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domenica 28 dicembre 2025

L'anno nuovo sta per giungere, ma vedrete, nessun contrasto evidente alla criminalità organizzata, porterà ad un reale cambiamento...

L'anno nuovo sta per giungere, ma vedrete, nessun contrasto evidente alla criminalità organizzata, porterà ad un reale cambiamento.

E lo dico con amarezza, non per rassegnazione. Perché il vero paradosso di questi tempi è che più la minaccia si fa invisibile, più diventa pericolosa e più diventa difficile riconoscerla e combatterla.

Già... la mafia, quella che contava i suoi colpi a suon di lupara e bombe, è un'immagine del passato. Oggi ha cambiato modi, indossa un abito elegante, ha imparato a parlare il linguaggio dei conti in banca e delle riunioni che contano, ma soprattutto ha capito che il potere vero non si grida, si acquista in silenzio.

Possiamo usare come eufemismo che si è fatta "manageriale" e questa definizione, ahimè, rischia di renderla quasi ammissibile, quando invece è solo diventata più subdola. Il suo obiettivo non è più il controllo della strada con la violenza, ma il controllo dell'economia con il consenso.

Come fa? Semplice: si insinua, investe, corrompe, paga. Prendete ad esempio un'impresa in difficoltà.. ecco che allora, grazie ai suoi corrotti informatori, si presenta, offre liquidità, sì, a differenza delle banche che le rifiutano un prestito, e diventa a poco a poco un socio silenzioso e apparentemente provvidenziale.

Oppure ecco che quell'affiliato, autorizzato dall'alto, crea dal nulla una rete di società, una serie di scatole cinesi dove il denaro sporco del racket e della droga perde ogni traccia e riemerge pulito, pronto per essere investito in un resort, in un hotel, in un ristorante, in un'agenzia di viaggi, ma anche in un'opera pubblica.

È qui, in questo scambio, che nasce la sua forza attuale. Diventa fornitore di lavoro, eroga favori, porta voti ai suoi amici politici, si presenta come parte integrante e necessaria del tessuto produttivo. Certo, la violenza c'è, ma resta l'ultima ratio, custodita ed espressa solo per chi non accetta le regole di questo gioco perverso.

E allora, mi chiedo: quale contrasto "evidente" possiamo aspettarci? Sono certo di poter affermare: nessuno. Vedrete, non ci sarà alcuna guerra in campo aperto, nessuna retata spettacolare contro un nemico che sappiamo non avere un volto unico.

Si proverà a vincere qualche battaglia, combattuta da alcuni isolati reparti dello Stato su un campo diverso, certamente meno glorioso ma più faticoso. Parlo della lotta contro il riciclaggio, la corruzione amministrativa, l'infiltrazione negli appalti, l'usura che strozza i piccoli imprenditori.

Sono azioni di intelligence finanziaria, controlli incrociati, sequestri di beni che sembrano legittimi. Ed ancora faccio riferimento allo scioglimento dei consigli comunali per condizionamento mafioso, che dimostrano come il veleno abbia raggiunto il cuore delle istituzioni democratiche senza bisogno di sparare un solo colpo.

È una guerra di logoramento, senza un nemico in uniforme da affrontare in campo aperto. E forse è proprio questo il punto che fa desistere lo sguardo collettivo: la mancanza di un evento eclatante, di un "mostro" da abbattere, illude che il pericolo sia diminuito.

Invece, si è solo trasformato. Ha capito che per sopravvivere deve far sopravvivere, deve diventare sistema. E un sistema è molto più difficile da scardinare di una banda armata.

Quell'anno nuovo che arriva troverà dunque questa organizzazione criminale ancora salda, non perché lo Stato sia inerme, ma perché il fronte su cui combattere è diventato vasto quanto l'economia stessa e si confonde con essa.

Il cambiamento reale quindi non arriverà come la propaganda che ci viene quotidianamente raccontata, ma forse verrà un tempo, quando tutto è ormai andato perso, in cui la collettività inizierà a prendere coscienza.

Bisogna iniziare a comprendere che il mafioso oggi non è più quel pecoraio sceso dalle montagne, bensì potrebbe essere il vostro fornitore, il vostro creditore, anche il vostro concorrente. E che la resistenza inizia rifiutando quel compromesso, quella piccola illegalità conveniente, quel silenzio comprato.

Inizia ricordandovi chi siete e dove volete stare, ricordando che il consenso è l'arma più potente, e che toglierglielo è l'unico contrasto che, alla lunga, può davvero segnare un reale cambiamento.

Il resto sono soltanto chiacchiere...


sabato 27 dicembre 2025

Aiuti umanitari o finanziamenti al terrore? Il labirinto dei soldi per Gaza.

L’operazione condotta stamani a Genova, che ha portato all’arresto di nove persone con l’accusa di finanziare Hamas, non è soltanto un fatto di cronaca giudiziaria, ma uno spartiacque che ci costringe a guardare oltre la superficie, dentro un meccanismo più vasto e inquietante, dove ciò che appare come sostegno umanitario finisce per alimentare la macchina del terrore.

L’indagine ha ricostruito con cura come, dietro le facciate di associazioni benefiche, una parte consistente dei fondi raccolti a nome dei civili di Gaza venisse dirottata verso le casse del gruppo, seguendo flussi di denaro articolati su scala internazionale. È l’immagine di un’organizzazione che non sopravvive per caso, ma grazie a un’architettura finanziaria globale, sapientemente dissimulata dietro la sacralità del soccorso a un popolo in sofferenza, e proprio per questo difficile da smascherare.

Questa realtà obbliga a riconsiderare le dinamiche profonde che tengono in vita il conflitto. Quando sento parlare di disarmo di Hamas, come previsto da alcuni piani di pace, la mia prima reazione non è di speranza, ma di scetticismo, perché mi chiedo: perché mai un gruppo che ha costruito il proprio potere sulla forza militare dovrebbe rinunciarvi di propria iniziativa?

Le sue milizie, nonostante due anni di guerra intensa, rimangono numerose e ben strutturate, e i suoi leader, pur colpiti in più occasioni dai servizi segreti israeliani, continuano a operare, spesso al sicuro fuori da Gaza, protetti da confini e giurisdizioni compiacenti. Per loro, la lotta armata non è uno strumento contingente, ma un diritto inalienabile, un pilastro identitario e strategico inscindibile da un più ampio progetto politico, ovvero la creazione di uno stato palestinese, un obiettivo ancora ostacolato, con tenacia, da molte potenze regionali e internazionali.

È qui che emerge il cuore della questione, non ideologico ma geopolitico. La resilienza di Hamas non si spiega soltanto con la fede o il rancore, ma con una rete fitta di sostegni esterni, dove paesi che si presentano pubblicamente come mediatori di pace hanno storicamente finanziato e ospitato i suoi vertici, vedendo in esso non un nemico da neutralizzare, ma uno strumento per proiettare influenza, destabilizzare avversari, o semplicemente mantenere aperto un fronte utile ai propri equilibri di potere.

Questi attori, mossi da un’opposizione strategica a Israele o dalla necessità di bilanciare le forze nella regione, garantiscono a Hamas una linfa vitale che va ben oltre le donazioni raccolte sotto falsi pretesti umanitari. La lotta armata diventa così un’attività strutturata, sostenuta da capitali, protezione diplomatica e alleanze informali, e ogni tentativo di disarmo si arena in un labirinto di veti incrociati, doppi giochi e obiettivi celati.

Ne deriva un’impasse non casuale, ma calcolata. Da un lato si evocano forze internazionali di stabilizzazione o governi tecnici, ma questi progetti si infrangono sulle reciproche diffidenze e su condizioni che nessuna parte è disposta a soddisfare. Chi dovrebbe garantire la sicurezza rifiuta di collaborare con chi detiene influenza reale sul campo, e chi dovrebbe sostituire le armi con istituzioni credibili è considerato troppo debole o inaffidabile per assumersi il compito.

E nel mezzo, c’è sempre Gaza. Una popolazione usata due volte: prima come copertura emotiva per raccogliere fondi che poi alimentano il terrore, poi come pedina in una partita più grande, dove il suo vero interesse, il suo bisogno di pace, di ricostruzione, di dignità, viene costantemente sacrificato sull’altare di calcoli finanziari e disegni di potere che non le appartengono.

Per questo ritengo che l’operazione di Genova non sia un caso isolato, ma un campanello d’allarme chiaro, un sintomo visibile di come la perpetuazione del conflitto non sia una semplice tragedia, ma una scelta funzionale a molti, mentre il prezzo, sempre lo stesso, continua a essere pagato da pochi.

La cosa più assurda, forse, è che in molti, anche nel nostro governo, hanno avuto il coraggio di celebrare la fine di un conflitto che non è mai finito, visto che proprio in queste ore l’artiglieria israeliana sta bombardando il sud del Libano e gran parte della Striscia di Gaza.

venerdì 26 dicembre 2025

Presidente Schifani, perché rendere difficile pagare le tasse? Due racconti di siciliani in ostaggio tra sistemi che cadono e POS "misteriosamente" spenti!

Buongiorno, stamani voglio affrontare con voi un tema particolarmente delicato, a cui molti miei lettori mi hanno chiesto di scrivere.

Si tratta di quel groviglio inestricabile, e a volte sospetto, che sembra avvolgere i pagamenti verso i servizi pubblici. Ho avuto prova diretta della cosa, provando attraverso alcuni siti web istituzionali ad aiutare amici imprenditori, senza mai riuscirci. E non certo per incapacità informatica, visto che maneggio qualsivoglia piattaforma operativa ancor prima che molti di questi enti conoscessero la parola “computer”.

Posso garantirvi che attraverso quei portali, per ragioni poco chiare o quantomeno opache, è impossibile concludere l’operazione. Quando basterebbe una semplice nota con un QR code, o ancor più semplice, comunicare un Iban. Invece no, si costruiscono labirinti digitali. L’esempio più eclatante sono i pagamenti sui portali regionali, come quello della Sicilia, che devono avvenire principalmente tramite PagoPA. Una piattaforma che dovrebbe facilitare tutto, e invece non consente alternative fisiche, non invia avvisi con QR, costringendo a un vicolo cieco digitale.

Ogni Regione, la Sicilia in testa, offre l’accesso con SPID o CIE. Esegui tutta la trafila, inserisci i dati, arrivi fino all’ultimo passo. E poi il sistema si blocca. Parliamo di somme rilevanti, migliaia di euro, che rappresentano entrate importanti per la collettività. Eppure, sembra quasi che si preferisca non incassarle, nei modi più semplici. L’imprenditore viene costretto a rinviare, a restare inadempiente senza sua colpa. Mi sono chiesto, allora, se ci sia un disegno.

So che, se non si procede nei termini, questi crediti vengono spesso girati, per non dire "venduti", a società terze di recupero. Non è che si vuole favorire proprio questo passaggio, questa “ambigua” metodologia che trasforma un diritto-dovere in un problema per il cittadino e in un affare per altri? La domanda sorge spontanea, e amara.

Al sottoscritto, del resto, una circostanza analoga capita da anni con il cimitero di Catania. Ho chiesto da tempo di ricevere presso la mia residenza il bollettino postale per il pagamento della luce perpetua dei miei cari, cosa che non mi è mai pervenuta. Così ogni qual volta sono costretto a recarmi presso i loro uffici e lì, ahimé, l’analogia si fa perfetta: il pagamento deve essere effettuato in contanti in quanto il loro POS non funziona (mai), per problemi di rete. Eppure, ricordo quando, per lavoro, mi trovavo in un angolo remoto d’Africa e riuscivo a connettermi senza intoppi...

Qui, al centro di Catania, il collegamento fallisce sistematicamente. Forse la ragione va ricercata altrove, e chi mi legge da tempo sa certamente a cosa mi riferisco. Se qualcuno, dall’alto, non vuole credermi sulla parola, basterebbe andare a verificare. Chi meglio del Comando della Guardia di Finanza potrebbe farlo? Basterebbe volerlo, e ci si accorgerebbe come, in questi ultimi dieci anni, i pagamenti in presenza siano stati (sicuramente per il 99%) compiuti in contanti.

Ma questa, come direte voi, è un’altra storia. Ritorniamo alla prima. Presidente Schifani, cosa ci vuole ad essere, in questa terra, finalmente trasparenti? Perché non pubblicare un semplice Iban per permettere alle imprese di adempiere senza ansia? Allego tra l'altro alcune foto (possiedo tra l'altro parecchi video ripetuti effettuati durante le operazioni di pagamento...) che sono la testimonianza muta di questo cortocircuito: il sistema bloccato, la prova ripetuta invano, non una, ma centinaia di volte...

È l'immagine di un intoppo che sembra casuale, ma che, per la sua sistematicità, assume il sapore di una precisa scelta. Una scelta che svantaggia il cittadino, penalizza l’imprenditore e opacizza il rapporto con la pubblica amministrazione. A tutto vantaggio di chissà chi, e a danno della fiducia di tutti noi (quantomeno per quelli che non vivono con la speranza di ricevere per se o per i propri cari da quel sistema corrotto politico/clientelare), che ormai da troppo tempo, evidenziamo di non credere più nelle istituzioni e in particolare in molti suoi referenti!

giovedì 25 dicembre 2025

Voci diverse, per una stessa festa...

Pax vobis in hac nocte sacra, et lumen Christi fulgeat in cordibus vestris(Tradizione Cattolica): Pace a voi in questa notte sacra, e la luce di Cristo brilli nei vostri cuori. 

Eirḗnē hymîn en têi hagíai nyktí, kaì tò phôs toû Christoû phaínetai en taîs kardíais hymôn –  (tradizione Ortodossa): Pace a voi nella notte santa, e la luce di Cristo risplenda nei vostri cuori.

Friede sei mit euch in dieser heiligen Nacht, und das Licht Christi leuchte in euren Herzen – (Tradizione Protestante): Pace sia con voi in questa notte santa, e la luce di Cristo risplenda nei vostri cuori.

Tre frasi. Tre lingue. Tre tradizioni che custodiscono lo stesso senso, pur pronunciandolo con suoni diversi, gesti diversi, calendari che talvolta si sfasano di giorni, di settimane. 

Non è un caso che in ognuna risuoni la parola “pace” – non come assenza di rumore, ma come silenzio scelto, come gesto di chi decide di fermarsi, abbassare la voce, deporre il giudizio. Pace come riconoscimento: nell’altro non un errore da correggere, ma un cammino da ascoltare.

Eppure proprio in questa festa, che racconta di un Dio che si fa fragile per abitare la nostra fragilità, continuiamo a innalzare muri alti quanto le nostre cattedrali. Ci dividiamo sulla formula giusta, sulla data esatta, sulla liturgia più autentica, come se la verità fosse un codice da decifrare invece che una luce da condividere. Come se bastasse parlare la stessa lingua per capirsi davvero.

Dimentichiamo che quelle stesse parole latine, greche, tedesche furono tradotte non per uniformare, ma per avvicinare. Perché la fede non è un deposito da sorvegliare, ma una fiamma da passare di mano in mano – senza pretendere che bruci allo stesso modo in ogni cuore.

Il Natale, nella sua essenza religiosa, è profondamente cristiana. Ma la sua eco ha scavalcato i recinti dei templi. Si è fatta canto di piazza, abete addobbato in un condominio laico, scatola regalo lasciata sulla scrivania di un collega che prega rivolto alla Mecca, luci accese su una vetrina a Pechino dove nessuno sa chi sia quel bambino nella mangiatoia, ma tutti sentono, in qualche modo, che quella notte chiede un passo indietro dal rumore del mondo.

Non è annacquamento. È la prova che certe domande, come su cosa significhi nascere, su cosa valga proteggere una vita piccola, su come tenere acceso il calore quando fuori fa buio e freddo, non appartengono ad una sola tradizione, ma attraversano l'intera umanità.

Eppure, finché resteremo convinti che l’altro debba diventare come noi per meritare rispetto, quella luce resterà confinata in una nicchia, spenta dal vento della banale superiorità.

Perché la pace non nasce dall’uniformità, ma dal coraggio di stare insieme pur essendo diversi – senza fingere che le differenze non esistano, ma scegliendo di non farne un’arma.

Finché divideremo il mondo in ortodossi ed eretici, in fedeli e indifferenti, in chi ha capito e chi ancora sbaglia, non celebreremo mai davvero il Natale. Ne consumeremo solo la superficie, come una decorazione da appendere e poi – come accade puntualmente a gennaio – rimuovere.

Ecco... forse la domanda più importante di questa notte e di questo mattino non è chi ha ragione, ma chi siamo disposti a lasciare fuori dalla stalla.

Perché là dentro – come accade ahimè ancora oggi – c’è freddo, fame, disperazione. Eppure, un nuovo respiro cancella per un istante tutta quella sofferenza. Lì... non c’è posto per strategie, armi, politica, ma solo il desiderio di poter andare avanti, di lasciarsi quell’orribile mondo che li circonda alle spalle.

Buon Natale, allora, a tutti – a chi lo vive con fede, a chi con memoria, a chi con affetto, e a chi come me, lo attraversa con dubbio, ma non con indifferenza. Perché il dubbio, se è onesto, non allontana: chiede solo di camminare più lentamente, per non lasciare indietro nessuno. 

E quel coraggio – piccolo, quotidiano, spesso inascoltato – di voler restare insieme, pur senza accordi preventivi, pur senza identità sovrapposte, è forse il gesto più vicino allo spirito di quella notte: non chiudere la porta, non pretendere che l’altro impari la nostra lingua, ma sedersi accanto, in silenzio, e provare a inventare una nuova parola, breve, antica, ma oggi più che mai necessaria: Noi.

mercoledì 24 dicembre 2025

"La guerra è finita": il paradosso del Cardinale Pizzaballa in un conflitto che continua.

Già il 17 novembre scorso mi interrogavo, e vi interrogavo, su una sensazione inquieta. Parlando dell’appello del cardinale Pizzaballa e del Custode di Terra Santa per riportare i pellegrini in Terrasanta, mi chiedevo se non fossimo di fronte, più che a un desiderio puramente spirituale, alla pressante necessità di rianimare un business miliardario.

Scrivevo che forse, a Gesù, poco importa di code davanti a un presunto luogo sacro. Ciò che conta è che il suo messaggio circoli nei cuori, ovunque essi siano. Quel dubbio, quel fastidio per una fede trasformata in "commodity", non mi ha mai abbandonato.

Oggi quel sospetto ritorna, acuito, e si trasforma in uno sconcertante senso di frattura. Perché leggo quanto il cardinale, di ritorno da Gaza, ha dichiarato: “La guerra è finita, ma Gaza resta un simbolo del conflitto e della tentazione di fuggire”. Descrive che non c’è più la guerra, ma restano povertà, tende allagate e bambini senza scuola. Sostiene che gli aiuti entrano, soprattutto quelli commerciali, anche se Gaza resta simbolo del conflitto e della fatica di restare. Pur riconoscendo le enormi difficoltà, la sua affermazione cardinale resta dunque quella: la guerra è finita. Una riflessione alta, pacata, che invita a una testimonianza di presenza.

Poi, quasi nello stesso respiro, apro i notiziari. Raid aerei israeliani su Gaza City e Rafah nella notte. Attacchi con droni nel sud del Libano, miliziani uccisi. Il ministro della Difesa israeliano parla di istituire avamposti militari nel nord di Gaza. Persino Vatican News, organo di Santa Sede, titola senza mezzi termini: “Israele, nuovi raid dell’aviazione su Gaza e Rafah”. Notizie di ieri, di oggi, in un flusso continuo che parla non di pace, ma di un conflitto che si ramifica, si intensifica, muta forma ma non sostanza.

E allora, cosa resta da pensare? Mi ritrovo spaesato, come se vivessi in due dimensioni parallele che rifiutano di incontrarsi. Da un lato, la narrazione pastorale di una guerra conclusa, che invita a guardare oltre il dolore, a ricostruire, a restare. Dall’altro, la cronaca spietata di esplosioni, dichiarazioni di belligeranza, e una tensione internazionale che non accenna a placarsi. Due verità inconciliabili occupano lo stesso spazio, e una di esse sembra vivere in una sorta di bulbo protetto, isolato dal frastuono dei motori dei caccia e dal boato degli obici.

Mi chiedo, con amarezza, se non ci troviamo di fronte all’ultima, sofisticata evoluzione di quel “business del culto” di cui parlavamo a novembre. Forse, in questa fase, il prodotto da vendere non è più solo il pellegrinaggio sicuro, ma addirittura la narrazione di un conflitto terminato. Una narrazione necessaria per far ripartire i flussi, per rassicurare, per costruire un’immagine di normalità che è funzionale a tanti, tranne che a chi sotto quelle bombe ci vive ancora. È una spiritualità che rischia di diventare una forma di negazione, un rifugio in un contesto simbolico così elevato da perdere ogni contatto con la terra bruciata della realtà.

Il cardinale insiste: “Dio non cancella la notte, ma la illumina”. È un’immagine potente. Ma quando la notte è solcata dalle traccianti e illuminata a giorno dalle esplosioni, quella luce divina rischia di essere oscurata, o peggio, di essere strumentalizzata per far vedere qualcosa che, semplicemente, non c’è. La testimonianza di fede è un atto eroico, soprattutto in quelle terre martoriate. Ma perché non si accompagna, oggi, a un grido altrettanto forte che denunci l’abisso tra le parole di pace pronunciate in una sala e le guerre che continuano fuori dalla finestra?

Forse è questa la tentazione più grande: non quella di fuggire materialmente, ma di fuggire nella narrazione. Di costruire un recinto sacro di parole rassicuranti mentre fuori infuria la tempesta. Il vero coraggio, forse, non sarebbe solo quello di “restare”, ma di restare guardando in faccia tutta la contraddizione, chiamandola per nome, senza edulcorarla in un messaggio di pacificazione prematura. Perché se il business ha bisogno di normalità, la profezia ha il dovere di gridare l’anormalità, anche quando è scomoda, anche quando disturba il ritorno ai giri d’affari.

Quel grido, oggi, mi sembra dolorosamente assente. E in questo silenzio, rischia di perdersi non solo la credibilità di una parola, ma il significato stesso di una presenza.


martedì 23 dicembre 2025

Dal Governo: Stop alla mafia in TV". Ma il rischio è cancellarla dall'agenda reale, non dallo schermo!

Ok… va bene, parliamo di questa idea: far sparire la mafia dai film, dalle serie, dalle storie che girano intorno a noi. 

Lo so, lo so bene, non si tratta di cancellarla del tutto, quanto piuttosto di toglierle quel velo di fascino che, per troppi anni, le è stato cucito addosso da una narrazione troppo spettacolare, troppo compiaciuta, quasi ammirata. 

L’intento è condivisibile, anzi necessario: non vogliamo che i nostri ragazzi guardino a quegli uomini come a modelli, non vogliamo che l’oscurità venga scambiata per forza, l’arroganza per coraggio, la violenza per potere. Il punto, però, non è nascondere la realtà, ma raccontarla senza orpelli, senza mitizzarla. 

Perché la mafia non è un’invenzione da sceneggiatura, è un fatto, un tessuto che ha attraversato e ancora attraversa vite, quartieri, intere regioni, e persino le stanze del potere; nasconderla sarebbe non solo inutile, sarebbe ipocrita: una sorta di patto tacito con l’ignoranza, un modo per non guardare in faccia la verità.

Serve invece una rappresentazione più onesta, più cruda, che non risparmi i dettagli scomodi: quegli uomini, nella maggior parte dei casi, non sono eroi, menti raffinate, ma neppure architetti del male, sono spesso individui ignoranti, culturalmente vuoti, cresciuti in contesti senza affetto né regole, dove l’unica lingua parlata è quella del dominio e del sospetto.

Peraltro, la ricchezza accumulata non è libertà, è una gabbia dorata che non possono nemmeno aprire: non viaggiano, non frequentano, non godono, vivono sempre in allerta, con lo sguardo fisso alle spalle, come se il mondo intero fosse una minaccia. 

E alla fine, molti di loro finiscono come tutti gli isolati: soli. Rinchiusi in celle di massima sicurezza, abbandonati dagli stessi che un tempo li osannavano, dimenticati persino dai familiari. Non c’è gloria in quella fine. C’è solo il vuoto di una vita spesa a costruire niente, se non paura!

Ma qui sta il nodo più difficile da sciogliere: non basta cambiare il modo in cui si racconta la mafia, se poi non si ha il coraggio di guardare a chi le tiene aperte le porte ogni giorno. 

Non parlo dei picciotti, dei piccoli spacciatori, di chi obbedisce e basta, senza chiedere, di chi spara, percuote, minaccia di persona, cioè di chi fa il “lavoro sporco” in prima persona senza chiedere...

No... mi riferisco a di chi indossa un completo, firma delibere, stringe accordi in sale riunioni, di chi evidenzia "mani pulite", sapendo di avere la coscienza "sporca". Sono loro il motore nascosto, il collante, il sistema che trasforma un’organizzazione criminale in un apparato quasi istituzionale.

Eppure, mentre si discute se una serie tv, un film, sia troppo morbido o troppo cruento, quella rete continua a tessersi indisturbata, sotto gli occhi di tutti, anzi, spesso proprio grazie allo sguardo distolto di molti o proprio di coloro che propongono l'abolizione di quelle trame romanzate.

Le mafie oggi non sparano più in piazza, non ammazzano i giudici in mezzo alla strada - per fortuna - ma sono più forti che mai, perché hanno imparato a mimetizzarsi, a parlare il linguaggio dell’economia, della burocrazia, del consenso. 

Sono dentro le gare d’appalto truccate, nei contratti gonfiati, nelle nomine pilotate, nei silenzi compiacenti, nelle assemblee dei consigli comunali. Non c’è bisogno di armi quando hai chi ti fa passare un atto inosservato: la violenza si trasforma in omissione, in complicità, in corruzione. 

Le inchieste lo dicono ogni ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, senza clamore, senza titoloni: non si tratta di sparatorie, ma di firme, di bonifici, di verbali falsificati, di relazioni tecniche appositamente taroccate. Eppure dal nostro governo si preferisce dibattere di film e fiction, come se la verità potesse essere cancellata cambiando un copione, mentre la realtà continua a marciare, silenziosa e implacabile.

Allora sì, raccontiamola meglio, la mafia! Ma questa volta non per far bella figura davanti alle telecamere di una Tv utilizzata a modello "propaganda" o per accontentare le sensibilità del momento, sì... raccontiamo perché chi ci governa, chi decide, chi ha potere di scelta, si senta ora chiamato in causa, senza che un pentito o un boss prima di morire da dentro il carcere abbia deciso di parlare...

Perché la vera battaglia non si combatte sul set di una serie, ma nelle aule di tribunale che vanno potenziate, nei controlli che vanno resi più efficaci, nelle scuole dove bisogna insegnare a riconoscere il clientelismo prima ancora che la violenza. E se non si ha il coraggio di guardare lì - dove stanno le mani che stringono, non quelle che sparano - ogni discussione sulle storie inventate resta solo rumore di fondo, un diversivo comodo, quasi colpevole.

Perché quel sistema non vive solo di omertà e intimidazione: vive di consenso, di complicità elettorale, di voti che vengono raccolti proprio grazie a quei legami. E fino a quando non si avrà il coraggio di chiamare le cose con il loro nome - senza giri di parole, senza eufemismi, senza distrazioni inutili -nessun cambiamento sarà reale! Sì... nessuno.

lunedì 22 dicembre 2025

Altro che terra santa, sembra viceversa - da 2000 anni - una terra maledetta!

Le cronache e le immagini che ci arrivano da Gaza e da ogni altra parte di quel territorio, mostrano la sofferenza fisica (e morale) di innocenti indifesi.

La violenza si sa... genera morte e distruzione, la vendetta genera odio e dolore, e così assistiamo a un percorso circolare in cui si rincorrono solo gli aspetti più bui dell’umanità. 

Una pace che non si apre, che non ammette solidarietà né comprensione, e che non fa altro che alimentare il male con altro male. Da millenni anni, secoli e in modo più acuto da quel maledetto ottobre, parliamo e scriviamo di questo. 

Eppure le parole, tutte le parole, sembrano scivolare via come acqua su una pietra levigata dall’indifferenza.

È stato superato da tempo ogni limite di sopportazione. Abbiamo visto le cause, immediate e lontane e il numero altissimo di vittime a causa di bombardamenti, scontri, esplosioni e soprattutto carenza assoluta di viveri. Innumerevoli appelli, mediazioni di papi, imam, patriarchi, rabbini, ayatollah, dalai lama, ma anche capi di stato, si sono infranti contro un muro di rifiuto e gli aiuti che sono riusciti a filtrare sono una goccia in un oceano di disperazione.

Vorrei chiedervi: Cosa spinge un essere umano a non fermarsi, a continuare a provocare dolore? Come si trasforma questa sensazione di impotenza che ci assale in qualcosa di concreto? Al sottoscritto sembra che dopo tante parole, l’indifferenza sia nuovamente calata come un velo pesante sul male della guerra, e che la paura ci abbia resi ormai muti. E come ripeto sempre in ogni occasione: il silenzio, si sa, ci rende complici.

Intorno a Gaza, intorno alla Palestina, sono stati eretti muri fisici, visibili, che bloccano l’accesso a chi non è “autorizzato”: aiuti, volontari, occhi del mondo. Ma intorno a tutta questa guerra è stata costruita un’altra barriera, invisibile e più spessa, che blocca l’ingresso alla verità. Una verità che sola potrebbe nutrire la giustizia e restituire dignità a una popolazione stremata. 

Cosa, o chi, impedisce davvero di aiutare esseri umani che vivono in condizioni disumane? Forse la loro debolezza fa paura. Forse la loro rassegnazione non scuote più le coscienze addormentate. Chi sono coloro che scelgono di seguire interessi economici o di potere, aumentando le spese per procurare morte mentre poco più in là c’è abbondanza di quanto servirebbe per vivere? Perché negare un farmaco, un pasto, un po’ di calore, a pochi passi da dove tutto ciò esiste? Il gelo di un terzo inverno, senza il calore della solidarietà, sembra non smuovere più cuori ormai induriti e disconnessi.

Sono domande che restano sospese, rivolte a tutti, perché di fronte a una situazione così disumana la responsabilità è collettiva e diffusa. E mentre ora il Natale si avvicina, con quel suo messaggio di luce, quella terra sembra affondare sempre più nelle tenebre di una maledizione antica. 

Già... da oltre duemila anni, forse anche a causa delle religioni che l’hanno contesa, è un luogo dove la guerra ha segnato l’esistenza dei suoi popoli, dove la pace non è mai stata una realtà, ma solo un’illusione lontana. Le dichiarazioni dell’ultimo anno, l’affannarsi sterile di politicanti e presidenti, non hanno fatto che evidenziare il totale fallimento di ogni politica messa in campo. Le loro parole risuonano vuote in un deserto di azioni efficaci.

Eppure, la risposta che ci viene proposta in questi giorni è la bella storiella (certamente fantasiosa) di un Bambino in povere fasce, nato in una grotta fredda e buia. Un Bambino che porta pace ai cuori senza pace, che è venuto per riconciliare i fratelli. Ed allora proviamo a prendere quanto di buono da quella storia raccontata, sì... celebriamo quel messaggio che dalla grotta di Betlemme è giunto fino a noi dopo più di duemila anni. Ma non possiamo farlo solo nel ricordo rituale o essendo di parte, già... da chi professa una qualsiasi religioni ed odia le altre.

La pace non è un’illusione, è una scelta di vita quotidiana e coraggiosa. È l’unica verità che può spezzare questo cerchio maledetto. È il coraggio di riuscire ad amare il prossimo, anche quando quel prossimo è oltre un muro, oltre un checkpoint, oltre l’abisso dell’odio che quella terra, da millenni, continua a generare!


domenica 21 dicembre 2025

Grignani, Cremonini e quella strada sbagliata che illuminava tutto - "A volte un artista ha solo bisogno di un abbraccio".

Buongiorno, e buona domenica a tutti.

Oggi ho deciso di tornare su un post che scrissi nel febbraio del 2022, - http://nicola-costanzo.blogspot.com/2022/02/gianluca-grignani-e-quelle-inutili.html - poco dopo aver visto Gianluca Grignani a Sanremo, e rileggerlo ora è stato come aprire un cassetto dove avevo riposto non solo parole, ma un sentimento intero, ancora caldo, ancora vivo... 

Era nato da uno sdegno sincero per le parole dure che gli erano piovute addosso in quei giorni, ed io in un tentativo goffo (e forse inutile) ho provato a restituirgli un po’ di quella dignità che nessuno, in realtà, avrebbe mai dovuto sottrargli.

Rileggere quelle righe ora, mentre si chiude un anno che per lui ha significato celebrare i trent’anni di "Destinazione Paradiso", è come ritrovare una traccia lasciata nel tempo da una penna non ancora sicura del proprio passo, ma già convinta di una cosa sola: che certe voci non meritano di essere ridotte ai limiti angusti di un commento frettoloso.

Ecco perché oggi scrivo nuovamente di lui, non come un ricordo, ma come una premessa silenziosa a quello che è accaduto in questi giorni, un gesto che non mi sarei mai aspettato e che invece ha preso forma con una delicatezza rara. Cesare Cremonini ha dedicato a Grignani un omaggio pubblico, sincero, quasi intimo nella sua precisione. Non una dichiarazione di circostanza, ma una sorta di confessione artistica: ha raccontato come la musica di Gianluca abbia agito nella sua crescita, come certi suoi brani abbiano respirato l’aria di altre canzoni, non per caso, ma per scelta, per debito, per affetto

Ha citato "Falco a metà" come antenato di Cara Maggie, "La fabbrica di plastica" come matrice invisibile di Silvia stai dormendo, e ha riconosciuto in "L’allucinazione" una specie di testo sacro, un punto di riferimento per chi, come lui, ha provato a costruire storie con gli accordi. Più commovente ancora è stato quel dettaglio: il timbro di Gianluca divorato a grandi bocconi sul bus del ritorno da scuola, mentre fuori dal finestrino il mondo scorreva e lui, dentro, già provava a immaginare un’altra vita, una possibile, una cantabile. È così che nasce un artista: non solo ispirato, ma nutrito. Non solo ammirato, ma abitato.

E poi, quelle parole che Cremonini ha scelto per chiudere, quelle che Gianluca aveva pronunciato tempo fa e che oggi tornano come un’eco piena di senso: A volte un artista ha solo bisogno di un abbraccio. A volte la strada sbagliata è la più illuminata. Leggerle ora, dopo averle scritto io stesso in difesa di un uomo che non conosco, ma che sentivo profondamente offeso nella sua essenza, è stato come assistere a una riconciliazione con qualcosa di più grande di noi: con il tempo, con la memoria, con il modo in cui una parola giusta, detta al momento giusto, può restituire equilibrio a un intero sistema emotivo.

Eppure, quest’anno per Grignani non è stato solo luce e celebrazioni. Accanto a quel riconoscimento sincero, ha continuato a muoversi l’ombra di una questione che tocca un nervo scoperto: il rispetto per l’opera, per la sua struttura, per il suo significato... 

La vicenda con Laura Pausini, legata alla cover di "La mia storia tra le dita", è stata un esempio perfetto di come una piccola modifica possa diventare un terremoto semantico. Cambiare "Ho sbagliato" in "Hai sbagliato" non è una correzione stilistica: è una deviazione narrativa, un cambio di prospettiva che sposta il peso della colpa, che trasforma un atto di autocritica in un’accusa. 

Grignani ha parlato chiaro: non era il rifacimento a ferirlo, ma la mancanza di confronto, lo strappo all’integrità di un testo che era già, da solo, un piccolo romanzo. Alla fine è arrivato un accordo, la diffida è stata ritirata, ma resta un dettaglio curioso: nell’edizione italiana dell’album "Io canto 2", la versione in italiano di quella stessa canzone non c’è. C’è quella in portoghese, c’è quella in spagnolo, ma non quella che, nel nostro idioma, ha segnato un’epoca. Come se, in silenzio, si fosse ripristinato un confine invisibile, ma necessario. Come se la canzone avesse scelto da sola chi deve portarla nel mondo, e con quale voce.

Guardando tutto insieme, mi viene da pensare che questi due filoni - l’abbraccio di Cremonini, la disputa con Pausini - non siano affatto separati. Parlano entrambi dello stesso tema: cosa significa riconoscere un’autore, non solo come firma in calce a un foglio, ma come presenza viva, come coscienza in cammino. Il post crudele dopo Sanremo e la modifica del testo nascono da una stessa sordità: la difficoltà di ascoltare davvero, di andare oltre l’immagine, oltre la superficie, oltre il successo. L’omaggio di Cremonini e le mie righe di allora, invece, nascono da un punto comune: la capacità di sentire la musica non come prodotto, ma come memoria condivisa, come tessuto emotivo che ci lega, anche quando non ci conosciamo di persona.

Oggi Grignani annuncia nuovi concerti, un nuovo album, e continua a camminare con quella chitarra acustica stretta al petto, proprio come lo ha definito Cremonini: un combattente. Non un ribelle per vocazione, non un nostalgico per difetto, ma uno che ha attraversato strade diverse, alcune buie, alcune illuminate, senza mai smettere di credere che ogni nota, ogni parola, ogni silenzio contano. E che a volte, davvero, basta un abbraccio per rendere sopportabile il peso di tutto il resto.

La strada, alla fine, è sempre la stessa: quella che porta a casa, anche se casa è fatta di accordi, di versi, di errori riconosciuti, di storie scritte tra le dita, destinate - chissà - a un paradiso che non è mai troppo lontano, purché resti fedele alla voce che lo ha immaginato.

sabato 20 dicembre 2025

Riforma del condominio: A volte le denunce presentate servono a migliorare (di molto) questo paese corrotto!

Sì… a volte basta un gesto, una scelta precisa, per far sì che qualcosa inizi a muoversi.

Non parlo di rivoluzioni, né ambisco a drammi o proclami; vorrei semplicemente sottolineare quel minimo coraggio che spinge un cittadino a fare ciò che molti si aspettano e – ahimè – pochi compiono: denunciare con i fatti, non con le parole!

Ho presentato documentazione completa alla Procura nazionale e alla Gdf della mia città, allegati ufficiali, integrazioni puntuali, nessuna illazione, solo prove.

Lo feci non per interesse personale, né per vantaggio diretto, e ancor meno per “salvaguardare il proprio orticello”, ma perché chi riceve un incarico – anche se compiuto in forma gratuita – ha il dovere morale di portarlo avanti con trasparenza, soprattutto quando intorno c’è confusione, opacità, forse illegalità. Peraltro, la sentenza di condanna che ne seguì non fu solo una vittoria giudiziaria, fu la conferma che qualcosa, in quel condominio, non funzionava da tempo.

Eppure, quanti anni ed ostacoli prima di arrivare fin lì. Quante porte chiuse, quanti silenzi imbarazzati, quante risposte evasive che sembravano uscite da un copione già scritto. Mi sono sentito come Don Chisciotte davanti ai mulini a vento, che per raggiungere il suo obiettivo deve attraversare sabbie mobili, superare muri di gomma, e avanzare senza mai sapere se quel che vede è reale o solo illusione. Ogni tentativo di dialogo interpretato come fastidio, ogni richiesta di chiarezza respinta come disturbo all’ordine delle cose.

Ricordo un collega, anni fa, sempre con gli occhi fissi sul monitor delle slot online, che senza voltarsi mi diceva: Nicola… non ora, non vedi che sono impegnato? Ecco, certe volte ho avuto la stessa sensazione: mentre tu cerchi di fare chiarezza, qualcuno altrove sta giocando con luci che girano piene di corone, campane e ciliegie, totalmente indifferente al caos che genera senza nemmeno accorgersene.

Ma fortunatamente non tutti sono così. C’è chi ancora crede nel proprio ruolo, nei valori della toga e della divisa, chi tra mille difficoltà continua a lavorare con senso del dovere, procuratori rigorosi, militari onesti, ma anche dirigenti e funzionari attenti, che pur tra bastoni tra le ruote, non abbassano la guardia. Ed è grazie anche a loro che infatti qualcosa si muove.

Ed allora finalmente ecco giungere quella riforma tanto auspicata, e permettetemi di fare un plauso anche a chi – seduto in quelle poltrone di governo – ha saputo ascoltare e prendere in mano l’argomento di migliaia di condomini e delle loro difficoltà, riportando il problema ai propri colleghi del Parlamento, affinché si realizzasse quella fondamentale – per non dire necessaria – riforma della gestione condominiale.

Il 17 dicembre scorso è stato presentato il progetto di legge “AC 2692”, una riforma attesa da tredici anni, dall’ultima modifica sostanziale della disciplina condominiale. Cambia molto, e non soltanto sulla carta. Pagamenti obbligatoriamente tracciabili, fine del contante, conti correnti condominiali come unico canale per incassi e spese: niente più transazioni nell’ombra. I creditori potranno agire direttamente sul fondo comune, senza dover inseguire singolarmente i morosi, e se le somme non bastano, i condòmini in regola pagheranno in anticipo, conservando però il diritto di rivalsa. Un sistema più efficiente, certo, ma anche più equo, purché accompagnato da controlli veri.

L’amministratore non sarà più chiunque, nemmeno se interno al condominio. Dalla laurea triennale in ambito economico, giuridico, tecnico o scientifico, al percorso formativo obbligatorio, fino all’iscrizione a un registro nazionale tenuto dal Ministero delle Imprese: la professionalità diventa requisito imprescindibile. Niente più improvvisazione. Accanto a lui nasce il revisore contabile condominiale, figura nuova, indipendente, con competenze specifiche e iscrizione a un albo dedicato. Controllo reale, trasparenza finanziaria, prevenzione dell’evasione: non sono slogan, sono strumenti concreti.

Anche il fisco entra in gioco: le spese condominiali ordinarie potranno essere portate in detrazione nella dichiarazione dei redditi. Un incentivo chiaro: pagare in tempo conviene. E chi non paga? L’amministratore potrà chiedere il decreto ingiuntivo solo dopo l’approvazione del rendiconto, entro 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio. Tempi più lunghi, sì, ma più coerenti con una gestione corretta dei bilanci.

Chi esercita senza titolo rischia sanzioni pesanti, multe oltre i cinquemila euro. E in caso di reati gravi, si apre la strada alla confisca dei beni, anche di quelli posseduti dai familiari, se non ne viene dimostrata la legittima provenienza.

Non è punizione, è dissuasione. È il segnale che i tempi cambiano...

venerdì 19 dicembre 2025

COSEDIL Spa: Il problema non sono i 29 giorni per ottenere il permesso di costruire, bensì la media di 800 giorni finora...

Ho letto in questi giorni un articolo su "Il Fatto Quotidiano", una delle poche testate che ancora leggo, non per fedeltà incondizionata, ma perché almeno tenta di non arrendersi al copione condiviso.

Le altre testate ormai, sono troppo allineate ai voleri degli editori o dei palazzi della politica, e quindi da tempo, le ho lasciate indietro senza alcun rimpianto...

Eppure, stavolta non mi trovo d’accordo, già... con l’impostazione scelta: non tanto per i fatti riportati - chiedo scusa sin da ora all’autore, se ho frainteso - quanto per il sottinteso che accompagna il racconto: come se una pratica conclusa in tempi umani non potesse che nascondere qualcosa di storto o una scorciatoia illegittima dietro la vicenda della COSEDIL Spa.

Il punto per me non è se quella società abbia ottenuto un permesso in 29 giorni - un tempo che, sì, fa sobbalzare chi conosce bene i tempi biblici della burocrazia edilizia italiana - ma piuttosto perché, per ottenere un permesso c'è bisogno di otto mesi, due anni, una vita intera, tra attese, solleciti, correzioni e ahimè silenzi?.

Il vero interrogativo non è dunque chi è stato bravo oppure ha saputo correre più veloce, ma perché tutti gli altri sono costretti a camminare con i piedi nel cemento fresco. Ecco la vera domanda da porsi è: quali ingranaggi si inceppano, dove si annidano le inefficienze, chi ha interesse a lasciarle lì, e soprattutto, cosa potremmo fare, domani, se davvero volessimo svecchiare un sistema che non rallenta lo sviluppo per difetto, ma lo paralizza per scelta.

Condivido, senza riserve, le parole dell’Ing. Gaetano Vecchio, uno dei titolari dell’azienda - e lo dico con la massima trasparenza, visto che qualcuno potrebbe insinuare retroscena personali: non conosco l’ingegnere né di vista, né in cantiere, neppure per lontana fama professionale. In 35 anni di direzione tecnica, trascorsi quasi interamente fuori dalla Sicilia - per scelta, per lavoro, per necessità - non ci siamo mai incrociati. Solo da un anno e mezzo sono tornato qui, in questa terra che amo con tutte le sue contraddizioni, eppure sempre - come dimostrano con i fatti le mie denunce - con gli occhi aperti.

L’articolo in questione, scritto con cura e rigore da un giornalista che stimo e con cui ho avuto modo di confrontarmi più volte, racconta di un intervento edilizio rilevante - oltre 8000 metri quadri - per il quale il permesso è arrivato in meno di un mese. E qui sorge la domanda inevitabile: se i documenti sono stati depositati in perfetta regola - progetti conformi, relazioni tecniche a norma, pagamenti effettuati, pareri acquisiti, vincoli verificati - perché mai dovremmo sospettare di un iter celere? Non è forse il segnale che qualcosa, da qualche parte, funziona?

Mi vien da dire che forse, invece di cercare ombre, dovremmo applaudire l’amministrazione di Acireale, capace di esaminare una pratica complessa con tempestività, chiarezza e competenza, virtù non così rare quanto si fa credere, ma certamente non diffuse come dovrebbero.

Basti guardare alcuni comuni del Nord, quelli che la retorica giornalistica spesso indica come “esemplari”, per scoprire che sì, anche lì certe pratiche vengono chiuse in 25/30 giorni e nessuno alza un sopracciglio, perché lì la velocità non è sospetta, è normale.

Ecco, qui casca l’asino: la retorica del “Sud corrotto, Nord efficiente” è un automatismo pigro, e soprattutto falso. Ho trascorso metà della mia vita tra Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana, e posso dirlo con cognizione di causa: il malaffare non ha coordinate geografiche, la burocrazia punitiva non è una specialità regionale, gli interessi incrociati non rispettano confini amministrativi. “Tutto il mondo è paese” non è un modo di dire per rassegnarsi, ma un invito a smettere di demonizzare un luogo solo perché ci fa comodo pensare che altrove sia tutto diverso.

La COSEDIL ha fatto una scelta razionale: investire dove le condizioni lo consentono, e minacciare di spostarsi altrove se quelle condizioni vengono meno. Non è un ricatto, è il mercato, crudo, vero, disarmante. E se questa minaccia costringe un’amministrazione a fare il proprio dovere in tempi umani, forse non dovremmo lamentarci, ma chiederci perché non accada sempre così: perché non si faccia sistema, perché non si trasformi quell’eccezione in regola.

Perché ogni permesso rilasciato in tempi decenti non è un favore a qualcuno, ma un atto di giustizia verso tutti. È un segnale per chi crede ancora nel fare, per chi vorrebbe costruire, assumere, progettare, e invece si sente dire “aspetti”, “vediamo”, “forse”, “non ora”. È un colpo al cuore di chi, come me, ha scelto di girare il mondo pur di non rimanere impantanato nel limbo delle carte bollate - non per sfuggire alla legalità, ma per inseguire la possibilità di lavorare dentro una legalità che non strangola, ma sostiene.

E allora sì, concludo riprendendo le parole dell’ingegner Vecchio - ripeto, non perché le condivido per cortesia, ma perché le sento come fossero mie: “Con tempi più lunghi avremmo spostato altrove l’iniziativa”.

Consentitemi di aggiungere su questo (straziante) punto che se fossimo onesti fino in fondo, dovremmo ammettere che, quando qualcuno se ne va per non attendere l’eternità, non è lui a tradire il territorio: è il territorio che ha già tradito lui.

Lo so bene, non per teoria, ma per esperienza diretta - e dolorosamente familiare. Le mie due figlie, entrambe laureate - una a Milano, l’altra a Perugia - non hanno scelto di restare lontano per vocazione nomade, né per ambizione smisurata. Semplicemente, qui non hanno trovato un sentiero percorribile: non un rifiuto esplicito, ma un’assenza - di opportunità chiare, di procedure trasparenti, di segnali che dicessero: qui puoi costruirti un domani senza dover prima scavarti una trincea nella burocrazia. E così se ne sono andate, non con rancore, ma con quella lucida rassegnazione che nasce quando capisci che il tuo impegno, da solo, non basta.

Non le giudico, anzi le ammiro, e ogni volta che sento parlare di “fuga dei cervelli” come se fosse un fenomeno naturale, inevitabile, quasi geologico - mi vien da chiedere: e se invece fosse solo la conseguenza logica di un sistema che premia chi aspetta in silenzio, e punisce chi prova a camminare?

giovedì 18 dicembre 2025

Dove i vangeli "non ufficiali" raccontano un’altra Chiesa – (Terza e ultima parte). E un invito, caro Roberto, per il monologo che ancora manca.

E in questa tradizione, il cosiddetto Vangelo di Giacomo - un testo apocrifo del II secolo - stranamente non è stata inserita come biografia evangelica, c'è la ricostruzione della sacralità della famiglia: Maria è presentata come figlia del tempio, dedicata fin da bambina a Dio; Giuseppe è un vedovo anziano, scelto solo per proteggere la sua purezza; Gesù nasce in silenzio, senza clamore, e subito dopo è Giacomo, il primogenito di Giuseppe, a entrare in scena come custode della sorellina (Maria) e poi del fratellastro (divino). 

Non vi è alcun miracolo nel parto, e neppure adorazione dei magi, c’è semplice devozione, rispetto, familiarità. Per gli ebioniti, la santità non era nell’eccezionale, ma nel quotidiano. Nel fare bene ciò che la Torah chiede, senza sconti, senza scorciatoie e quando Giacomo morì lapidato, per loro non cadde un leader tra tanti: cadde il pilastro che teneva ancora unita la casa di Gesù alla casa d’Israele.

Certo, col tempo quella voce si fece sempre più flebile e così mentre Roma cresceva, Antiochia dibatteva e Alessandria speculava, Gerusalemme era stata sepolta dai romani sotto le ceneri...

E i vangeli - non parlo solo di quei quattro che ormai leggiamo come fossero uno - non furono scritti in un’unica volta, né con un unico intento. Ognuno porta i segni del suo tempo, delle sue ferite, dei suoi conflitti risolti a parole quando non era più possibile risolverli a fatti. 

Quello di Marco, probabilmente scritto prima della distruzione del Tempio, non conosce ancora la figura di Pietro come fondamento: lo mostra smarrito, che fugge nudo dal Getsemani (un dettaglio troppo strano per essere inventato...), che tace davanti al sommo sacerdote, che non compare alla tomba vuota, anzi, le donne “non dissero nulla a nessuno, perché avevano paura”, un testo aperto, incerto, come la comunità che lo genera. 

E poi Matteo, scritto dopo il 70, in una chiesa divisa tra ebrei osservanti e convertiti ellenisti, sente il bisogno di chiudere quella incertezza: ecco allora il discorso della montagna, le antitesi («Avete inteso che fu detto… ma io vi dico»), e, appunto, la dichiarazione su Pietro — «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa». Ma attenzione, quanto scritto non rappresenta un titolo di proprietà, è un atto di fiducia in un momento di crisi. È come se la comunità dicesse: “Abbiamo perso Gerusalemme, abbiamo perso il Tempio, abbiamo perso Giacomo, ma non abbiamo perso la possibilità di ricominciare e se proprio dobbiamo ricominciare, che sia qualcuno che ha fallito, ma che è stato guardato ancora”.

Luca, viceversa, cerca l’unità: fa parlare Pietro a Pentecoste, ma affida la parola decisiva al concilio a Giacomo; mostra Paolo in viaggio, ma lo fa arrestare a Gerusalemme, in quella stessa città dove Giacomo camminava a testa alta fino all’ultimo. Giovanni, infine, scrive più tardi, forse a Efeso, e sa che ormai Giacomo è un nome quasi scomparso: allora trasforma Pietro in Simone figlio di Giovanni, lo fa riconoscere tre volte da Gesù dopo il rinnegamento - non per umiliarlo - ma per restituirgli il posto non come capo, ma come pastore. È un gesto di riconciliazione postuma, un tentativo di tenere insieme ciò che la storia aveva separato.

Ecco che così, pagina dopo pagina, quei vangeli non raccontano solo ciò che accadde, ma anche ciò che si sperò potesse ancora accadere: un’unità che non cancellasse le differenze, una fedeltà che non diventasse rigidità, una memoria che non si trasformasse in mito. 

Il problema non fu mai che qualcuno abbia “inventato” il Pietro che oggi tutti conoscono, quello che, in questi giorni, Roberto Benigni ha raccontato con tanta grazia e forza. No... il problema fu che, più tardi, qualcuno decise che quella sola immagine dovesse bastare a reggere tutto, la fede, il potere, la memoria persino e nel farlo, lasciò fuori le altre voci, i volti che non chiedevano di comandare, ma solo di testimoniare.

Come se la casa di Gesù potesse avere un’unica colonna portante, e non invece una trama di relazioni, di tensioni, di silenzi pesanti e parole ritrovate. Perché la verità è che Gesù non ha lasciato un successore: ha lasciato una tavola apparecchiata e su quella tavola c’erano dodici posti e quindi non uno solo. Alcuni furono occupati da chi rimase, altri da chi decise di andare lontano, altri ancora restarono vuoti, segno che nessuno poteva dire: “Qui siedo io, e qui nessun altro”!

Ecco allora che - a seconda di come vogliamo leggere la storia, forse o certamente - il vero errore non fu tanto mettere Pietro troppo in alto, quanto dimenticare che ogni volta che lo si sollevava, qualcun altro veniva inevitabilmente spinto giù: Giacomo, Maria di Magdala, Giuda di Giacima, la vedova con le sue due monetine, non furono cancellati, no... furono semplicemente messi fuori campo, come ombre al bordo della tela ufficiale, mentre la luce veniva concentrata su un solo volto.

Ecco per cui, mio caro Roberto, consentimi di suggerirti il tuo prossimo monologo e cioè l’unico e vero messaggio che Cristo desiderava: un insegnamento che riuniva l’umanità intera, senza divisioni religiose, senza più poveri e ricchi, senza padroni e servi, senza chi comanda in nome di Dio e chi obbedisce per paura del castigo. 

Il tutto potremmo dire riunito in una sola legge - scritta non su pietra - ma nel cuore: “ama il prossimo tuo come te stesso”.

Basta  un solo segno distintivo: non la fede dichiarata, bensì il pane spezzato con chi non ha, con una giustizia equa fatta anche per chi non conta, la verità detta a chi non la vuole sentire, perché Gesù non venne a fondare una Chiesa, venne a ricordare a tutti che siamo una sola famiglia e che ogni volta che qualcuno viene lasciato fuori - non è lui a essere escluso - siamo noi a smettere di essere umani.
E quel giorno, non è Dio che si allontana: è l’uomo che si dimentica di sé!

mercoledì 17 dicembre 2025

Quando il silenzio di Giacomo parla più delle parole di Pietro - Seconda parte

Consentitemi - prima di iniziare la seconda parte del mio post - di riportarvi quanto ricevuto - ieri - dalla mia prima lettrice, e cioè mia moglie (ma sono certo che sarete stati in molti a pensare la stessa cosa…):

- Troppo lungo per leggerlo immediatamente, lo farò con calma. Hai forse voluto eguagliare Benigni per lunghezza??? Ma lui a differenza tua è stato profumatamente pagato per intrattenere gli spettatori 🤣🤣🤣🤣

Risposta (che in un qualche modo preannuncia quanto sto ora per scrivere):

- Hai ragione sulla lunghezza, ma per trattare con serietà un tema così vasto (e come sappiamo troppo spesso edulcorato...) servono necessariamente più parole. Ho preferito quindi una divisione in più parti a un riassunto frettoloso. Il punto centrale del mio post non è la mia opinione personale, ma il tentativo di ricostruire coerentemente eventi storici che, da duemila anni, vengono (sempre) celati dietro narrazioni più “comode e spettacolari”, come per l’appunto alcuni monologhi di intrattenimento.

Ed allora - dando seguito a quanto scritto ieri - ho lasciato l’ultima parola al “silenzio”, come si fa quando si è detto qualcosa che non può essere né aggiustato né cancellato, solo accolto. La storia - e quindi non la leggenda - ci ha consegnato un Giacomo solido, silenzioso, radicato in quella terra di Gerusalemme, mentre viceversa ci ha fatto conoscere un Pietro che cammina sui margini, tra le onde e le città, tra l’entusiasmo coraggioso di chi crede ciecamente ed il ripensamento umano di chi evidenzia paura, già… tra il fuoco e il dubbio.

Eppure, non finisce qui, perché se è vero che la storia non mente, è altrettanto vero che non parla mai da sola: le sue parole sono sempre intrecciate con quelle di chi, dopo, ha dovuto scegliere da che parte stare, in tempi in cui non si trattava più di seguire un uomo, ma di costruire una memoria capace di resistere al tempo. E quella memoria, inevitabilmente, ha dovuto fare i conti con conflitti che non erano più tra Giudei e Romani, ma dentro la stessa comunità dei discepoli.

Paolo e Pietro, per esempio, non furono mai compagni di strada nel senso tranquillo del termine.

Paolo, cittadino romano, colto, irruente, convinto che la buona novella fosse per tutti, senza distinzioni di circoncisione né di legge; Pietro, galileo, cresciuto nel ritmo delle sinagoghe, fedele alla Torah anche quando non ne capiva più il senso, sempre in bilico tra ciò che aveva udito da Gesù e ciò che il cuore gli imponeva di non abbandonare. 

Ad Antiochia - come ho scritto ieri - lo scontro è netto: Pietro mangia con i pagani finché non arrivano gli emissari di Giacomo, allora si ritrae, come chi teme di aver oltrepassato un confine che non gli compete spostare: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani… come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?». Non è un rimprovero teologico: è la voce di chi sente cedere il terreno sotto i piedi, perché sa che se la legge diventa barriera, allora la grazia non è più grazia. Ma Pietro tace e quel silenzio, più di ogni parola, ci dice quanto il primato non fosse mai stato suo: non aveva l’autorità di decidere da solo, perché la comunità di Gerusalemme aveva un centro, e quel centro si chiamava Giacomo.

E proprio attorno a Giacomo si radica una corrente di pensiero oggi quasi dimenticata, ma che per secoli fu viva, presente, resistente: gli ebioniti, i “poveri”, che vedevano in Gesù non un dio disceso dal cielo, ma un uomo giusto, profeta e maestro, figlio di Giuseppe e Maria, fratello di Giacomo, osservante della Legge fino all’ultimo respiro. Per loro, il vero erede non era chi predicava la libertà dai precetti, ma chi, come Giacomo, portava ogni giorno il "tallit", pregava nel tempio, rifiutava la carne sacrificata agli idoli e viveva in povertà radicale. 

Non avevano bisogno quindi di un Pietro universale, né di un Paolo che parlava in greco alle città: avevano bisogno di un fratello che camminava per le strade di Sion come aveva camminato Gesù, con le stesse scarpe polverose e lo stesso sguardo sulle vedove e gli orfani. 

FINE SECONDA PARTE

martedì 16 dicembre 2025

Roberto (Benigni), il tuo monologo su Pietro è meraviglioso, ma la storia di quell'uomo racconta tutt'altro - Prima parte

Dopo la presentazione su Rai 1 del monologo di Roberto Benigni sul discepolo di Gesù, Pietro, ho letto nel web un post di Vatican News che riprendeva quell'assolo e lo intitolava "Quella forza che nasce dalla fragilità, Benigni racconta San Pietro", ed allora ho deciso che fosse "giusto" (sì... un parola che trova proprio in questo contesto la sua perfetta collocazione...) bilanciare, sì...quanto da entrambi riportato. 

Sì... perché anch’io, come molti di voi, ho ascoltato con attenzione quel monologo durato circa due ore - opera del grande attore, regista, sceneggiatore e cantautore che tutti conosciamo - ma debbo dire che quanto ho udito mi è sembrato più un racconto fantasioso - certo bello - avvincente, a volte commovente, ma non un terreno su cui fermarsi a riflettere, bensì uno specchio in cui riconoscersi senza dover mai mettersi in discussione.

Già - caro Roberto - ciò che hai detto va bene ai bambini, e va bene anche a tuuti quei fedeli che vogliono credere tenendo però gli occhi chiusi, senza mai mettere in discussione nulla, accettando - quasi fossero seguaci di una verità che non ammette domande - tutto ciò che viene loro insegnato: già... mai a chiedersi se quegli insegnamenti siano radicati nella storia o costruiti per consolare. 

Non chiedono a se stessi se quelle parole ascoltate con devozione, a volte persino studiate in modo approfondito, servano davvero a discernere il giusto dall’ingiusto o - come solitamente accade - solo a confermare ciò che già si vuole sentire. Già... l’importante è riceverle - e basta- come se a parlare loro fosse il divino in persona.

Per cui, quanto andrò ora a scrivere non è per tutti, in particolare non per chi ha da sempre chiuso il proprio cuore e cammina come un cavallo con i paraocchi, sì... perché la strada non l’ha scelta lui: l’ha decisa il fantino!

Ed allora, consentimi di far conoscere chi era realmente - quantomeno storicamente - quel Pietro da te tanto decantato con amorevole passione e scusami se nel mio post, mi rivolgerò a te senza darti del lei, ma su questo punto, sono certo che apprezzerai il mio esser spontaneo.   

Innanzitutto desidero precisare che nel tuo monologo ti stessi riferendo a quel soggetto chiamato "Simone", detto Kefà, in aramaico: “roccia”, (tradotto in greco Petros). Ed allora iniziamo a vedere chi era questo umile pescatore, originario di Betsaida (Galilea); certamente era un analfabeta o quantomeno con una bassissima scolarizzazione: basti leggersi il passaggio - Atti 4,13 - dove viene descritto come "agrammatos kai idiotēs" -  e cioè "senza lettere e privo di formazione".

Ed allora continuando, vediamo cosa sappiamo di lui (quantomeno) con certezza: dovrebbe esser stato uno dei primi seguaci di Gesù ed è anche presente in molti episodi riportati come la trasfigurazione, Getsemani, rinnegamento (quest’ultimo come sappiamo presente in tutti e quattro i vangeli canonici).

Sappiamo inoltre che dopo la morte del profeta Gesù, egli è tra i protagonisti del movimento post-pasquale: appare per primo - o quantomeno tra i primi -  a Gesù risorto (vedasi Cor 15,5; Lc 24,34), inoltre, predica la Pentecoste (Atti 2), ma sappiamo bene come questa rappresentazione sia una narrazione teologica molto tardiva.

Certo svolge un ruolo di rilievo tra i dodici apostoli, ma quel numero “Dodici” rappresenta un gruppo simbolico, non un organo stabile, difatti, dopo la morte di Giuda, Mattia viene “sorteggiato” e quindi scelto, ma stranamente non compare più...

Passiamo allora a tutta una serie di frasi riportate nei cosiddetti vangeli sinottici, in particolare quella in cui Gesù chiama Simone Pietro e gli dice: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt 16,18). 

Ma questo testo compare solo in Matteo- ed è in greco- segno che non risale alla tradizione aramaica di Gesù- ma a una redazione posteriore- forse ad Antiochia, attorno agli anni 80-90 d.C. - in una comunità attraversata da tensioni interne - alla ricerca non di un’identità “unica”, ma di un’autorità riconosciuta da tutti, proprio mentre giudeo-cristiani ed ellenisti stavano prendendo strade diverse.

Se prendiamo ad esempio quello di Marco (il più antico), lì... non vi è riportato nulla!

Ed ancora, permettimi di aggiungere come Luca e Giovanni non lo riportano in quella forma; si comprende quindi come quell’episodio sembra rispondere più a una situazione successiva e non ai giorni di Gesù. Vi è in quella frase - creata appositamente - la ricerca di legittimazione gerarchica, soprattutto in un periodo nel quale emergevano forti tensioni tra giudeo-cristiani ed ellenisti.

Per cui, la frase “tu sei Pietro…” probabilmente non possiede nulla di storico, nel senso di “pronunciato da Gesù in quel momento”, ma riflette una volontà di sviluppò teologico che voleva porre Pietro in un ruolo di leader che non gli spettava e che, come sappiamo, fu assegnato a Giacomo detto “il Giusto”.

Ed allora, mettiamo per un momento da parte questa figura di Pietro e andiamo ad analizzare la figura di Giacomo (Ya‘aqov), fratello di Gesù (Mc 6,3; Gal 1,19), che emerge con chiarezza già nei primi decenni, e in modo assai più concreto rispetto (a questo tuo e non solo tuo...) "Pietro". 

Paolo lo chiama “Giacomo, il fratello del Signore” (Gal 1,19), e dice di averlo incontrato a Gerusalemme e difatti, in Galati 2,9, si legge: e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi.

Scusami Roberto, hai letto? I “pilastri” della chiesa di Gerusalemme sono “Giacomo, Cefa (Pietro) e Giovanni”, ma è Giacomo ad essere nominato per primo.

Ma non solo, nello stesso capitolo, Paolo riferisce di un disaccordo ad Antiochia tra Giacomo e Pietro (Gal 2,11–14): 11 Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12 Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13 E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14 Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?

Si comprende da questo passo come Pietro si ritiri dalla mensa comune con i pagani per timore “di quelli che venivano da Giacomo”, un segno tangibile di come fosse Giacomo ad avere l'autorità, riconosciuta anche fuori Gerusalemme.

Andiamo avanti, prendiamo ora gli Atti degli apostoli al passaggio 15 (concilio di Gerusalemme) è ancora Giacomo a pronunciare la decisione finale (At 15,13–21) e non Pietro, quest’ultimo parla solo per primo: “Fratelli- voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta fra voi- perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del vangelo” (At 15,7), ma quando tutti finiscono di parlare, è Giacomo a concludere: Fratelli- ascoltatemi- Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome” (At 15,13–14). Il ruolo decisivo è suo!

Ecco perché mi dispiace contraddirti quando dici: “Voi potete prendere qualunque libro al mondo, ma quando si arriva al Vangelo non c’è discussione”. No... perdonami ma non sono d'accordo, viceversa ritengo ci sia molto da discutere ed allora per farlo continuo ad argomentare quanto tu hai "abilmente" sospeso...

Prendiamo ad esempio un bellissimo libro di Giuseppe Flavio - https://www.homolaicus.com/religioni/fonti/antichita-giudaiche.pdf - Antichità giudaiche XX,200: “Poiché Anano - sommo sacerdote - riteneva di avere ora l’occasione propizia, convocò il sinedrio e vi fece comparire il fratello di Gesù -detto Cristo- di nome Giacomo e alcuni altri, e li fece lapidare.” Siamo nel 62 d.C. e Giacomo - non Pietro - viene ucciso come leader riconosciuto della comunità giudeo-cristiana.

La conclusione storica è evidente a chiunque - in particolare a chi vuole avere un cuore aperto - e cioè che, tra il 30 e il 62 d.C., Giacomo è il vero centro di gravità della chiesa madre di Gerusalemme, mentre Pietro ha un ruolo certamente itinerante e carismatico, ma non stabile, né direttivo nel senso istituzionale.

Ed allora viene spontaneo chiedersi: perché Pietro storicamente “sopravvive” e Giacomo scompare dalla memoria popolare?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto far riferimento ad alcune circostanze: 

-la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.) - la chiesa madre viene dispersa e la successiva centralità va prima ad Antiochia e poi a Roma, dove la tradizione petrina si radica presto (fine I sec.: Clemente romano chiama Pietro “esempio di sopportazione”, 1 Clem 5,4–7).

- Giacomo è strettamente legato al giudaismo: osservante della Torah, asceta, “giusto”, ma è dopo il 70, che la separazione tra ebraismo e cristianesimo inizia ad accentuarsi e quindi quella sua figura non si adatta facilmente a una chiesa sempre più ellenistica e soprattutto pagana.

- Pietro diventa “universale”: quel pescatore impulsivo, fallibile (rinnegamento), poi convertito, rappresenta un personaggio più “umano” e narrativamente efficace, difatti è proprio ciò che hai realizzato tu, in maniera sublime, esaltando la sua virtù umana: è diventato anche il mio migliore amico, perché me ne sono innamorato! (…) Come parla, come si muove, come reagisce, come guarda, come cammina, come pesca E quante ne combina! Oh, Signore! All'inizio non ne fa una giusta. Non capisce, sbaglia, inciampa, ci ripensa, (…) è proprio uguale a noi, ripeto: il più vicino a noi, e nello stesso tempo il più vicino a Gesù. 

La vicenda umana del pescatore di Galilea - raccontata da te - è perfetta:  svela «cosa può fare un uomo per Dio e cosa può fare Dio di un uomo». E difatti, la sua morte a Roma (probabile sotto Nerone, ca. 64–67) lo lega indissolubilmente alla nuova Chiesa di Roma, destinata a un ruolo sempre più crescente.

Ed allora concludendo, ma soprattutto basando le mie riflessioni su fatti concreti (ho eliminato qualsivoglia fantasia), non vi è alcuna prova storica che Gesù abbia istituito Pietro come “capo” della futura chiesa, come peraltro il ruolo di Pietro se pur reale, non fu mai gerarchico nel senso moderno. Viceversa fu Giacomo "il Giusto", ad esser stato nominato leader della prima comunità cristiana, con un’autorità riconosciuta anche da Paolo e dallo stesso Pietro stesso.

Ecco perché quanto emerso dalla storia sta in netto contrasto con il racconto del tuo monologo - e ancor più con la tradizione consolidata della Chiesa - in particolare con quella “primazia” di Pietro che non ha fondamento nei primi decenni dopo Gesù, ma si forma lentamente, tra l’80 e il II secolo, già... come risposta a bisogni reali (e non divini...) di unità, riconoscibilità e continuità, in una fede che stava diventando universale - ma rischiava di perdere le radici - e così si decise di costruire un fondamento solido, sì... su una pietra che, storicamente, non era mai stata posta dal profeta di Nazaret.

FINE PRIMA PARTE

lunedì 15 dicembre 2025

La confisca c’è, l'indagato pure. Ma chi ha permesso che accadesse? Quando lo strumento della legalità si incaglia nel suo stesso meccanismo.

C’è un’impresa, confiscata da anni, che è riuscita a muoversi come se nulla fosse cambiato.

C’è ora un processo, con richieste di condanne pesanti, e un pubblico ministero che si presenta in persona, segno che la materia non è secondaria, né accidentale.

C’è un nome che non serve citare, perché non è di quello che si tratta: quello che conta è che l’impresa abbia continuato a funzionare dopo la confisca, nonostante la confisca, quasi grazie alla confisca, se è vero che chi la doveva custodire ne è diventato parte attiva.

C’è un amministratore giudiziario oggi indagato per concorso esterno e peculato aggravato, e questo da solo basterebbe a far suonare un campanello: uno solo, ma forte.  

Eppure il punto non è neanche lui, già... il punto è che qualcuno, all’interno del Tribunale - non di Messina, bensì di Catania - avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto leggersi, una decina di anni fa, le segnalazioni che qualcun altro aveva depositato (per non voler aggiungere "protocollato") con cura, anche con timore, ma con la speranza che qualcosa cambiasse.

Non erano voci, non erano sospetti: erano documenti, date, firme, ma soprattutto circostanze concrete, inequivocabili.

Se qualcuno quei documenti li avesse letti e, soprattutto, li avesse presi sul serio, oggi non saremmo qui a sentire un Pm chiedere pene così alte per reati che, di fatto, potevano essere interrotti molto prima.

Chissà se, in questo momento, quel “qualcuno” - di cui si conosce nome e cognome, anche se non serve, in questa sede, scriverli - non stia controllando il telefono più del solito, non stia ripensando a scelte fatte o dovrei dire... non fatte, non stia misurando il rischio che la persona ora sotto processo, decida di parlare, non solo di ciò che ha fatto, ma di ciò che è stato permesso. 

Non è fantasia, non è suggestione: è una possibilità che conoscono bene coloro che hanno seguito la vicenda fin dall’inizio, ne conoscono i passaggi, le omissioni, i silenzi che pesano più delle parole.

E forse -  per ora solo forse - c’è chi oggi, pur stando dentro le istituzioni, non sa più come muoversi: ogni passo rischia di incrinare non un singolo errore, ma un intero sistema fatto di sguardi bassi, di fascicoli chiusi in un cassetto, di silenzi scambiati per prudenza e di scelte giustificate come “opportunità”, ma che forse hanno radici più opache.

Chissà se una luce più insistente - quella, per dire, di un’inchiesta condotta con metodo e pazienza, lontana dal clamore ma vicina ai documenti - potrebbe finalmente illuminare quei meandri in cui la legalità si perde non per violenza, ma per omissione.
Non serve chissà quale rivelazione: a volte basta qualcuno disposto a voltare pagina, davvero, e a leggere fino in fondo.

C’è chi ieri ha parlato di estorsione, di violazione della pubblica custodia, di sottrazione di beni sequestrati - tutti reati gravissimi - e lo ha fatto con chiarezza, con rigore.

C’è chi ha confermato che l’impresa, nonostante la confisca, non ha mai smesso di operare sotto certe logiche... 

C’è chi ha ascoltato, ieri, le arringhe della difesa, e chi ha notato l’assenza - significativa - di due parti civili che avrebbero dovuto esserci: l’Agenzia nazionale per i beni confiscati e il Comune. 

E c’è chi, leggendo tutto questo, non prova rabbia, non prova soddisfazione, ma un senso profondo di stanchezza morale: perché non è la prima volta, non sarà l’ultima... e ogni volta si ripete lo stesso schema. La denuncia arriva, qualcuno la riceve, nessuno la legge fino in fondo, oppure preferisce insabbiarla nell’ultimo cassetto. 
Finché non è troppo tardi, fintanto che improvvisamente non diventa notizia, dopo che arriva un’inchiesta giudiziaria, un processo, sì... per ricordare ciò che un semplice atto di attenzione avrebbe potuto evitare.
 
Ma forse - mi viene ora da chiedere - andava bene così?

domenica 14 dicembre 2025

Quando la corruzione non è anomalia. È metodo! (Seconda parte)

Ciò che da circa trent'anni si sta compiendo in questo nostro Paese è chiaro e ahimè terribile: si sta selezionando una classe di peggiori, perché la disonestà diventa strategia vincente!

Questo processo - evidente a tutti - ha di fatto degradato in modo visibile la qualità della vita, dei servizi, della democrazia stessa, normalizzando l’illegalità, sì... fino a farla apparire giustificabile.

È quasi diventata una componente strutturale del nostro vivere, ma non solo: questa normalizzazione è come un veleno che genera rassegnazione, che fa credere che le mafie, la corruzione, l'illegalità diffusa siano qualcosa d'invincibile, e ciò serve esclusivamente affinché essi possano prosperare proprio grazie a questo clima di indifferenza e disincanto, nella complicità silenziosa di chi pensa solo al proprio minuscolo orticello, lo stesso che frutta indegno vantaggio.

Come dicevo nella prima parte di questo post, la mia terra è quarta in questa classifica, ma in fondo è solo un dettaglio in un malessere che è nazionale, che dal Sud arriva al Centro e al Nord, con nomi e modalità forse diverse, ma con la stessa, identica sostanza: l’interesse privato che divora il pubblico, il bene comune che si riduce a merce di scambio.

Non è un’anomalia, ci viene detto con forza. È un sistema che si adatta, si evolve, usa tecniche sofisticate o si nasconde dietro leggi fatte su misura, conflitti di interesse tollerati, relazioni opache. La questione, comprenderete, va ben oltre la singola mazzetta, il singolo concorso truccato.

Sono all’opera meccanismi che consolidano un potere irresponsabile, che catturano lo Stato per trasformarlo in una risorsa per pochi. Invocare pene più severe non basta (d'altronde, basti osservare le riforme ridicole che compiono sulla giustizia, per comprendere come nessuno abbia realmente interesse a contrastare questa condizione...), serve un patto diverso, un cambio radicale di mentalità, sia da parte dei cittadini, ma soprattutto nelle istituzioni (solitamente i primi ad aver beneficiato, da generazioni, di questo stato di fatto)!

Serve smetterla di pensare che così vadano le cose e che non vi sia altra possibilità che adeguarsi o lamentarsi a bassa voce, sì... sapendo di poter anche voi, un giorno, essere nella posizione di chiedere quel favore, quella raccomandazione che vi sembra l’unica via per sopravvivere o per farcela!

Le caste, le consorterie, le associazioni a delinquere, i gruppi di potere non sono un destino ineluttabile. Sì... sono il frutto di scelte, di omissioni, di connivenze, scelte che qui, nella mia Sicilia, ma non solo, sembrano essere state fatte così tante volte da aver creato una strada maestra, percorsa ormai senza più vergogna.

E allora, mentre leggo di summit per le nomine, di giro di telefonate, di affari che vanno dalla sanità alla cultura, il mio dubbio (ma ormai da troppo tempo dubbi non ne ho...) si trasforma in una domanda scomoda, anche ahimè per molti miei amici, conoscenti, molti di questi miei conterranei: quando smetterete di essere ancora complici, anche solo per inerzia, di tutto questo?

Già... quando decideremo che il bene di tutti, il servizio che funziona, la promozione meritata, valgono più della bustarella, della raccomandazione, del favore ottenuto per sé o per i propri cari?

Sì... so bene che la risposta, purtroppo, non la trovo in nessuna classifica.

Ed allora, se qualcosa non vi quadra, in un cantiere, in un bando, in un condominio: segnalatelo! Come ripeto da sempre: non serve essere eroi, basta non voltarsi dall’altra parte.

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