.

Condivido, senza riserve, le parole dell’Ing. Gaetano Vecchio, uno dei titolari dell’azienda - e lo dico con la massima trasparenza, visto che qualcuno potrebbe insinuare retroscena personali: non conosco l’ingegnere né di vista, né in cantiere, neppure per lontana fama professionale. In 35 anni di direzione tecnica, trascorsi quasi interamente fuori dalla Sicilia - per scelta, per lavoro, per necessità - non ci siamo mai incrociati. Solo da un anno e mezzo sono tornato qui, in questa terra che amo con tutte le sue contraddizioni, eppure sempre - come dimostrano con i fatti le mie denunce - con gli occhi aperti.

L’articolo in questione, scritto con cura e rigore da un giornalista che stimo e con cui ho avuto modo di confrontarmi più volte, racconta di un intervento edilizio rilevante - oltre 8000 metri quadri - per il quale il permesso è arrivato in meno di un mese. E qui sorge la domanda inevitabile: se i documenti sono stati depositati in perfetta regola - progetti conformi, relazioni tecniche a norma, pagamenti effettuati, pareri acquisiti, vincoli verificati - perché mai dovremmo sospettare di un iter celere? Non è forse il segnale che qualcosa, da qualche parte, funziona?

Mi vien da dire che forse, invece di cercare ombre, dovremmo applaudire l’amministrazione di Acireale, capace di esaminare una pratica complessa con tempestività, chiarezza e competenza, virtù non così rare quanto si fa credere, ma certamente non diffuse come dovrebbero.

Basti guardare alcuni comuni del Nord, quelli che la retorica giornalistica spesso indica come “esemplari”, per scoprire che sì, anche lì certe pratiche vengono chiuse in 25/30 giorni e nessuno alza un sopracciglio, perché lì la velocità non è sospetta, è normale.

Ecco, qui casca l’asino: la retorica del “Sud corrotto, Nord efficiente” è un automatismo pigro, e soprattutto falso. Ho trascorso metà della mia vita tra Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana, e posso dirlo con cognizione di causa: il malaffare non ha coordinate geografiche, la burocrazia punitiva non è una specialità regionale, gli interessi incrociati non rispettano confini amministrativi. “Tutto il mondo è paese” non è un modo di dire per rassegnarsi, ma un invito a smettere di demonizzare un luogo solo perché ci fa comodo pensare che altrove sia tutto diverso.

La COSEDIL ha fatto una scelta razionale: investire dove le condizioni lo consentono, e minacciare di spostarsi altrove se quelle condizioni vengono meno. Non è un ricatto, è il mercato, crudo, vero, disarmante. E se questa minaccia costringe un’amministrazione a fare il proprio dovere in tempi umani, forse non dovremmo lamentarci, ma chiederci perché non accada sempre così: perché non si faccia sistema, perché non si trasformi quell’eccezione in regola.

Perché ogni permesso rilasciato in tempi decenti non è un favore a qualcuno, ma un atto di giustizia verso tutti. È un segnale per chi crede ancora nel fare, per chi vorrebbe costruire, assumere, progettare, e invece si sente dire “aspetti”, “vediamo”, “forse”, “non ora”. È un colpo al cuore di chi, come me, ha scelto di girare il mondo pur di non rimanere impantanato nel limbo delle carte bollate - non per sfuggire alla legalità, ma per inseguire la possibilità di lavorare dentro una legalità che non strangola, ma sostiene.

E allora sì, concludo riprendendo le parole dell’ingegner Vecchio - ripeto, non perché le condivido per cortesia, ma perché le sento come fossero mie: “Con tempi più lunghi avremmo spostato altrove l’iniziativa”.

Consentitemi di aggiungere su questo (straziante) punto che se fossimo onesti fino in fondo, dovremmo ammettere che, quando qualcuno se ne va per non attendere l’eternità, non è lui a tradire il territorio: è il territorio che ha già tradito lui.

Lo so bene, non per teoria, ma per esperienza diretta - e dolorosamente familiare. Le mie due figlie, entrambe laureate - una a Milano, l’altra a Perugia - non hanno scelto di restare lontano per vocazione nomade, né per ambizione smisurata. Semplicemente, qui non hanno trovato un sentiero percorribile: non un rifiuto esplicito, ma un’assenza - di opportunità chiare, di procedure trasparenti, di segnali che dicessero: qui puoi costruirti un domani senza dover prima scavarti una trincea nella burocrazia. E così se ne sono andate, non con rancore, ma con quella lucida rassegnazione che nasce quando capisci che il tuo impegno, da solo, non basta.

Non le giudico, anzi le ammiro, e ogni volta che sento parlare di “fuga dei cervelli” come se fosse un fenomeno naturale, inevitabile, quasi geologico - mi vien da chiedere: e se invece fosse solo la conseguenza logica di un sistema che premia chi aspetta in silenzio, e punisce chi prova a camminare?

giovedì 18 dicembre 2025

Dove i vangeli "non ufficiali" raccontano un’altra Chiesa – (Terza e ultima parte). E un invito, caro Roberto, per il monologo che ancora manca.

E in questa tradizione, il cosiddetto Vangelo di Giacomo - un testo apocrifo del II secolo - stranamente non è stata inserita come biografia evangelica, c'è la ricostruzione della sacralità della famiglia: Maria è presentata come figlia del tempio, dedicata fin da bambina a Dio; Giuseppe è un vedovo anziano, scelto solo per proteggere la sua purezza; Gesù nasce in silenzio, senza clamore, e subito dopo è Giacomo, il primogenito di Giuseppe, a entrare in scena come custode della sorellina (Maria) e poi del fratellastro (divino). 

Non vi è alcun miracolo nel parto, e neppure adorazione dei magi, c’è semplice devozione, rispetto, familiarità. Per gli ebioniti, la santità non era nell’eccezionale, ma nel quotidiano. Nel fare bene ciò che la Torah chiede, senza sconti, senza scorciatoie e quando Giacomo morì lapidato, per loro non cadde un leader tra tanti: cadde il pilastro che teneva ancora unita la casa di Gesù alla casa d’Israele.

Certo, col tempo quella voce si fece sempre più flebile e così mentre Roma cresceva, Antiochia dibatteva e Alessandria speculava, Gerusalemme era stata sepolta dai romani sotto le ceneri...

E i vangeli - non parlo solo di quei quattro che ormai leggiamo come fossero uno - non furono scritti in un’unica volta, né con un unico intento. Ognuno porta i segni del suo tempo, delle sue ferite, dei suoi conflitti risolti a parole quando non era più possibile risolverli a fatti. 

Quello di Marco, probabilmente scritto prima della distruzione del Tempio, non conosce ancora la figura di Pietro come fondamento: lo mostra smarrito, che fugge nudo dal Getsemani (un dettaglio troppo strano per essere inventato...), che tace davanti al sommo sacerdote, che non compare alla tomba vuota, anzi, le donne “non dissero nulla a nessuno, perché avevano paura”, un testo aperto, incerto, come la comunità che lo genera. 

E poi Matteo, scritto dopo il 70, in una chiesa divisa tra ebrei osservanti e convertiti ellenisti, sente il bisogno di chiudere quella incertezza: ecco allora il discorso della montagna, le antitesi («Avete inteso che fu detto… ma io vi dico»), e, appunto, la dichiarazione su Pietro — «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa». Ma attenzione, quanto scritto non rappresenta un titolo di proprietà, è un atto di fiducia in un momento di crisi. È come se la comunità dicesse: “Abbiamo perso Gerusalemme, abbiamo perso il Tempio, abbiamo perso Giacomo, ma non abbiamo perso la possibilità di ricominciare e se proprio dobbiamo ricominciare, che sia qualcuno che ha fallito, ma che è stato guardato ancora”.

Luca, viceversa, cerca l’unità: fa parlare Pietro a Pentecoste, ma affida la parola decisiva al concilio a Giacomo; mostra Paolo in viaggio, ma lo fa arrestare a Gerusalemme, in quella stessa città dove Giacomo camminava a testa alta fino all’ultimo. Giovanni, infine, scrive più tardi, forse a Efeso, e sa che ormai Giacomo è un nome quasi scomparso: allora trasforma Pietro in Simone figlio di Giovanni, lo fa riconoscere tre volte da Gesù dopo il rinnegamento - non per umiliarlo - ma per restituirgli il posto non come capo, ma come pastore. È un gesto di riconciliazione postuma, un tentativo di tenere insieme ciò che la storia aveva separato.

Ecco che così, pagina dopo pagina, quei vangeli non raccontano solo ciò che accadde, ma anche ciò che si sperò potesse ancora accadere: un’unità che non cancellasse le differenze, una fedeltà che non diventasse rigidità, una memoria che non si trasformasse in mito. 

Il problema non fu mai che qualcuno abbia “inventato” il Pietro che oggi tutti conoscono, quello che, in questi giorni, Roberto Benigni ha raccontato con tanta grazia e forza. No... il problema fu che, più tardi, qualcuno decise che quella sola immagine dovesse bastare a reggere tutto, la fede, il potere, la memoria persino e nel farlo, lasciò fuori le altre voci, i volti che non chiedevano di comandare, ma solo di testimoniare.

Come se la casa di Gesù potesse avere un’unica colonna portante, e non invece una trama di relazioni, di tensioni, di silenzi pesanti e parole ritrovate. Perché la verità è che Gesù non ha lasciato un successore: ha lasciato una tavola apparecchiata e su quella tavola c’erano dodici posti e quindi non uno solo. Alcuni furono occupati da chi rimase, altri da chi decise di andare lontano, altri ancora restarono vuoti, segno che nessuno poteva dire: “Qui siedo io, e qui nessun altro”!

Ecco allora che - a seconda di come vogliamo leggere la storia, forse o certamente - il vero errore non fu tanto mettere Pietro troppo in alto, quanto dimenticare che ogni volta che lo si sollevava, qualcun altro veniva inevitabilmente spinto giù: Giacomo, Maria di Magdala, Giuda di Giacima, la vedova con le sue due monetine, non furono cancellati, no... furono semplicemente messi fuori campo, come ombre al bordo della tela ufficiale, mentre la luce veniva concentrata su un solo volto.

Ecco per cui, mio caro Roberto, consentimi di suggerirti il tuo prossimo monologo e cioè l’unico e vero messaggio che Cristo desiderava: un insegnamento che riuniva l’umanità intera, senza divisioni religiose, senza più poveri e ricchi, senza padroni e servi, senza chi comanda in nome di Dio e chi obbedisce per paura del castigo. 

Il tutto potremmo dire riunito in una sola legge - scritta non su pietra - ma nel cuore: “ama il prossimo tuo come te stesso”.

Basta  un solo segno distintivo: non la fede dichiarata, bensì il pane spezzato con chi non ha, con una giustizia equa fatta anche per chi non conta, la verità detta a chi non la vuole sentire, perché Gesù non venne a fondare una Chiesa, venne a ricordare a tutti che siamo una sola famiglia e che ogni volta che qualcuno viene lasciato fuori - non è lui a essere escluso - siamo noi a smettere di essere umani.
E quel giorno, non è Dio che si allontana: è l’uomo che si dimentica di sé!

mercoledì 17 dicembre 2025

Quando il silenzio di Giacomo parla più delle parole di Pietro - Seconda parte

Consentitemi - prima di iniziare la seconda parte del mio post - di riportarvi quanto ricevuto - ieri - dalla mia prima lettrice, e cioè mia moglie (ma sono certo che sarete stati in molti a pensare la stessa cosa…):

- Troppo lungo per leggerlo immediatamente, lo farò con calma. Hai forse voluto eguagliare Benigni per lunghezza??? Ma lui a differenza tua è stato profumatamente pagato per intrattenere gli spettatori 🤣🤣🤣🤣

Risposta (che in un qualche modo preannuncia quanto sto ora per scrivere):

- Hai ragione sulla lunghezza, ma per trattare con serietà un tema così vasto (e come sappiamo troppo spesso edulcorato...) servono necessariamente più parole. Ho preferito quindi una divisione in più parti a un riassunto frettoloso. Il punto centrale del mio post non è la mia opinione personale, ma il tentativo di ricostruire coerentemente eventi storici che, da duemila anni, vengono (sempre) celati dietro narrazioni più “comode e spettacolari”, come per l’appunto alcuni monologhi di intrattenimento.

Ed allora - dando seguito a quanto scritto ieri - ho lasciato l’ultima parola al “silenzio”, come si fa quando si è detto qualcosa che non può essere né aggiustato né cancellato, solo accolto. La storia - e quindi non la leggenda - ci ha consegnato un Giacomo solido, silenzioso, radicato in quella terra di Gerusalemme, mentre viceversa ci ha fatto conoscere un Pietro che cammina sui margini, tra le onde e le città, tra l’entusiasmo coraggioso di chi crede ciecamente ed il ripensamento umano di chi evidenzia paura, già… tra il fuoco e il dubbio.

Eppure, non finisce qui, perché se è vero che la storia non mente, è altrettanto vero che non parla mai da sola: le sue parole sono sempre intrecciate con quelle di chi, dopo, ha dovuto scegliere da che parte stare, in tempi in cui non si trattava più di seguire un uomo, ma di costruire una memoria capace di resistere al tempo. E quella memoria, inevitabilmente, ha dovuto fare i conti con conflitti che non erano più tra Giudei e Romani, ma dentro la stessa comunità dei discepoli.

Paolo e Pietro, per esempio, non furono mai compagni di strada nel senso tranquillo del termine.

Paolo, cittadino romano, colto, irruente, convinto che la buona novella fosse per tutti, senza distinzioni di circoncisione né di legge; Pietro, galileo, cresciuto nel ritmo delle sinagoghe, fedele alla Torah anche quando non ne capiva più il senso, sempre in bilico tra ciò che aveva udito da Gesù e ciò che il cuore gli imponeva di non abbandonare. 

Ad Antiochia - come ho scritto ieri - lo scontro è netto: Pietro mangia con i pagani finché non arrivano gli emissari di Giacomo, allora si ritrae, come chi teme di aver oltrepassato un confine che non gli compete spostare: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani… come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?». Non è un rimprovero teologico: è la voce di chi sente cedere il terreno sotto i piedi, perché sa che se la legge diventa barriera, allora la grazia non è più grazia. Ma Pietro tace e quel silenzio, più di ogni parola, ci dice quanto il primato non fosse mai stato suo: non aveva l’autorità di decidere da solo, perché la comunità di Gerusalemme aveva un centro, e quel centro si chiamava Giacomo.

E proprio attorno a Giacomo si radica una corrente di pensiero oggi quasi dimenticata, ma che per secoli fu viva, presente, resistente: gli ebioniti, i “poveri”, che vedevano in Gesù non un dio disceso dal cielo, ma un uomo giusto, profeta e maestro, figlio di Giuseppe e Maria, fratello di Giacomo, osservante della Legge fino all’ultimo respiro. Per loro, il vero erede non era chi predicava la libertà dai precetti, ma chi, come Giacomo, portava ogni giorno il "tallit", pregava nel tempio, rifiutava la carne sacrificata agli idoli e viveva in povertà radicale. 

Non avevano bisogno quindi di un Pietro universale, né di un Paolo che parlava in greco alle città: avevano bisogno di un fratello che camminava per le strade di Sion come aveva camminato Gesù, con le stesse scarpe polverose e lo stesso sguardo sulle vedove e gli orfani. 

FINE SECONDA PARTE

martedì 16 dicembre 2025

Roberto (Benigni), il tuo monologo su Pietro è meraviglioso, ma la storia di quell'uomo racconta tutt'altro - Prima parte

Dopo la presentazione su Rai 1 del monologo di Roberto Benigni sul discepolo di Gesù, Pietro, ho letto nel web un post di Vatican News che riprendeva quell'assolo e lo intitolava "Quella forza che nasce dalla fragilità, Benigni racconta San Pietro", ed allora ho deciso che fosse "giusto" (sì... un parola che trova proprio in questo contesto la sua perfetta collocazione...) bilanciare, sì...quanto da entrambi riportato. 

Sì... perché anch’io, come molti di voi, ho ascoltato con attenzione quel monologo durato circa due ore - opera del grande attore, regista, sceneggiatore e cantautore che tutti conosciamo - ma debbo dire che quanto ho udito mi è sembrato più un racconto fantasioso - certo bello - avvincente, a volte commovente, ma non un terreno su cui fermarsi a riflettere, bensì uno specchio in cui riconoscersi senza dover mai mettersi in discussione.

Già - caro Roberto - ciò che hai detto va bene ai bambini, e va bene anche a tuuti quei fedeli che vogliono credere tenendo però gli occhi chiusi, senza mai mettere in discussione nulla, accettando - quasi fossero seguaci di una verità che non ammette domande - tutto ciò che viene loro insegnato: già... mai a chiedersi se quegli insegnamenti siano radicati nella storia o costruiti per consolare. 

Non chiedono a se stessi se quelle parole ascoltate con devozione, a volte persino studiate in modo approfondito, servano davvero a discernere il giusto dall’ingiusto o - come solitamente accade - solo a confermare ciò che già si vuole sentire. Già... l’importante è riceverle - e basta- come se a parlare loro fosse il divino in persona.

Per cui, quanto andrò ora a scrivere non è per tutti, in particolare non per chi ha da sempre chiuso il proprio cuore e cammina come un cavallo con i paraocchi, sì... perché la strada non l’ha scelta lui: l’ha decisa il fantino!

Ed allora, consentimi di far conoscere chi era realmente - quantomeno storicamente - quel Pietro da te tanto decantato con amorevole passione e scusami se nel mio post, mi rivolgerò a te senza darti del lei, ma su questo punto, sono certo che apprezzerai il mio esser spontaneo.   

Innanzitutto desidero precisare che nel tuo monologo ti stessi riferendo a quel soggetto chiamato "Simone", detto Kefà, in aramaico: “roccia”, (tradotto in greco Petros). Ed allora iniziamo a vedere chi era questo umile pescatore, originario di Betsaida (Galilea); certamente era un analfabeta o quantomeno con una bassissima scolarizzazione: basti leggersi il passaggio - Atti 4,13 - dove viene descritto come "agrammatos kai idiotēs" -  e cioè "senza lettere e privo di formazione".

Ed allora continuando, vediamo cosa sappiamo di lui (quantomeno) con certezza: dovrebbe esser stato uno dei primi seguaci di Gesù ed è anche presente in molti episodi riportati come la trasfigurazione, Getsemani, rinnegamento (quest’ultimo come sappiamo presente in tutti e quattro i vangeli canonici).

Sappiamo inoltre che dopo la morte del profeta Gesù, egli è tra i protagonisti del movimento post-pasquale: appare per primo - o quantomeno tra i primi -  a Gesù risorto (vedasi Cor 15,5; Lc 24,34), inoltre, predica la Pentecoste (Atti 2), ma sappiamo bene come questa rappresentazione sia una narrazione teologica molto tardiva.

Certo svolge un ruolo di rilievo tra i dodici apostoli, ma quel numero “Dodici” rappresenta un gruppo simbolico, non un organo stabile, difatti, dopo la morte di Giuda, Mattia viene “sorteggiato” e quindi scelto, ma stranamente non compare più...

Passiamo allora a tutta una serie di frasi riportate nei cosiddetti vangeli sinottici, in particolare quella in cui Gesù chiama Simone Pietro e gli dice: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt 16,18). 

Ma questo testo compare solo in Matteo- ed è in greco- segno che non risale alla tradizione aramaica di Gesù- ma a una redazione posteriore- forse ad Antiochia, attorno agli anni 80-90 d.C. - in una comunità attraversata da tensioni interne - alla ricerca non di un’identità “unica”, ma di un’autorità riconosciuta da tutti, proprio mentre giudeo-cristiani ed ellenisti stavano prendendo strade diverse.

Se prendiamo ad esempio quello di Marco (il più antico), lì... non vi è riportato nulla!

Ed ancora, permettimi di aggiungere come Luca e Giovanni non lo riportano in quella forma; si comprende quindi come quell’episodio sembra rispondere più a una situazione successiva e non ai giorni di Gesù. Vi è in quella frase - creata appositamente - la ricerca di legittimazione gerarchica, soprattutto in un periodo nel quale emergevano forti tensioni tra giudeo-cristiani ed ellenisti.

Per cui, la frase “tu sei Pietro…” probabilmente non possiede nulla di storico, nel senso di “pronunciato da Gesù in quel momento”, ma riflette una volontà di sviluppò teologico che voleva porre Pietro in un ruolo di leader che non gli spettava e che, come sappiamo, fu assegnato a Giacomo detto “il Giusto”.

Ed allora, mettiamo per un momento da parte questa figura di Pietro e andiamo ad analizzare la figura di Giacomo (Ya‘aqov), fratello di Gesù (Mc 6,3; Gal 1,19), che emerge con chiarezza già nei primi decenni, e in modo assai più concreto rispetto (a questo tuo e non solo tuo...) "Pietro". 

Paolo lo chiama “Giacomo, il fratello del Signore” (Gal 1,19), e dice di averlo incontrato a Gerusalemme e difatti, in Galati 2,9, si legge: e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi.

Scusami Roberto, hai letto? I “pilastri” della chiesa di Gerusalemme sono “Giacomo, Cefa (Pietro) e Giovanni”, ma è Giacomo ad essere nominato per primo.

Ma non solo, nello stesso capitolo, Paolo riferisce di un disaccordo ad Antiochia tra Giacomo e Pietro (Gal 2,11–14): 11 Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12 Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13 E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14 Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?

Si comprende da questo passo come Pietro si ritiri dalla mensa comune con i pagani per timore “di quelli che venivano da Giacomo”, un segno tangibile di come fosse Giacomo ad avere l'autorità, riconosciuta anche fuori Gerusalemme.

Andiamo avanti, prendiamo ora gli Atti degli apostoli al passaggio 15 (concilio di Gerusalemme) è ancora Giacomo a pronunciare la decisione finale (At 15,13–21) e non Pietro, quest’ultimo parla solo per primo: “Fratelli- voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta fra voi- perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del vangelo” (At 15,7), ma quando tutti finiscono di parlare, è Giacomo a concludere: Fratelli- ascoltatemi- Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome” (At 15,13–14). Il ruolo decisivo è suo!

Ecco perché mi dispiace contraddirti quando dici: “Voi potete prendere qualunque libro al mondo, ma quando si arriva al Vangelo non c’è discussione”. No... perdonami ma non sono d'accordo, viceversa ritengo ci sia molto da discutere ed allora per farlo continuo ad argomentare quanto tu hai "abilmente" sospeso...

Prendiamo ad esempio un bellissimo libro di Giuseppe Flavio - https://www.homolaicus.com/religioni/fonti/antichita-giudaiche.pdf - Antichità giudaiche XX,200: “Poiché Anano - sommo sacerdote - riteneva di avere ora l’occasione propizia, convocò il sinedrio e vi fece comparire il fratello di Gesù -detto Cristo- di nome Giacomo e alcuni altri, e li fece lapidare.” Siamo nel 62 d.C. e Giacomo - non Pietro - viene ucciso come leader riconosciuto della comunità giudeo-cristiana.

La conclusione storica è evidente a chiunque - in particolare a chi vuole avere un cuore aperto - e cioè che, tra il 30 e il 62 d.C., Giacomo è il vero centro di gravità della chiesa madre di Gerusalemme, mentre Pietro ha un ruolo certamente itinerante e carismatico, ma non stabile, né direttivo nel senso istituzionale.

Ed allora viene spontaneo chiedersi: perché Pietro storicamente “sopravvive” e Giacomo scompare dalla memoria popolare?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto far riferimento ad alcune circostanze: 

-la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.) - la chiesa madre viene dispersa e la successiva centralità va prima ad Antiochia e poi a Roma, dove la tradizione petrina si radica presto (fine I sec.: Clemente romano chiama Pietro “esempio di sopportazione”, 1 Clem 5,4–7).

- Giacomo è strettamente legato al giudaismo: osservante della Torah, asceta, “giusto”, ma è dopo il 70, che la separazione tra ebraismo e cristianesimo inizia ad accentuarsi e quindi quella sua figura non si adatta facilmente a una chiesa sempre più ellenistica e soprattutto pagana.

- Pietro diventa “universale”: quel pescatore impulsivo, fallibile (rinnegamento), poi convertito, rappresenta un personaggio più “umano” e narrativamente efficace, difatti è proprio ciò che hai realizzato tu, in maniera sublime, esaltando la sua virtù umana: è diventato anche il mio migliore amico, perché me ne sono innamorato! (…) Come parla, come si muove, come reagisce, come guarda, come cammina, come pesca E quante ne combina! Oh, Signore! All'inizio non ne fa una giusta. Non capisce, sbaglia, inciampa, ci ripensa, (…) è proprio uguale a noi, ripeto: il più vicino a noi, e nello stesso tempo il più vicino a Gesù. 

La vicenda umana del pescatore di Galilea - raccontata da te - è perfetta:  svela «cosa può fare un uomo per Dio e cosa può fare Dio di un uomo». E difatti, la sua morte a Roma (probabile sotto Nerone, ca. 64–67) lo lega indissolubilmente alla nuova Chiesa di Roma, destinata a un ruolo sempre più crescente.

Ed allora concludendo, ma soprattutto basando le mie riflessioni su fatti concreti (ho eliminato qualsivoglia fantasia), non vi è alcuna prova storica che Gesù abbia istituito Pietro come “capo” della futura chiesa, come peraltro il ruolo di Pietro se pur reale, non fu mai gerarchico nel senso moderno. Viceversa fu Giacomo "il Giusto", ad esser stato nominato leader della prima comunità cristiana, con un’autorità riconosciuta anche da Paolo e dallo stesso Pietro stesso.

Ecco perché quanto emerso dalla storia sta in netto contrasto con il racconto del tuo monologo - e ancor più con la tradizione consolidata della Chiesa - in particolare con quella “primazia” di Pietro che non ha fondamento nei primi decenni dopo Gesù, ma si forma lentamente, tra l’80 e il II secolo, già... come risposta a bisogni reali (e non divini...) di unità, riconoscibilità e continuità, in una fede che stava diventando universale - ma rischiava di perdere le radici - e così si decise di costruire un fondamento solido, sì... su una pietra che, storicamente, non era mai stata posta dal profeta di Nazaret.

FINE PRIMA PARTE

lunedì 15 dicembre 2025

La confisca c’è, l'indagato pure. Ma chi ha permesso che accadesse? Quando lo strumento della legalità si incaglia nel suo stesso meccanismo.

C’è un’impresa, confiscata da anni, che è riuscita a muoversi come se nulla fosse cambiato.

C’è ora un processo, con richieste di condanne pesanti, e un pubblico ministero che si presenta in persona, segno che la materia non è secondaria, né accidentale.

C’è un nome che non serve citare, perché non è di quello che si tratta: quello che conta è che l’impresa abbia continuato a funzionare dopo la confisca, nonostante la confisca, quasi grazie alla confisca, se è vero che chi la doveva custodire ne è diventato parte attiva.

C’è un amministratore giudiziario oggi indagato per concorso esterno e peculato aggravato, e questo da solo basterebbe a far suonare un campanello: uno solo, ma forte.  

Eppure il punto non è neanche lui, già... il punto è che qualcuno, all’interno del Tribunale - non di Messina, bensì di Catania - avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto leggersi, una decina di anni fa, le segnalazioni che qualcun altro aveva depositato (per non voler aggiungere "protocollato") con cura, anche con timore, ma con la speranza che qualcosa cambiasse.

Non erano voci, non erano sospetti: erano documenti, date, firme, ma soprattutto circostanze concrete, inequivocabili.

Se qualcuno quei documenti li avesse letti e, soprattutto, li avesse presi sul serio, oggi non saremmo qui a sentire un Pm chiedere pene così alte per reati che, di fatto, potevano essere interrotti molto prima.

Chissà se, in questo momento, quel “qualcuno” - di cui si conosce nome e cognome, anche se non serve, in questa sede, scriverli - non stia controllando il telefono più del solito, non stia ripensando a scelte fatte o dovrei dire... non fatte, non stia misurando il rischio che la persona ora sotto processo, decida di parlare, non solo di ciò che ha fatto, ma di ciò che è stato permesso. 

Non è fantasia, non è suggestione: è una possibilità che conoscono bene coloro che hanno seguito la vicenda fin dall’inizio, ne conoscono i passaggi, le omissioni, i silenzi che pesano più delle parole.

E forse -  per ora solo forse - c’è chi oggi, pur stando dentro le istituzioni, non sa più come muoversi: ogni passo rischia di incrinare non un singolo errore, ma un intero sistema fatto di sguardi bassi, di fascicoli chiusi in un cassetto, di silenzi scambiati per prudenza e di scelte giustificate come “opportunità”, ma che forse hanno radici più opache.

Chissà se una luce più insistente - quella, per dire, di un’inchiesta condotta con metodo e pazienza, lontana dal clamore ma vicina ai documenti - potrebbe finalmente illuminare quei meandri in cui la legalità si perde non per violenza, ma per omissione.
Non serve chissà quale rivelazione: a volte basta qualcuno disposto a voltare pagina, davvero, e a leggere fino in fondo.

C’è chi ieri ha parlato di estorsione, di violazione della pubblica custodia, di sottrazione di beni sequestrati - tutti reati gravissimi - e lo ha fatto con chiarezza, con rigore.

C’è chi ha confermato che l’impresa, nonostante la confisca, non ha mai smesso di operare sotto certe logiche... 

C’è chi ha ascoltato, ieri, le arringhe della difesa, e chi ha notato l’assenza - significativa - di due parti civili che avrebbero dovuto esserci: l’Agenzia nazionale per i beni confiscati e il Comune. 

E c’è chi, leggendo tutto questo, non prova rabbia, non prova soddisfazione, ma un senso profondo di stanchezza morale: perché non è la prima volta, non sarà l’ultima... e ogni volta si ripete lo stesso schema. La denuncia arriva, qualcuno la riceve, nessuno la legge fino in fondo, oppure preferisce insabbiarla nell’ultimo cassetto. 
Finché non è troppo tardi, fintanto che improvvisamente non diventa notizia, dopo che arriva un’inchiesta giudiziaria, un processo, sì... per ricordare ciò che un semplice atto di attenzione avrebbe potuto evitare.
 
Ma forse - mi viene ora da chiedere - andava bene così?

domenica 14 dicembre 2025

Quando la corruzione non è anomalia. È metodo! (Seconda parte)

Ciò che da circa trent'anni si sta compiendo in questo nostro Paese è chiaro e ahimè terribile: si sta selezionando una classe di peggiori, perché la disonestà diventa strategia vincente!

Questo processo - evidente a tutti - ha di fatto degradato in modo visibile la qualità della vita, dei servizi, della democrazia stessa, normalizzando l’illegalità, sì... fino a farla apparire giustificabile.

È quasi diventata una componente strutturale del nostro vivere, ma non solo: questa normalizzazione è come un veleno che genera rassegnazione, che fa credere che le mafie, la corruzione, l'illegalità diffusa siano qualcosa d'invincibile, e ciò serve esclusivamente affinché essi possano prosperare proprio grazie a questo clima di indifferenza e disincanto, nella complicità silenziosa di chi pensa solo al proprio minuscolo orticello, lo stesso che frutta indegno vantaggio.

Come dicevo nella prima parte di questo post, la mia terra è quarta in questa classifica, ma in fondo è solo un dettaglio in un malessere che è nazionale, che dal Sud arriva al Centro e al Nord, con nomi e modalità forse diverse, ma con la stessa, identica sostanza: l’interesse privato che divora il pubblico, il bene comune che si riduce a merce di scambio.

Non è un’anomalia, ci viene detto con forza. È un sistema che si adatta, si evolve, usa tecniche sofisticate o si nasconde dietro leggi fatte su misura, conflitti di interesse tollerati, relazioni opache. La questione, comprenderete, va ben oltre la singola mazzetta, il singolo concorso truccato.

Sono all’opera meccanismi che consolidano un potere irresponsabile, che catturano lo Stato per trasformarlo in una risorsa per pochi. Invocare pene più severe non basta (d'altronde, basti osservare le riforme ridicole che compiono sulla giustizia, per comprendere come nessuno abbia realmente interesse a contrastare questa condizione...), serve un patto diverso, un cambio radicale di mentalità, sia da parte dei cittadini, ma soprattutto nelle istituzioni (solitamente i primi ad aver beneficiato, da generazioni, di questo stato di fatto)!

Serve smetterla di pensare che così vadano le cose e che non vi sia altra possibilità che adeguarsi o lamentarsi a bassa voce, sì... sapendo di poter anche voi, un giorno, essere nella posizione di chiedere quel favore, quella raccomandazione che vi sembra l’unica via per sopravvivere o per farcela!

Le caste, le consorterie, le associazioni a delinquere, i gruppi di potere non sono un destino ineluttabile. Sì... sono il frutto di scelte, di omissioni, di connivenze, scelte che qui, nella mia Sicilia, ma non solo, sembrano essere state fatte così tante volte da aver creato una strada maestra, percorsa ormai senza più vergogna.

E allora, mentre leggo di summit per le nomine, di giro di telefonate, di affari che vanno dalla sanità alla cultura, il mio dubbio (ma ormai da troppo tempo dubbi non ne ho...) si trasforma in una domanda scomoda, anche ahimè per molti miei amici, conoscenti, molti di questi miei conterranei: quando smetterete di essere ancora complici, anche solo per inerzia, di tutto questo?

Già... quando decideremo che il bene di tutti, il servizio che funziona, la promozione meritata, valgono più della bustarella, della raccomandazione, del favore ottenuto per sé o per i propri cari?

Sì... so bene che la risposta, purtroppo, non la trovo in nessuna classifica.

Ed allora, se qualcosa non vi quadra, in un cantiere, in un bando, in un condominio: segnalatelo! Come ripeto da sempre: non serve essere eroi, basta non voltarsi dall’altra parte.

sabato 13 dicembre 2025

A proposito di "COSEDIL S.p.A.": quando un mio commento, elogio alla legalità, trova una sua tragica attualizzazione.

Proprio ieri, sulla homepage di LinkedIn, mi sono imbattuto in un post di una società che opera nella mia regione, la "COSEDIL S.p.A.". Il post annunciava con orgoglio un incontro di alto livello in Mozambico, tra il loro amministratore e il Presidente del paese africano, nell'ambito del Piano Mattei. Si parlava di partnership strategiche, di contributi a progetti infrastrutturali di lungo periodo e di volontà di essere protagonisti attivi nei processi di crescita. 

Quella lettura mi ha spinto a lasciare un commento personale, dettato dalla stima che nutro per questa azienda: Secondo il sottoscritto, la Società COSEDIL S.p.A. rappresenta una delle poche realtà imprenditoriali serie e solide di questo nostro Paese e, in particolare, della mia Sicilia. Questo giudizio non deriva soltanto dall’evidente professionalità dei suoi titolari e dei numerosi collaboratori, ma soprattutto dai principi fondamentali che guidano l’azienda. Ho sempre osservato che COSEDIL ha fatto della sicurezza e del benessere dei suoi lavoratori una priorità assoluta, affiancando con coerenza una rigorosa osservanza dei principi di legalità, aspetto che merita un particolare riconoscimento. Per tali ragioni, ritenevo che COSEDIL S.p.A. costituisse un esempio virtuoso e un modello di riferimento.

Oggi, ahimè, la cronaca mi ha riportato bruscamente alla complessità della nostra terra, dando purtroppo una tragica conferma a quell’elogio della legalità. La notizia è che proprio alla COSEDIL, impegnata in un cantiere a Messina, è stata avanzata una richiesta di pizzo da 250 mila euro. La modalità è stata quella moderna della videochiamata, fatta addirittura da detenuti in carcere, seguita poi dalla visita di un minorenne in motorino. La reazione dell’azienda, in questo caso, è stata esemplare e lineare con i principi che le ho sempre riconosciuto: dopo la richiesta, hanno immediatamente avvertito i carabinieri.

Questo episodio, nella sua drammaticità, pur rafforzando ancor più il mio giudizio sull'impresa, getta però un’ombra profonda sul contesto in cui essa è costretta a operare. Dimostra che i valori della serietà e della legalità, per essere mantenuti, richiedono una coraggiosa esposizione personale e aziendale, perché la minaccia è sempre in agguato, persino in forma digitale e da dentro le carceri. E cposì... mentre un’impresa siciliana dialoga con i presidenti stranieri per costruire infrastrutture, nello stesso momento deve difendersi dall’estorsione nel suo cantiere in patria.

Tutto ciò evidenzia, in modo ancor più chiaro e desolante, come in questa terra la lotta alla criminalità organizzata - nonostante l’indiscusso e quotidiano impegno delle forze dell’ordine - sia ancora qualcosa di veramente lontano. È una battaglia che si combatte su un crinale sottile, dove il progresso internazionale e gli affari seri devono coesistere con la necessità eterna di vigilare, denunciare e resistere. 

Quell’incontro in Mozambico e quella videochiamata estorsiva sono due facce della stessa medaglia: il racconto di una Sicilia che prova a costruire il futuro senza riuscire mai a liberarsi completamente delle catene del passato. E la reazione di chi, come COSEDIL, sceglie la via della denuncia immediata, resta l’unico, indispensabile, punto da cui ripartire ogni volta!

Per questo, alla fine di questa riflessione, sento il dovere di esprimere un sincero ringraziamento a chi, sul campo, sceglie ogni giorno la parte giusta, assumendosene i rischi.

venerdì 12 dicembre 2025

Quando la corruzione non è anomalia. È metodo! (Prima parte)

La notizia arriva, un’altra volta, e non si fa nemmeno fatica a leggerla, ormai. È diventata una sorta di bollettino meteorologico che annuncia pioggia in continuazione, già... come un inverno che non vuol finir mai. 

Si parla ovunque di mazzette, bustarelle, un sistema che si fa sempre più intricato e sfacciato, e la mia terra, ancora una volta, si piazza bene in questa squallida classifica, quarta per numero di indagati. Mi chiedo, ogni volta che scorgo questi dati, cosa si nasconda veramente dietro le cifre, dietro le analisi minuziose che pure vengono compilate con cura quasi scientifica.

Mi domando se, in tutto il Paese e in particolare qui da noi (in modo così plateale), si pensi ormai esclusivamente a quel gioco perverso: prendere, farsi corrompere, aggrapparsi a qualsiasi collegamento pur di beneficiare, personalmente (o per i propri cari), di promozioni, raccomandazioni, vantaggi. Vantaggi che non sono guadagni legittimi, ma moneta falsa coniata nel retrobottega del potere, dove il valore di scambio è la dignità, spesa a credito e mai restituita.

Si snodano le storie, una dopo l’altra, e sembrano copiare sempre lo stesso copione, cambiando solo i nomi e le location. Attestazioni di residenza false, certificati di morte fasulli, appalti nella sanità o per i rifiuti che vanno al migliore offerente, non in termini di qualità, ma in termini di tangente. Licenze edilizie che spuntano come funghi dopo una pioggia di denaro, concorsi universitari truccati, voti di scambio, opere pubbliche che profumano di clan.

Parliamo di un un catalogo così esteso e variegato da far perdere il senso, da far sembrare quasi normale che ogni servizio, ogni possibilità, ogni atto pubblico abbia un prezzo segreto, una tariffa non ufficiale da saldare in un sotterraneo mercato delle influenze.

E Palermo, insieme alla mia Catania, non fanno eccezione. Anzi, sembra quasi di essere in un teatro per soli privilegiati, con i loro metodi di regime, con quelle liste di raccomandati, con quel cinico prendiamo questa, "è bona" che suona come una condanna a vita, non solo per chi la pronuncia, ma per chi la ascolta e non obietta, perché ormai ci si è abituati a considerare la corruzione una tassa di ingresso, il biglietto obbligatorio per accedere a qualsiasi diritto.

I numeri sono impietosi: quasi cento inchieste, un migliaio di persone coinvolte tra amministratori, politici, imprenditori, professionisti e mafiosi, in una commistione che ormai definisce un unico, fosco panorama. 

Emerge il ritratto di una corruzione che non è più incidente di percorso, ma sistema solidamente regolato, con le sue gerarchie e i suoi garanti che possono essere l’alto dirigente, il faccendiere, il boss mafioso o il politico d’affari. Tra questi, più della metà dei politici indagati sono sindaci, figure che dovrebbero curare il bene della comunità e che invece, stando alle accuse, ne gestiscono le risorse come un bottino privato.

E allora il mio dubbio si fa ancora più amaro: è possibile che questa sia diventata l’unica concezione del potere? Un potere che non serve, ma che si serve, in modo spudorato e totale?

giovedì 11 dicembre 2025

Benigni al Tg1 e quel ringraziamento a Papa Francesco: Il lapsus che svela un distacco.

Ieri sera, mentre il tempo sembrava fermarsi per un attimo di "pura" televisione, Roberto Benigni ha realizzato un sogno d’infanzia. 

Seduto alla postazione del Tg1, circondato da quella solennità quotidiana che è il telegiornale, ha ringraziato con il cuore in mano e tra i ringraziamenti è spuntato, naturale come un respiro, il nome di Papa Francesco. 

Un attimo dopo, in molti a casa avranno sorriso, pensando a una svista, a una gaffe dettata dall’emozione, è così che è stata raccontata, del resto. Una notizia curiosa, un "lapsus" da archiviare tra i momenti di tenerezza live.

Ma io penso di aver colto qualcosa di più profondo, ed ho  immediatamente condiviso sulla mia pagina di "X" - erano le 20.36 - il bisogno di spostare lo sguardo altrove.

Perché a volte un lapsus non è solo un intoppo della lingua, ma un piccolo tremore dell’anima. Quella parola uscita così, “Francesco”, non suona come un mero errore di cronaca. Suona piuttosto come un’eco, come la voce di un sentimento diffuso che da tempo circola silenzioso tra molti fedeli e osservatori: E' la voce di una percezione, forse inconsapevole, di un distacco.

Benigni, nel turbinio dell’emozione, ha ringraziato il Papa che per anni è stato un riferimento emotivo, un punto di vicinanza, una presenza familiare nel immaginario collettivo. Senza volerlo, ha messo in luce ciò che molte persone avvertono oggi: una differente sensibilità, un cambio di passo nel modo di sentire il Pontificato. Non si tratta di giudizi teologici o di fedeltà istituzionale, ma di qualcosa di più umano e semplice, come la percezione di una minore empatia, di una minore immediata riconoscibilità spirituale.

Ed è qui che la gaffe diventa sintomo. Benigni, artista sensibilissimo, ha involontariamente tradito non una sua dimenticanza, ma un sentire condiviso. In quel momento, sotto i riflettori, non ha pensato al titolare attuale del soglio pontificio, ma a quello che più risuonava dentro di lui, e dentro a tanti, come figura di riferimento affettivo... 

È un fenomeno che va oltre la Chiesa, in verità, accade ogni volta che un’icona carismatica lascia il posto a un successore: il confronto, a volte silenzioso, tra due modi diversi di essere, di comunicare, di farsi sentire prossimi. E le persone, nel loro intimo, faticano a trasferire lo stesso calore, lo stesso immediato riconoscimento. Benigni ha semplicemente detto, per sbaglio, quello che molti pensano senza dirlo.

Naturalmente, lui non lo ammetterà mai, neanche sotto tortura, sì... sto pensando con ironia alla "Santa Inquisizione", perché è un attore, non è un teologo o un commentatore. Perché quella era una serata di festa, di sogno realizzato, non una dissertazione sul magistero pontificio. Eppure, proprio nella sua genuinità, nella sua irriverente purezza, ha offerto uno spunto di riflessione potentissimo. 

Ci ha ricordato che i simboli, soprattutto quelli così carichi di umanità, risiedono nel cuore delle persone molto più a lungo di quanto le cronache ufficiali lascino intendere. Che la successione, per quanto canonica e legittima, non sempre coincide con una successione immediata nel sentire comune.

Forse, allora, non dovremmo ridere soltanto della gaffe. Dovremmo ascoltare quel piccolo strappo nel tessuto perfetto della trasmissione. È lì che si è insinuata una verità più grande: a volte, cambiare il nome su un documento è facile. Cambiare il nome che risuona nell’anima, quando si è emozionati, spaventati o semplicemente grati, è un processo molto più lento e intimo

Benigni ieri sera non stava leggendo un "teleprompter" (per chi non lo sapesse è il cosiddetto "gobbo elettronico", fondamentalmente un dispositivo tecnico che proietta un testo su uno schermo, permettendo a chi parla di leggere il copione mentre guarda direttamente l'obiettivo della telecamera o il pubblico dal vivo), bensì stava parlando col cuore... e il cuore, si sa, ha una memoria e una fedeltà tutta sua, che qualche volta sopravvive persino alla storia.

Mi dispiace solo per Papa Leone XIV, non per una mera svista lessicale, ma perché il suo pontificato è iniziato sotto i riflettori di polemiche pubbliche così aspre, che hanno finito per offuscare, agli occhi di molti, la sua persona prima ancora che il suo magistero potesse risuonare.

In quel lapsus involontario, c'è forse anche l'eco di questa difficoltà collettiva a riconoscersi in un successore la cui immagine è stata, fin dal primo giorno, associata a controversie dolorose e complesse per la Chiesa. Il distacco che molti percepiscono nasce forse anche da qui: da una partenza segnata non dalla grazia di un nuovo inizio, ma dal peso di un passato messo pubblicamente sotto accusa.

mercoledì 10 dicembre 2025

Nicola Costanzo: La mia unica griffe!

Sì… come dice quel testo della canzone che ho scritto nei giorni scorsi: c’è chi vive per la fortuna, chi per la fama, chi per il potere o per il gioco, come se la vita fosse un tavolo da poker in cui ogni gesto sia calcolato per vincere qualcosa di visibile, di misurabile, di esponibile.

Già... c'è chi pensa, ad esempio, che la ricchezza del cuore si possa sostituire con oggetti: l’ultimo modello di cellulare, un orologio firmato, un accessorio che urla status prima ancora di essere indossato, simboli esteriori di un successo che non ha mai chiesto permesso a nessuno prima di imporsi.

Stamani, ero seduto con un amico in un bar prendendo un aperitivo, quando all'improvviso, si sono uniti a noi dei suoi conoscenti e così - mio malgrado - mi sono ritrovato a dover ascoltare quei loro dialoghi banali. 

Per me, erano semplici estranei, con cui scambiare al massimo un cenno del capo, presenze dalle quali comprendevo, almeno in quel frangente, una limitata preparazione, quantomeno le loro argomentazioni, basate su esposizioni riduttive e circoscritte.

Uno di essi, faceva pesare l’ultimo modello di telefono appena acquistato, posandolo sul tavolo con la delicatezza di chi espone una reliquia, l’altro, viceversa, quasi per ribattere a quel silenzioso vanto, si aggiustava il proprio piumino bianco firmato, sfiorandone il logo con una punta di dita orgogliosa.

E la cosa più assurda è che ridevano a crepapelle di quel rituale sociale dove "vale di più chi mostra di più" e così, mentre l’aria si faceva pesante di una scialba competizione, fatta di sigle e di marchi, io rimanevo in silenzio ad osservarli, e dentro me non potevo fare a meno di sorridere.

Sì... in quel particolare momento, mi sono ricordato di un gesto che avevo compiuto alcuni giorni fa e cioè: firmare la suola della mia scarpa.

Ovviamente quanto avevo realizzato per scherzo, non rappresenta un’opera d’arte e non deve evidenziare alcuna ricerca di autenticità. Già... si potrebbe definire una "presa per il culo", elegante, silenziosa, eppure ferocemente chiara, dedicata a tutti coloro che nel marchio cercano uno specchio in cui riflettersi. 

Quella firma ha uno scopo: preparare la risposta perfetta per quando qualcuno, con quel tono sospeso tra la curiosità e la valutazione, mi chiederà: "Belle quelle scarpe... di chi sono?”, intendendo naturalmente a quale griffe, a quale stilista, casa di moda, già... a quale divinità commerciale appartengano.

E io, con tutta la calma del mondo, potrò rispondere: “di Nicola Costanzo”! E se lo sguardo (come solitamente accade) dovesse restare vuoto, perplesso, allora... ecco che alzerò semplicemente la suola e mostrerò la mia firma blu, nitida sulla gomma consumata. 

E in quel gesto, che è un ribaltamento, vi è tutto: l’assurdità sublime di aver firmato la parte che calpesta la polvere, la beffa verso chi crede che il valore vada indossato all’esterno, la dichiarazione che io non ho bisogno di elevarmi indossando la firma di un altro.

Perché è questo il punto, no? La maggior parte brilla di luce riflessa, riverberi pallidi di un prestigio preso in prestito. Io, con questa sciocca, meravigliosa firma sulla suola, brillo di luce propria! È una certezza, non una possibilità. 

Una luce che non chiede permesso a nessun marchio, che non si accende per il riflesso di un logo, ma che emana beffardo, il deliberato atto di rivendicare se stessi come unica firma necessaria. È dire, senza bisogno di alzare la voce, che la mia unica griffe accettabile è il mio nome, e che lo metto dove voglio, soprattutto dove nessuno, nella sua ossessione per le apparenze, penserebbe mai di cercarlo. 

E se qualcuno rimane perplesso, se non capisce il contenuto o le motivazioni di questa mia piccola follia, forse è proprio quello il segno che ho centrato il bersaglio!

martedì 9 dicembre 2025

Dal dubbio alla conferma: l'Iron Beam e l'ombra sull'incidente di Raisi.

Come spesso accade quando scavo sotto la superficie delle notizie ufficiali, finisco per rincorrere le ipotesi più scomode e così, stamani, leggendo della piena operatività del sistema laser israeliano "Iron Beam", non ho potuto fare a meno di ripensare ai miei post dello scorso anno, e a quel dubbio che in molti, avevano liquidato come un volo di fantasia.

Si era trattato davvero di un incidente, la caduta dell'elicottero del Presidente Ebrahim Raisi, o qualcosa di più? Allora parlavo di armi capaci di bloccare i sistemi elettrici di un velivolo senza lasciare traccia, di tecnologie segrete che potevano sembrare fantascienza. 

Oggi, quella fantascienza ha un nome, una potenza di 100 kilowatt, e un costo per colpo di pochi dollari. L'Iron Beam è l'incarnazione tangibile di quel "caso ipotetico" su cui avevo costruito le mie riflessioni.

Rileggendo i miei appunti, mi colpisce la fredda corrispondenza tra la mia ipotesi e le caratteristiche di questo sistema. Avevo immaginato un'arma a raggio laser in grado di accecare e bloccare l'intero impianto elettrico di un veicolo in volo, facendolo precipitare senza un Mayday e senza segni convenzionali di esplosivo. L'Iron Beam utilizza un fascio laser ad alta energia per distruggere droni, razzi e mortai in pochi secondi. Il punto cruciale è il suo funzionamento: non esplode un missile, ma concentra energia sul bersaglio fino a danneggiarlo strutturalmente o a neutralizzarne i sistemi.

È difficile non pensare che una tecnologia simile, in una configurazione diversa, possa essere impiegata per mandare in tilt i delicatissimi sistemi avionici di un elicottero e il fatto che una sua versione sia già stata usata in combattimento nell'ottobre 2024 dimostra che non era un progetto in laboratorio, ma uno strumento operativo e collaudato.

Il quadro si fa ancora più significativo considerando il contesto strategico. Israele ha sviluppato l'Iron Beam come risposta specifica ai droni iraniani, una minaccia persistente e difficile da intercettare. In questa corsa agli armamenti, un'arma laser efficace, precisa e a bassissimo costo rappresenta un cambiamento di paradigma. Ma mi chiedo, e chiedo a voi: quando una nazione sviluppa una capacità difensiva così avanzata e mirata, è così inconcepibile che la stessa tecnologia, o una sua variante, possa essere esplorata in scenari diversi? 

Tutto questo getta una luce sinistra su quanto accaduto mesi fa. La sequenza degli eventi si ricompone con una logica spietata. La morte improvvisa di Raisi, l'elicottero precipitato senza segnale, l'assenza di prove di un attacco convenzionale. Poi, le elezioni accelerate e l'ombra del Consiglio dei Guardiani. E ora, a coronamento, l'annuncio trionfante di un'arma laser che sembra uscita dalle pagine del mio primo post.

I media hanno trattato il caso Raisi e la mia ipotesi come due narrative separate. A me, che ho il sospetto di guardare dietro il sipario, viene chiesto di credere a una serie di coincidenze straordinarie. La tecnologia esiste, il movente politico esisteva, l'opportunità forse c'era. Eppure, la versione ufficiale rimane immutata: un tragico incidente.

Forse non sapremo mai la verità sull'incidente di maggio, fintanto che al governo c'è quella classe politica. La storia di queste guerre ombra è scritta su pagine che non ci saranno mai mostrate. Ma ciò che oggi è innegabile, è che le mie "fantasie" di allora erano meno fantasiose di quanto molti pensassero. L'Iron Beam è qui, è reale, e riscrive le regole dell'ingaggio.

La sua stessa esistenza conferma che il dubbio che ho sollevato non era infondato, ma fondato su una comprensione anticipata della direzione della tecnologia militare. Questo non prova nulla riguardo alla morte di Raisi, lo ammetto. Ma dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il mondo in cui un simile evento potrebbe essere stato orchestrato non è il mondo della fantaspionaggio, ma il nostro. 

E questa consapevolezza è il primo passo per non farsi raccontare la realtà solo attraverso il comodo filtro dell'"incidente". La verità è spesso diversa, e talvolta è nascosta in bella vista, nell'annuncio di una nuova, rivoluzionaria, arma da difesa.

lunedì 8 dicembre 2025

Se non ti ho... (If I ain't got you...).

Oggi non ho voglia - come solitamente accade nel mio blog - di parlare di legalità, inchieste giudiziarie, arresti, truffe, raggiri e quant’altro apparso stamani nei quotidiani. No, oggi voglio parlare d’amore, quello vero, quello che resta per sempre e non finisce mai.

Ho ascoltato una canzone poco fa su TikTok, "If I Ain’t Got You" di Alicia Keys, cantata da una ragazza per le strade di New York - https://vm.tiktok.com/ZNRLjneaK/ - una di quelle che ti bloccano, sì… come un semaforo che scatta rosso all’improvviso. 

Le parole del testo, in inglese, mentre scorrevano intonate da una voce bellissima, mi hanno ricordato che esiste qualcosa di più profondo delle denunce, dei verbali, delle promesse non mantenute. Mi hanno fatto sentire, con una chiarezza dolorosa, quanto io sia lontano - anni luce - dalla maggior parte dei miei connazionali, dal loro modo di vivere così banale, per non dire superficiale.

Già… come dice quel testo, c’è chi vive per la fortuna, chi per la fama, chi per il potere o per il gioco, come se la vita fosse un tavolo da poker in cui ogni gesto è calcolato per vincere qualcosa di visibile, di misurabile, di esponibile.

C’è chi pensa che la ricchezza del cuore si possa sostituire con oggetti: l’ultimo modello di cellulare, un orologio firmato, un accessorio che urla status prima ancora di essere indossato, simboli esteriori di un successo che non ha mai chiesto permesso a nessuno prima di imporsi.

Eppure c’è un momento - lo conosciamo tutti, anche se spesso lo nascondiamo - in cui quel rumore si spegne. Ti ritrovi solo davanti allo specchio di una stanza silenziosa, e ti chiedi: quello che ho costruito ha davvero un cuore che batte?

Io ci sono già stato, dice la voce nella canzone. E quante volte l’abbiamo pensato anche noi, guardando fuori dal finestrino di un aereo o di un treno che corre verso chissà dove, mentre le città scorrono come fotogrammi di una storia che non ci appartiene più del tutto?

La vita può essere una noia terribile quando è fatta solo di superficie, quando ogni gesto è una recita, ogni parola un’arma da affilare, ogni incontro un’occasione per calcolarne il vantaggio. E invece basterebbe poco: uno sguardo sincero, un silenzio condiviso, la mano di qualcuno che non ti chiede cosa fai, ma semplicemente come stai.

C’è chi desidera anelli di diamanti, chi fiori a dozzine, chi una fontana che prometta eterna giovinezza,  come se la bellezza potesse stare dentro un contenitore di vetro, e non fosse invece il riflesso di un’anima che si sente riconosciuta.

Ma che ne faremmo del mondo, messo su un piatto d’argento, se non avessimo accanto qualcuno con cui dividerne il peso, la meraviglia, la fragilità? A cosa servirebbe tutta quella luce, se non ci fosse una persona capace di guardarci negli occhi e dirci: sei qui, e questo basta...

Perché alla fine, tutto quello che chiediamo - senza ammetterlo apertamente, per pudore o paura di sembrare ingenui - è di non essere soli nella nostra verità, di non dover fingere di essere invincibili, di poter dire non ce la faccio e trovare una mano tesa, invece di un consiglio già pronto.

E forse è proprio in questo gesto semplice, quotidiano, imperfetto, che l’amore smette di essere una parola da canzone e diventa qualcosa di vivo: una scelta, ripetuta ogni giorno, di restare presenti l’uno per l’altro, anche quando il mondo fuori brucia di fretta e di rabbia.

Alcune persone vogliono tutto. Ma io non voglio niente, se non sei tu.

Non per possesso, non per dipendenza, ma perché con te, persino il silenzio ha un senso e il tempo non è più qualcosa da inseguire, ma da attraversare insieme, passo dopo passo, senza fretta di arrivare.

Se non ti ho con me, non ho niente in questo vasto mondo. Ed è questa - da sempre - la sola cosa di cui ho avuto bisogno.

Testo tradotto di: If I ain't got you...

Se non ti ho... 

Alcune persone vivono per la fortuna,

alcune persone vivono solo per la fama,

alcune persone vivono per il potere, sì,

alcune persone vivono solo per giocare.

Alcune persone pensano

che le cose fisiche

definiscano ciò che è dentro

e io ci sono già stato,

che la vita è una noia,

così piena di superficialità.

Alcune persone vogliono tutto

Ma io non voglio niente

Se non sei tu, tesoro

Se non ti ho, tesoro

Alcune persone vogliono anelli di diamanti,

altre vogliono solo tutto

ma tutto non significa niente.

Se non ti ho, sì.

Alcune persone cercano una fontana

che promette eterna giovinezza.

Alcune persone hanno bisogno di tre dozzine di rose.

E questo è l'unico modo per dimostrare loro che le ami.

Dammi il mondo

su un piatto d'argento

e a cosa servirebbe?

Senza nessuno con cui condividerlo,

senza nessuno che si prenda veramente cura di me?

Alcune persone vogliono tutto

Ma io non voglio niente

Se non sei tu, tesoro

Se non ti ho, tesoro

Alcune persone vogliono anelli di diamanti,

altre vogliono solo tutto

ma tutto non significa niente

se non ho te, te, te

Alcune persone vogliono tutto

Ma io non voglio niente

Se non sei tu, tesoro

Se non ti ho, tesoro

Alcune persone vogliono anelli di diamanti,

altre vogliono solo tutto

ma tutto non significa niente.

Se non ti ho, sì.

Se non ti ho con me, tesoro

Oh, whoo-ooh

Non ho detto niente in questo vasto mondo, non significa niente

Se non ti ho con me...

domenica 7 dicembre 2025

La grammatica del potere.

Buonasera. Mentre ascolto i telegiornali, nazionali e regionali, seguo l'inesorabile scandire delle inchieste e mi fermo a considerare la natura di quel potere che ci governa. Si muove attraverso referenti che si interfacciano con meccanismi illegali e silenziosi, quasi invisibili, eppure così profondamente incisivi per la comunità. La sua pressione è costante, simile a quella di un’infezione che si autoriproduce, giorno dopo giorno, senza bisogno di giustificarsi. E allora la domanda sorge spontanea, persistente: quanti altri anni dovremo attendere prima di ribaltare questo stato di fatto?

È proprio questa l’impressione che mi rimane, ascoltando ogni giorno le parole di quei giornalisti che ormai ripetono quelle notizie come se appartenessero alla normalità, come il bollettino meteorologico. E si osservino, quelle “cicale” intervistate, che offendono con la loro presenza le stesse istituzioni che dovrebbero rappresentare. Basta guardare i loro occhi nello schermo per comprendere quanto poco siano limpidi, quanta opacità vi sia nei loro sguardi.

Il dato più assurdo è che i miei connazionali sanno perfettamente che non si tratta di episodi isolati, non sono più responsabilità individuali da isolare e condannare. Quello che avviene da ormai troppo tempo è una pratica consolidata, una sorta di grammatica condivisa del comando. In questo lessico, la corruzione non è più un’anomalia, bensì il modo stesso in cui si parla, si decide, si progetta.

Non provano alcuna vergogna nel commettere certi reati alla luce del sole, o nel celarsi dietro appuntamenti furtivi in luoghi dove si sa non esserci telecamere. Oggi basta sedersi in un bar, mentre si prende un caffè, durante una telefonata amichevole. È in questi momenti, apparentemente innocui, che si decide quella cosiddetta consulenza “tecnicamente necessaria”, quell’incarico che arriva dopo anni di fedeltà silenziosa.

È una corruzione che non ha paura, anzi si espone affinché tutti vedano e, in un certo senso, “comprendano” come stanno le cose. Del resto, questi soggetti sanno bene di poter fare affidamento su chi li sta osservando. Perché anch’essi, compromessi da quel sistema clientelare, sono gli stessi individui che proteggono quella struttura. Non solo con complicità tacite, ma attraverso un’intera architettura di relazioni, di debiti, di promesse non dette ma perfettamente comprese.

Parlo di una corruzione che non imbarazza più nessuno, perché ormai fa parte del contesto. Come il rumore di fondo in un bar, come una porta chiusa in un ufficio pubblico. Sì, come il silenzio dei cittadini che hanno imparato, con il tempo, a non chiedere spiegazioni e soprattutto a non fare domande.

Eppure, tutti sanno cosa vi sta dietro. Vivono ogni giorno quanto avviene nel proprio ambito professionale, sono perfettamente consapevoli del comportamento disonesto che viene messo in campo. Dal più umile lavoratore qualificato al più alto dirigente che si presta a concedere proroghe insensate, dietro una gara fatta su misura, dietro ogni nomina che appare più legata a un ringraziamento che a una competenza.

In tutto ciò che avviene intorno a noi, c’è sempre qualcosa di più grave del semplice malaffare. C’è la costruzione, pezzo dopo pezzo, di un sistema in cui non si vince per merito, ma per appartenenza. Non si cresce per capacità, ma per obbedienza. Non si leggono più i curriculum, e ancor meno si chiede “cosa sai fare”. Perché tutto gira intorno alla persona che ha fissato quel colloquio, la stessa a cui successivamente – a seconda da quale parte della scrivania ci si trova – si dovrà dare, o ricevere, qualcosa.

E così gli anni passano. Senza colpo ferire, si smantella ogni idea di futuro collettivo, di equità sociale, di contrasto all’illegalità. Il tutto viene sostituito da una gestione sterile del presente, in cui il potere non costruisce, non innova, non investe. Semplicemente, come un cancro, si riproduce. Anno dopo anno, progetto dopo progetto, genera dipendenza anziché opportunità, conformismo anziché partecipazione.

Allora mi chiedo: cosa resta a chi, come me, non vuole piegarsi? A chi ancora prova a guardare la propria terra con occhi non rassegnati? Forse nulla. Sì, serve a poco nominare le cose con il loro nome: una corruzione sistemica, diffusa, quotidiana. Resta, è vero, la possibilità di chiedere giustizia, non solo nei tribunali ma anche nelle piazze. Sempre più esigue e con una partecipazione che di solito non nasce dal desiderio di far sentire una voce per il bene comune, ma per un tornaconto esclusivamente personale. Sì... per quell’orticello che minaccia scioperi in cambio di un aumento, di una riforma fiscale, e appena, da quei governi, si ha la certezza di aver ottenuto quanto richiesto, ecco che, prese le briciole, si torna felicemente a casa.

Per fortuna, qualcosa di quella protesta autentica resta. Non nelle parole riportate dalle testate dei giornali o in certe pagine web, solitamente nelle mani di imprenditori fortemente collusi con il sistema, ma nei blog, nei commenti, nelle email che ancora, per fortuna, vengono scambiate tra cittadini liberi e moralmente onesti. Certamente stanchi, ma non ancora rassegnati.

Sì, a noi esigui paladini resta la possibilità di ricordare a tutti quei ragazzi – non ancora infettati dal sistema e, ahimè, a volte dai propri familiari – che la legalità non è un optional morale, ma il fondamento stesso della dignità umana e di una comunità che vuole restare tale. Senza di essa, tutto il resto serve solo da decoro superficiale. Quanto a me, se proprio devo mostrarmi, preferirei esser ricordato come chi ha combattuto per la giustizia sociale, piuttosto che come uno spettatore compiacente.

Perché, in fondo, non è la presenza della corruzione a fare più paura, quella, sapete bene, in forme diverse c’è sempre stata. È la sua normalizzazione a essere spaventosa. Quell’assenza di indignazione, di domande, di quella sana e irriducibile insofferenza che dovrebbe animare chiunque abbia a cuore la vita comune.

Ecco perché continuo a scrivere. Non per ricevere contributi finanziari, né per obbligare il lettore a piegarsi a logiche promozionali. Ancora meno mi serve stimolare clamore o accumulare notorietà. Non sarà mai il numero dei follower a far accrescere la mia, già personale, autostima. Continuo a scrivere per denunciare, per segnalare, per far svergognare qualcuno, o più di uno. Non perché sia certo di riuscire a cambiare questo stato di fatto. Ma perché, finché qualcuno lo fa, qualcosa, da qualche parte, non è ancora morto del tutto.

sabato 6 dicembre 2025

La vita è fugace, ma il tuo ricordo resterà tenace!

A volte mi capita di discutere su quel confine sottile, quasi impercettibile, che separa la presenza dall’assenza. 

Sono per natura troppo razionale per prestare fede a tutte quelle storielle che ci hanno raccontato sin da piccoli, ancor meno a quelle instillate dalla nostra Chiesa e dai suoi dogmi. Una mente razionale dovrebbe saper riconoscere un qualsivoglia costrutto, per quanto antico o rivestito di autorità.

Ho sempre pensato che gli unici fantasmi degni di fiducia siano i ricordi, siano essi vividi o sbiaditi, fedeli o abbelliti dal tempo. Tutto il resto, tutto ciò che viene descritto come ombre parlanti nelle notti insonni, resurrezioni, apparizioni, voci provenienti da un immaginario altrove, presenze sacre o anche demoniache, non sono altro che il prodotto della mente... sì, una mente capace di meraviglie, ma anche di incubi, per un motivo semplice e profondo: l’incapacità di accettare il vuoto!

Quando una persona se ne va, il mondo sembra fermarsi per un istante, per poi riprendere il suo corso, indifferente. Dentro di noi, invece, qualcosa si incrina e si ribella a quella legge naturale, a quella fine che si presenta con una definitività così assoluta. Ed è allora che vediamo persone cercare un dialogo con chi non c’è più, e credo lo facciano con la più pura e struggente sincerità. Non c’è inganno in quel desiderio, solo un amore che rifiuta radicalmente il concetto stesso di addio.

Ma se ascoltassero con attenzione, la voce che risponde è sempre la loro. Se qualcosa sembra materializzarsi nell’aria, è il loro cuore a scolpirne la forma, con la precisione struggente di un artista che ritrae un volto amato per l’ultima volta. Già... è la mente, accecata dalla mancanza, a plasmare un’immagine così potente da sembrare tangibile. Il dolore, si sa, possiede una forza creativa immensa. 

Può costruire mondi paralleli in cui l’incontro è ancora possibile, può far vibrare l’aria di una presenza, trasformare un sospiro del vento in una voce familiare, un soffio in una parola riconoscibile. Sopportare la definitività di una partenza è a volte un compito troppo grande per l’anima umana. 

Ed è allora che essa, pur di non rimanere per sempre esiliata, costruisce un ponte, anche se illusorio. In questo senso, chi se ne è andato non scompare mai del tutto, continua a esistere, non in un aldilà nebuloso, ma nello spazio sterminato e intimo di chi lo ricorda. 

La mente di una sola persona, quando è animata dalla memoria, diventa un universo più vasto di quello che contiene le stelle. Può custodire voci, risate, sguardi, può rivivere interi pomeriggi dimenticati dal tempo oggettivo, in quello spazio, non valgono le leggi della fisica, ma solo le leggi dell’amore.

Ed è qui, credo, che si cela il messaggio più importante. La vita ci presenta sempre il suo conto ineluttabile, che si chiama fine. Razionalmente, sappiamo che dopo non resta nulla di ciò che siamo o possediamo, eppure, continuiamo a costruire ricordi, a lottare perché un nome non venga dimenticato, a credere che un legame possa sopravvivere alla morte della carne. 

Volete sapere perché? Perché alla fine, ciò che continua a esistere non è un fatto, ma un atto di fede. È la nostra personale, irriducibile motivazione a scegliere che qualcosa, o qualcuno, non debba finire.

Accettiamo la fine con la ragione, ma la ribelliamo con il cuore. Sappiamo bene che probabilmente non c'è nulla dopo l'ultimo respiro, eppure ci aggrappiamo con tutte le nostre forze all’idea che ci sia qualcosa dopo l'ultimo abbraccio. Quel qualcosa è il ricordo, tenace, testardo, che si rifiuta di dissolversi. 

È la nostra unica, personale vittoria, fragile e profondamente umana, contro la fugacità del tutto.

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