Non vi è in me alcuna sorpresa, non c’è più neppure sdegno, semmai una stanchezza antica, quella che si accumula quando si assiste, anno dopo anno, allo stesso spettacolo ripetuto con attori diversi ma con lo stesso copione, recitato con la stessa convinzione che tutto possa continuare così, senza troppi scossoni per chi sta in alto e senza alcuna giustizia per chi sta in basso.
La corruzione qui non è un incidente di percorso, non è un’anomalia da correggere con un colpo di spugna e un cambio di guardia: è un modo di stare al mondo, un linguaggio che si impara presto, una grammatica fatta di sottintesi, di strette di mano che valgono più di un bando di gara, di silenzi che pesano più di un verbale.
Si entra in un ufficio e si capisce subito chi decide davvero: non sempre è chi siede alla scrivania con la targhetta col nome, a volte è chi entra senza bussare, chi parla a bassa voce, chi non lascia traccia scritta ma fa in modo che tutto avvenga esattamente come deve o come deve accadere, sì... affinché certe ruote continuino a girare senza cigolare troppo forte.
Le indagini si susseguono, si arrestano persone, si sequestrano buste - cartacee o digitali che siano - ma il sistema resiste, si adatta, si mimetizza. I contanti trovati in una cassaforte, pur logori e inutilizzabili, non sono solo denaro fuori corso: sono simboli di una mentalità che non è invecchiata con loro, anzi, si è rinnovata, si è fatta più sottile, più difficile da inquadrare come reato.
Oggi non serve più una valigetta: basta una consulenza, un invito a un convegno, un posto in un ente, una raccomandazione mascherata da “valutazione discrezionale”. E tutto questo si consuma nell’indifferenza generale, perché il danno non è visibile come un ponte crollato o una strada interrotta: è nell’ospedale dove non si assumono infermieri perché i posti sono già riservati, è nella scuola dove il concorso è una farsa, è nel cantiere che parte sempre troppo tardi e finisce sempre troppo male.
C’è un senso di inesorabilità, in tutto questo, come se fossimo tutti, in qualche modo, attori secondari in una commedia che non abbiamo scritto ma alla quale siamo costretti a partecipare - chi tacendo, chi fingendo di non vedere, chi sperando che, un giorno, qualcosa cambi davvero.
Ma quel giorno tarda ad arrivare. Le promesse si consumano in fretta, le commissioni antimafia producono relazioni impeccabili che poi si impolverano sugli scaffali, i cittadini si indignano per una settimana e poi tornano a pensare ad altro, perché la vita va avanti, e la sopravvivenza quotidiana non concede troppo spazio alla ribellione. Intanto, però, qualcuno continua a raccogliere, a segnalare, a documentare, magari con un click sul portale di un blog come il mio, a volte inviando al suo scrittore una mail anonima, magari semplicemente ricordando che non tutto ciò che è silenzioso è innocuo.
E allora forse, in questa stanchezza collettiva, l’unica cosa che resta è non smettere di raccontare - non per indignare ancora, ma per testimoniare che qualcuno, almeno, non ha smesso di guardare. Quindi... non per accusare singole persone, non servirebbe a nulla (e già sappiamo come vanno a finire certe storie...), ma per mostrare il meccanismo, il modo in cui si inserisce il primo ingranaggio, restando così per sempre compromessi e complici: una nomina, un appalto, una consulenza, una raccomandazione, un posto di lavoro, e via discorrendo...
Perché finché qualcuno continuerà a dire questo non è normale, allora forse non sarà ancora tutto perduto. Perché proprio da lì, da quel piccolo rifiuto, che potrà ricominciare qualcosa di diverso, non domani, non con un colpo di bacchetta magica, ma con la pazienza di chi sa che ogni sistema, per quanto radicato, ha un punto di rottura.
Basta non smettere di cercarlo!










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