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lunedì 21 luglio 2025

La Mafia? Non spara più, ma rilascia fattura...

Già, la mafia non spara più come una volta, ma uccide ancora, silenziosamente, con metodi meno appariscenti eppure infinitamente più devastanti.

Uccide le imprese oneste, strangola l'economia reale, soffoca lo sviluppo di intere comunità, impedendo che il merito possa aprire la strada a chi lavora con dignità e trasparenza .

 E mentre molti si compiacciono del fatto che non si vedano più sparatorie per strada, non si accorgono che il cancro si è semplicemente spostato dentro i bilanci delle aziende, nei bandi d'appalto, nelle assunzioni pilotate, negli appalti truccati...

La mafia di oggi non ha bisogno di mostrare la pistola, perché ha imparato a indossare la giacca, a parlare con tono pacato, a firmare contratti, a sedersi ai tavoli delle trattative dove si decidono investimenti milionari.

Il suo restyling non è purificazione, ma travestimento! 

Si è ripulita in superficie, ha cancellato l’immagine cruenta del passato, ma dentro continua a marcire dello stesso veleno che da decenni corrompe le coscienze, piega le volontà, comprime la libertà.

Parliamo di un’infezione che non ha mai smesso di diffondersi, anzi, si è adattata, ha mutato forma, infiltrandosi nel tessuto produttivo del paese con una capacità di mimetismo impressionante.

Non urla più minacce al telefono, ma impone condizioni attraverso intermediari rispettabili, uomini di fiducia che operano all’ombra di società regolari, cooperative modello, consorzi virtuosi.

E così, mentre le forze dell’ordine celebrano arresti importanti, la rete continua a espandersi, silenziosa, capillare, radicata in ogni settore che genera reddito e influenza.

Basti pensare alla provincia di Trapani, dove anche dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, non si è affatto spenta la presenza mafiosa, al contrario, negli ultimi nove mesi la procura nazionale ha emesso settanta misure interdittive antimafia, un numero che non lascia spazio a illusioni: la mafia non è sconfitta, si è riorganizzata.

La mafia è ovunque, in particolare nei cantieri, nei centri logistici, nelle strutture ricettive, nelle filiere agricole, nei progetti energetici, portando con sé quel sistema di potere parallelo che decide chi lavora, chi vince gli appalti, chi viene escluso.

Ma d'altronde il legame con certi segmenti del potere politico e istituzionale non si è mai spezzato, anzi, si è fatto più sottile, più difficile da individuare, ma certamente solido e sono proprio quei referenti istituzionali a farsi promotori delle collusioni e di quel diffuso malaffare.

La Commissione d'inchiesta sulla mafia e la corruzione lo ha ribadito con chiarezza: la mafia, da nord a sud, ha sempre avuto una particolare abilità nel penetrare l’economia locale e difatti non si limita a estorcere, ormai produce, gestisce, investe, ricicla, già... si presenta come imprenditore serio, attento alle normative, sensibile all’ambiente e al territorio.

Ma dietro quei bilanci in ordine, dietro quelle certificazioni ambientali, dietro anche quelle donazioni benefiche sociali, si nasconde un vero e proprio sistema di controllo basato sul clientelismo, favoritismo, costrizione e compravendita del voto.

E ciò che rende tutto ancora più grave è che questa presenza non è più percepita come anomalia, ma è spesso vista come normalità, quasi una condizione inevitabile per sopravvivere in certi contesti.

Perché sono tanti, troppi, coloro che accettano quel sottobosco di vantaggi immorali: la bustarella mensile, il posto di lavoro garantito a un parente senza titoli, l’appalto assegnato senza gare vere, la protezione contro le ispezioni.

E ogni volta che qualcuno accetta un privilegio illegittimo, anche se lo fa per disperazione o per paura, diventa complice inconsapevole di un sistema che soffoca il futuro.

Ho letto in questi giorni quanto riportato dell'ex presidente della Commissione Cracolici che ha colto nel segno quando ha dichiarato: i mafiosi temono due cose, la galera e la perdita del patrimonio, certo, ma soprattutto temono di perdere la reputazione.

Perché la loro forza non sta soltanto nel denaro o nell’intimidazione, ma nella credibilità sociale che riescono a costruirsi. Sono considerati uomini di parola, imprenditori capaci, benefattori del paese, mentre in realtà sono accumulatori di potere illegittimo, che usano la legalità come maschera per perpetuare il dominio.

Ed è proprio qui che risiede il pericolo maggiore: quando la mafia non viene più vista come nemica, ma come parte integrante del sistema, quando il cittadino comune smette di indignarsi e comincia a dipendere dai suoi meccanismi perversi!

Ed è per questo che combatterla richiede molto più delle retate o dei processi, sì... richiede di una rivoluzione culturale che finora non c'è stata, di un rifiuto netto e quotidiano ad ogni compromesso, di una necessaria educazione alla legalità che parta dalle scuole, ma soprattutto si sviluppa dalle famiglie e nei luoghi di lavoro.

Perché finché ci sarà qualcuno disposto a scambiare la propria dignità con un vantaggio effimero, la mafia continuerà a respirare, a crescere, a prosperare.

Ma soprattutto, finché la società civile non farà sentire forte e chiaro il proprio "NO", essa resterà viva, non nelle strade, ma nei palazzi, nei conti bancari, nei progetti che dovrebbero servire il bene comune e invece alimentano quel loro impero di falso progresso!

domenica 20 luglio 2025

Basta prenderci per il culo! Gaza non è un ‘danno collaterale’, è un massacro!

Le strade di Gaza sono ancora macchiate di sangue, mentre il mondo sembra voltarsi dall’altra parte.

Oggi il bilancio delle vittime si è aggravato ancora, con decine di persone uccise mentre attendevano un sacco di farina, un po’ d’acqua, un gesto di sopravvivenza. Trenta morti, sessanta feriti, numeri che si aggiungono a una lista già troppo lunga, mentre i corpi giacciono abbandonati sull’asfalto, testimoni muti di una tragedia che non conosce tregua. Poco lontano, altri due civili sono stati uccisi da un bombardamento, vicino a un centro di assistenza che dovrebbe essere un rifugio, non un bersaglio.

Dal 7 ottobre a oggi, i numeri sono diventati una litania straziante: 58.000 morti, 150.000 feriti, 900 persone uccise mentre cercavano cibo, 6.000 feriti nella disperata lotta per un pasto. Ma il vero orrore non è solo nei proiettili o nelle bombe, è nella fame che si allarga come un’ombra silenziosa. Un milione di bambini rischia di morire di stenti, mentre il cibo viene bloccato, mentre gli aiuti vengono distrutti, mentre il mondo discute, tergiversa, guarda altrove.

Eppure, qualcuno continua a parlare di “danni collaterali”, di obiettivi militari, di necessità strategiche. Ma come si può definire “collaterale” la morte di un bambino che non ha mai impugnato un fucile? Come si può giustificare l’assedio di un intero popolo, colpevole solo di essere nato dalla parte sbagliata del confine? Gaza non è un campo di battaglia, è una prigione a cielo aperto, dove i civili sono intrappolati tra due fuochi: da un lato, i raid che non distinguono tra militari e famiglie in fuga, dall’altro, le milizie che li usano come scudi, condannandoli a una morte certa.

Ma questa non è una guerra tra due fazioni, è una strage di innocenti. I palestinesi non hanno scelto questo conflitto, lo subiscono, giorno dopo giorno, senza via di fuga. Se cercano di scappare, vengono colpiti. Se restano, muoiono di fame. Se alzano la voce, vengono zittiti. E mentre i potenti del mondo discutono di alleanze, di equilibri geopolitici, di interessi economici, Gaza affonda in un bagno di sangue che potrebbe essere fermato, se solo ci fosse la volontà di farlo.

È ora di smetterla con le scuse, con i giochi di potere, con la complicità del silenzio. Gli Stati devono agire, non con dichiarazioni di facciata, ma con azioni concrete, con sanzioni, con pressioni reali, con la ferma decisione che nessuna strategia militare può giustificare la morte di migliaia di civili. Perché se oggi è Gaza a bruciare, domani potrebbe essere un’altra città, un altro popolo, un’altra generazione sacrificata sull’altare della guerra. Il tempo delle mezze misure è finito. Gaza non può più aspettare.

sabato 19 luglio 2025

33 anni di bugie! Perché la strage di Borsellino è ancora un segreto di Stato?

Era il 19 luglio 1992 quando una bomba di inaudita violenza squarciò il silenzio di via D'Amelio a Palermo, spegnendo per sempre le vite di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta. 

Trentatré anni dopo, quel boato continua a riecheggiare nelle coscienze di chi cerca ancora verità, nonostante i depistaggi, le omissioni e i silenzi istituzionali che hanno avvolto questa strage in una fitta nebbia. 

Mentre le commemorazioni ufficiali si susseguono con il loro rituale di retorica e ipocrisia politica, c'è una voce che rompe il coro ben orchestrato dell'oblio: quella di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, che con coraggio indica senza mezzi termini quelle che furono - a suo giudizio - le cause acceleranti della strage.

Quell'intervista rilasciata ai francesi il 21 maggio 1992 non fu un episodio casuale, ma un atto di straordinaria lucidità e determinazione. In quelle dichiarazioni, Paolo Borsellino fece i nomi di Vittorio Mangano, Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi, tessendo un filo che legava il potere mafioso a quello politico e imprenditoriale. 

Un collegamento pericoloso, scomodo, che forse rappresentò il punto di non ritorno. Salvatore Borsellino lo ricorda con amarezza: suo fratello sapeva di aver scavato troppo in profondità, di aver sollevato un velo su connivenze che molti preferivano lasciare sepolte. Eppure, non si tirò indietro, consapevole che la giustizia non può essere esercitata a metà.

C'è un altro tassello che completa questo tragico puzzle, sempre secondo il fondatore del movimento Agende Rosse. Quel discorso tenuto da Paolo Borsellino alla biblioteca comunale di Palermo, in cui si dichiarò pronto a testimoniare sull'attentato di Capaci, fu l'ultimo atto di una sfida lanciata alle forze oscure che già tramavano nell'ombra. 

Non aveva mai indagato direttamente su Berlusconi e Dell'Utri, eppure la sua voce rappresentava una minaccia troppo grande per essere ignorata. L'archiviazione dell'inchiesta nel 2001 da parte del gip di Caltanissetta non è che l'ultimo capitolo di una storia fatta di verità negate e giustizia incompiuta.

Oggi, mentre il Paese si prepara a un'altra commemorazione formale, è tempo di rompere il cerchio del silenzio. Le nuove generazioni meritano di conoscere non solo i nomi delle vittime, ma anche quelli dei mandanti e dei complici che ancora camminano liberi. 

Il messaggio di Salvatore Borsellino è un faro in questa notte di omertà istituzionale, un invito a non accontentarsi delle verità ufficiali ma a continuare a scavare, a chiedere, a pretendere risposte. Perché la storia d'Italia non potrà mai essere riscritta finché questi nomi rimarranno nascosti nell'ombra, protetti da quel sistema di potere che ha trasformato le stragi del '92 in una ferita ancora aperta.

Forse un giorno, quando i fili di questa intricata matassa verranno finalmente dipanati, capiremo perché trentatré anni non sono bastati a fare piena luce su via D'Amelio... 

Fino ad allora, restano le parole di Salvatore Borsellino, ultimo custode di una memoria scomoda ma necessaria, e l'impegno di chi non si rassegna a vedere la giustizia tradita. 

Perché continuare a commemorare non basta più: è tempo di verità, senza se e senza ma!


venerdì 18 luglio 2025

SIRIA: Medio Oriente in fiamme: il conflitto si espande, mentre la tregua resta un’illusione.

Per il secondo giorno consecutivo, i cieli di Sweida sono solcati da droni israeliani, mentre la cittadina siriana brucia ancora tra gli scontri tra drusi, beduini e forze governative.

Le dichiarazioni ufficiali parlano di “monitoraggio” e “preparazione a diversi scenari”, ma intanto i raid non si fermano, e il bilancio delle vittime cresce senza sosta.

E così, mentre dodici paesi annunciano un embargo sulle armi, segnando una svolta nella pressione internazionale, l’esercito siriano inizia a ritirarsi da Suweida.

Ma è una tregua fragile, interrotta dal boato degli attacchi israeliani a Damasco, che come abbiamo visto ieri, hanno colpito persino il palazzo presidenziale.

Sono oltre duecentocinquanta i morti in pochi giorni, e il confine tra Israele e Siria è diventato un caos di profughi e miliziani, con drusi che attraversano in entrambe le direzioni, disperati.

Le condanne si moltiplicano, dall’Iran all’Unione Europea, mentre gli Stati Uniti cercano di mediare una de-escalation che sembra essere sempre più lontana.

A Sweida, i leader drusi negano qualsiasi accordo con il governo, e la violenza continua a mietere vittime. Si parla di oltre trecento morti, in una spirale di odio settario che nessun cessate il fuoco riesce a fermare.

Ed allora Israele ha iniziato a spostare una parte delle sue truppe dislocate su Gaza verso il confine siriano, rafforzando così la propria presenza militare mentre i missili continuano a colpire obiettivi strategici.

“Non attraversate il confine”, avvertono le autorità israeliane ai drusi, ma come potete immaginare, la disperazione è più forte degli ordini. Intanto, l’Ue chiede il rispetto della sovranità siriana, ma le parole sembrano vuote, già… gettate al vento, mentre le immagini di distruzione che arrivano da Sweida e Damasco sono concrete.

Niente si placa e ancor meno si ferma.

Il conflitto che il Presidente Trump aveva annunciato come agli sgoccioli, si sta viceversa ( per come avevo anticipato) sempre di più estendendo, coinvolgendo nuovi territori, nuove comunità e ahimè nuove vittime.

E così mentre tutti i leader parlano di “pace”, di “transizione”, di “soluzioni”, il Medio Oriente brucia, ancora una volta, senza vederne più la fine…

mercoledì 16 luglio 2025

Quando i segreti in questo nostro Paese fanno storia!!!

Trentatré anni dopo, il silenzio che avvolgeva una pagina oscura sembra incrinarsi sotto il peso di un documento ritrovato, come se il tempo avesse deciso di consegnarci ciò che qualcuno aveva sperato di tenere nascosto per sempre. 

Un foglio dimenticato, un verbale che racconta di incontri, di voci, di dettagli mai approfonditi, prova che sin dall’inizio c’erano elementi in grado di cambiare la direzione delle indagini. Ma non fu così. 

Già... chi poteva agire non lo fece e chi doveva ascoltare preferì ignorare... 

E mentre si costruiva una verità ufficiale, comoda e rassicurante, altre tracce venivano cancellate, archiviate, occultate con cura.

Un magistrato, poco prima della sua fine violenta, aveva cercato di ottenere una delega per interrogare un pentito. Non era una richiesta qualsiasi. Quell’uomo parlava di collegamenti tra organizzazioni estremiste e ambienti mafiosi, di accordi stretti al riparo da occhi indiscreti. Voleva portare quelle informazioni ai colleghi che indagavano su una strage che ancora oggi fa dibattere. 

Ma sappiamo bene come finii... non ebbe il tempo di completare il suo lavoro. Il verbale rimase lì, abbandonato tra carte che nessuno volle leggere fino in fondo. Perché? Chi decise che quelle rivelazioni non meritavano attenzione?

Eppure, negli anni, si è sempre faticato a far emergere certe connessioni. Si parlò di “pista nera”, ma fu liquidata come una teoria inconsistente, quasi una fantasia. Altri, invece, ci credettero. Lo stesso pentito insistette più volte, insieme alla sua compagna, anch’essa messa in discussione, sospettata non per le prove prodotte ma per chi le pronunciava. Fu accusato di mentire, lei di suggestionarlo. E quelli che avrebbero dovuto ascoltarlo, che forse ne conoscevano i segreti, fecero orecchie da mercante. Oggi però quel verbale è tornato alla luce grazie all’ostinazione di un avvocato che non ha accettato il silenzio come risposta. 

E allora ci si chiede: perché quelle parole furono ignorate? Perché chi le raccolse finì sotto processo, mentre chi le avrebbe potute usare per scavare più a fondo non fu mai davvero chiamato a rispondere?

C’è un filo che lega tutto, invisibile ma resistente, che collega depistaggi, omissioni, incontri notturni e luoghi sospetti. Il pentito raccontò di un boss che controllava un territorio preciso, di persone che frequentavano ambienti diversi ma con interessi convergenti, di sopralluoghi mai registrati, di movimenti anomali mai indagati. Parlò anche di un politico, non tanto per nome quanto per rapporto personale con uno dei protagonisti di questa storia. Di un uomo che, a scuola, aveva condiviso banchi e ideali con il magistrato. Che strano destino, no? Vedere intrecciarsi vite così distanti in superficie ma collegate da fili che affondano nel profondo. E proprio in quei giorni, il magistrato confessò a qualcuno di sentirsi tradito da un amico. Un’amarezza improvvisa, una frase buttata lì, come un barlume di consapevolezza. Ma nessuno gli chiese mai chi fosse quel traditore. Nessuno volle sapere.

Forse perché certe domande, una volta poste, non lasciano spazio alle bugie. Forse perché scoprire troppo avrebbe significato smontare equilibri precari, mettere in discussione ruoli e fedeltà. E allora si preferì tacere. Si preferì processare chi parlava, piuttosto che chi sapeva. Si preferì archiviare, piuttosto che indagare. Ma i documenti, quando sono veri, non muoiono mai. Aspettano solo il momento giusto per riemergere. E oggi, quel verbale parla chiaro. 

Per cui... non possiamo fingere di non aver capito. Possiamo solo chiederci cosa altro è stato nascosto, quanti altri nodi non sono stati sciolti, quante verità hanno pagato il prezzo dell’omertà. In questo paese, purtroppo, i segreti sono sempre stati più numerosi delle verità. E forse, per qualcuno, continueranno a esserlo.

martedì 15 luglio 2025

L’azione quotidiana dei Carabinieri di Paternò per un territorio più sicuro.

Chi mi conosce sa bene quanto io tenga al controllo del territorio e a quanto ritenga fondamentale questa presenza per contrastare fenomeni come la corruzione e il malaffare. 

Non è una questione recente, anzi, da tempo ho più volte sottolineato come in alcune regioni del centro Italia si respiri un senso di sicurezza diverso, grazie alla costanza dei controlli da parte delle forze dell’ordine. 

In posti come la Toscana o l’Umbria capita spesso di incontrare pattuglie lungo le strade, mentre qui, nella mia isola, sembra che il territorio venga lasciato troppo spesso senza quel minimo di attenzione necessaria per mantenere un certo livello di ordine.

Inizialmente pensavo fosse solo una questione numerica, come se non ci fossero abbastanza uomini disponibili per garantire una reale capillarità sul territorio. Poi però ho cominciato a riflettere su altri fattori, come ad esempio le particolarità del contesto locale, quelle situazioni specifiche che purtroppo favoriscono il proliferare di attività illecite. Frodi, truffe, raggiri: sono tutti tasselli di un mosaico preoccupante che ormai conosciamo bene. 

E se è vero che al nord si è sviluppata una sorta di specializzazione nel fare affari sporchi in modo meno appariscente, magari attraverso schemi finanziari poco trasparenti o rapporti opachi tra politica ed economia, al sud restano radicate dinamiche illegali più visibili e violente, come estorsioni, traffico di sostanze stupefacenti, prostituzione e contraffazione.

Ma torniamo al punto principale, perché è chiaro che il problema non sta tanto nel numero degli operatori, quanto nell’utilizzo che se ne fa. Ho sempre avuto l’impressione che nelle nostre zone fosse quasi impossibile trovare una pattuglia in giro, come cercare un ago in un pagliaio. Questa sensazione di abbandono mi ha spinto più volte a denunciare una mancanza di controllo che considero una vera e propria falla nel sistema di sicurezza. L’assenza dello Stato sul territorio non è solo un vuoto operativo, ma diventa terreno fertile per chiunque voglia muoversi indisturbato nell’illegalità.

Ora però qualcosa sembra muoversi e non posso che accogliere con favore l’aumento dei servizi di controllo. Resto comunque convinto che sia ancora poco rispetto alle esigenze reali del nostro territorio. Soprattutto in certi punti strategici, come i traghetti e gli imbarchi dei porti, dove ogni giorno transitano centinaia di persone e mezzi, sarebbe indispensabile una maggiore presenza militare. Un presidio continuo e mirato potrebbe fare davvero la differenza. Basterebbero pochi mesi di azione serrata per ottenere risultati tangibili, non solo in termini di repressione, ma soprattutto di prevenzione. Ogni controllo effettuato, ogni persona identificata, ogni veicolo ispezionato genera informazioni utili, dati che possono rivelarsi decisivi per inchieste in corso o per individuare legami finora nascosti.

Ed è proprio in questa direzione che si è mossa l’operazione dei Carabinieri della Compagnia di Paternò a Motta Sant’Anastasia, coordinata dal Comando Provinciale di Catania. Si è trattato di un’attività intensa e ben organizzata, volta a contrastare la criminalità diffusa attraverso una serie di interventi mirati. Pattugliamenti per le vie principali, controlli su strada, perquisizioni, verifiche nei locali commerciali. I numeri parlano da soli: 118 persone controllate, 49 delle quali con precedenti penali, 55 veicoli ispezionati, diverse sanzioni elevate per infrazioni al codice della strada, tra cui guida senza casco o uso del telefono al volante. Non solo, tra le persone fermate ce n’è stata una trovata in possesso di marijuana, immediatamente segnalata alla Prefettura.

Questo tipo di attività dimostra che quando c’è volontà e organizzazione, i risultati arrivano. E non si tratta solo di arresti o multe, ma di una percezione diversa del controllo, di una vicinanza concreta alle persone oneste che vivono e lavorano in questi luoghi. Il territorio va ripreso, strada dopo strada, quartiere dopo quartiere. Il controllo non è repressione fine a sé stessa, ma deterrenza. È far capire a chi agisce nell’ombra che non può più contare sull’indifferenza o sull’assenza. Ed è proprio questo, per me, il primo passo verso una legalità reale, quella che ancora fatica a radicarsi, ma che finalmente sembra essere diventata una priorità per qualcuno.

lunedì 14 luglio 2025

Pier Silvio Berlusconi e il sospiro di Forza Italia. Tra eredità, sciacalli, cicale e quel 'perché no' che sa tanto di déjà-vu.

Le parole di Pier Silvio Berlusconi hanno riaperto un dibattito che sembrava sopito, ma che in realtà covava sotto la cenere di Forza Italia. 

Ed allora, mentre presentava i nuovi palinsesti Mediaset, ha parlato con la stessa passione che suo padre, il Cavaliere, riversava nei comizi, mescolando critiche costruttive e ambiguità strategiche... 

"Bravissimi Tajani, Gasparri, Dalla Chiesa, ma servono leader e volti nuovi", ha detto, lasciando intendere che "Forza Italia", senza un ricambio generazionale, rischia di restare intrappolata nel passato. 

Ed ecco quindi che a queste parole mi è subito tornato in mente ciò che Oriana Fallaci scriveva nel suo libro "La rabbia e l'orgoglio": "Un vero leader deve saper guardare oltre se stesso", quasi anticipando quello che oggi Pier Silvio sembra voler fare, seppur con prudenza.

Ad esempio, la sua freddezza sullo "ius scholae" ha scatenato reazioni a catena. "Non è una priorità", ha dichiarato, mettendo in difficoltà Tajani e facendo esultare Salvini, che ha subito archiviato la questione come "partita chiusa". 

Eppure, Pier Silvio non ha rinnegato del tutto il principio, anzi, ha sottolineato che "i diritti vanno difesi sempre", dimostrando una visione più pragmatica che ideologica. D'altronde è proprio questo che manca da sempre alla nostra politica: "la capacità di distinguere tra urgenze e battaglie di principio", già... come suggeriva Fallaci quando denunciava l’incapacità della classe dirigente di affrontare le sfide reali.

Ma è stato il suo accenno a un possibile ingresso in politica che ha catturato la mia attenzione. "Ho 56 anni, mio padre ne aveva 58 quando scese in campo", ha detto, con un sorriso che sembrava già preparare il terreno a un futuro annuncio... 

Tajani, da abile diplomatico, ha subito colto l’occasione: "Sarebbe un fatto positivo", ma io, ascoltando quelle parole - mi dispiace dirlo - non ho avvertito minimamente quel profondo senso civico che un cittadino comune dovrebbe manifestare per il proprio Paese, già nulla di quanto la Fallaci scriveva sul coraggio di prendere posizione o su quel "dovere civile" che spinge alcuni a uscire dall’ombra quando il momento lo richiede.

Pier Silvio, ovviamente, resta cauto: "Oggi non ho intenzioni concrete", ha precisato, quasi a voler temperare le aspettative, eppure, quel suo elogio alla Meloni – "ha messo su il miglior governo d’Europa" – suona come un’apertura, un modo per posizionarsi senza bruciarsi. 

Già... potremmo paragonarlo a quello stesso gioco che faceva suo padre, tra provocazioni calcolate e ritorni di fiamma studiati. Ed è lo stesso gioco che la Fallaci sezionava con chirurgica ironia, sì... mentre osservava le dinamiche malate del potere nel nostro paese, ingabbiato nella sua ipocrisia e ipnotizzato dal carosello di "cicale e sciacalli" — definizione perfetta, spietatamente calzante.

Penso ad esempio a tutti coloro che, nella parte dello sciacallo, hanno saputo trasformare stragi e tragedie in scalini per il potere, seguiti da quella combriccola delle cicale — puzzolente sottobosco di lacchè servili, ruffiani d’accatto, vigliacchi con la bava alla bocca e voltagabbana pronti a vendersi — che ha fatto loro da complici in quell'orgia di servilismo e opportunismo!

D’altronde, come scriveva la Fallaci: "In Italia non mancano mai le cicale, che strepitano senza costrutto, e gli sciacalli, pronti a divorare le carcasse del potere!".

Certo, forse oggi come allora, c’è bisogno di qualcuno che sappia scuotere il sistema! Nello scrivere questo post mi è venuto da ridere, sì... perché ho pensato per un momento che il sottoscritto avesse — come il cavaliere — l’età perfetta per scendere in politica, ben sapendo che non potrei mai farlo: risulterei scomodo e, soprattutto, non ricattabile!

E questo, per chi si nutre di politica (anzi, no, precisiamo: per chi ci sguazza da generazioni...) e di quel marciume sistemico che profuma di potere, la mia presenza sarebbe di fatto inaccettabile. Perché l’ipocrisia ha le sue gerarchie: c’è chi sopravvive nell’ombra dei compromessi, chi si ingrassa con gli intrighi, chi l’etica la usa come tovaglia per pulirsi la bocca.

E in un mondo così, persino un briciolo di pulito… sarebbe di per se una provocazione.

Ed infine consentitemi di riprendere quella riflessione sul rapporto con la gente: "La passione per le persone normali mi travolge", parole nelle quali vi è racchiusa 0l’essenza di una leadership che, se mai dovesse concretizzarsi, non potrà essere un semplice riflesso del passato.

Perché, come scriveva Fallaci, "la politica è anche compromesso, è trattativa", ma senza quella passione autentica, resta solo un gioco di potere.

E chissà... se forse non è proprio per questo che Pier Silvio stia aspettando il momento giusto per dire la sua, sì... senza alcuna fretta, ma senza neppure rinunciare alla sfida.

domenica 13 luglio 2025

Dalle macerie alla rinascita: Gaetano Vecchio e la sfida di un'Ucraina sostenibile

Ricordo bene quel post che scrissi tempo fa, intitolato Odessa, la luce che la guerra non potrà spegnere! - https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/06/odessa-la-luce-che-la-guerra-non-potra.html - in cui cercavo di raccontare una città ferita ma viva, attraversata da dolore eppure ancora capace di guardare avanti. 

Quelle strade, un tempo affollate di vita quotidiana, oggi segnate dal fragore delle esplosioni, sembrano incarnare una verità più grande: quella di un popolo che resiste, nonostante tutto.

E proprio quel senso di resilienza ritorna oggi mentre ascolto le parole del presidente dell’Ance, Gaetano Vecchio, che con chiarezza ha indicato una direzione precisa per il lungo cammino della ricostruzione. 

Secondo Vecchio, essa dovrà essere anzitutto orientata a una trasformazione sostenibile, per costruire un futuro più verde, resiliente e moderno. Non si tratta solo di alzare nuovamente muri o riparare strade distrutte, ma di ridisegnare un Paese intero, immaginandone uno nuovo, più giusto e più adatto ai tempi che verranno.

Parlare di ricostruzione significa allora andare ben oltre i mattoni e il cemento, come lui stesso ha ricordato. È parlare di un futuro europeo, di un’Ucraina che non debba limitarsi a tornare com’era, ma che possa trasformarsi in qualcosa di meglio, di più avanzato e soprattutto più rispettoso dell’ambiente e dei bisogni reali delle persone. 

Questo processo richiederà inevitabilmente una forte collaborazione tra imprese europee e realtà locali, perché solo lavorando insieme si possono mettere in rete competenze tecniche e conoscenze radicate nel territorio, valorizzando ciò che esiste e costruendo soluzioni concrete, durature e adeguate.

L’Europa, d’altronde, non può fermarsi alla solidarietà durante il conflitto, deve spingersi fino a sostenere il lungo e complesso percorso della ricostruzione. Le cifre sono enormi, quasi incredibili: 506 miliardi di euro stimati per rimettere in piedi un Paese devastato. Di questi, 81 miliardi riguardano l’edilizia residenziale, 75 i trasporti, 12,6 lo smaltimento delle macerie. Numeri che fanno paura, certo, ma anche progetti che aprono la mente e il cuore a un domani possibile.

E non si tratta solo di quantità. Piero Petrucco, presidente della FIEC, ha ricordato con forza che chi lavora nel settore delle costruzioni non è semplicemente un tecnico o un operaio, ma un abilitatore della ripresa, della coesione sociale, della capacità stessa del Paese di tenersi insieme. Ricostruire, quindi, non è solo un atto materiale, ma anche morale, politico, umano. Significa ricostruire fiducia, comunità, istituzioni, tessuto sociale.

La conferenza URC2025 svoltasi a Roma ne è stata una dimostrazione tangibile, riunendo leader internazionali, aziende e rappresentanti delle istituzioni attorno a un’unica idea: che la distruzione possa trasformarsi in opportunità, che la guerra lasci il posto a una pace costruita con le mani, con gli strumenti, con la volontà di fare meglio di prima. Il messaggio lanciato è chiaro: l’Ucraina potrà essere libera, prospera, rinnovata non solo nelle sue strutture fisiche ma dentro sé stessa, nella sua identità profonda.

Investire nell’Ucraina, come si è detto, è investire in noi stessi, perché ogni conflitto che esplode lontano finisce sempre per toccarci da vicino. Mentre accordi si stringono tra aziende italiane e ucraine, e nasce un nuovo fondo europeo per accompagnare questo processo, ci si muove già per preservare quei luoghi e quei simboli che raccontano la storia e l’anima di un popolo.

Sì, la strada è lunga, disseminata di ostacoli e incertezze, ma penso a quando anch’io, da giovane, arrivai ad Odessa per lavoro e restai colpito da quanto potesse offrire quel Paese, nonostante i suoi problemi. Oggi, come allora, credo che l’Ucraina abbia davanti a sé una possibilità vera, se solo si saprà cogliere questa occasione con coraggio e visione.

Perché, come fecero tanti Paesi dopo la Seconda Guerra Mondiale, anche l’Ucraina può rialzarsi. Deve farlo. E io non posso che tornare con il pensiero a quelle pagine scritte mesi fa, dove dicevo che Odessa, con tutta la sua forza e bellezza, merita di rinascere. Perché nessuna guerra, nessuna bomba, potrà mai cancellare la luce che brilla negli occhi di chi non si arrende.

sabato 12 luglio 2025

Lo Stato in mano alla mafia: i custodi della legge che hanno svenduto la giustizia!

Un altro giorno, un altro velo che si solleva su quel sottile strato di ipocrisia sotto cui si cela la realtà...

Già... si parla ancora una volta di collusioni, di appalti pilotati, di indagini archiviate con troppa fretta, quasi fosse un copione già scritto e recitato troppe volte. 

E al centro di tutto questo, come sempre, ci sono loro: coloro che avrebbero dovuto vegliare sul rispetto delle regole, garantire trasparenza e giustizia. 

E invece oggi sono lì, tra gli indagati, come parte del problema anziché della soluzione...

Si racconta di documenti che dovevano sparire per sempre, di registrazioni che non avrebbero mai dovuto vedere la luce. Eppure eccole qua, riemerse dopo decenni, come se il tempo non fosse servito a cancellare ma solo a rimandare l’inevitabile. 

Difatti, chi ha deciso che certe verità non meritavano di essere conosciute? E soprattutto, perché qualcuno ha ritenuto che fosse meglio dimenticare?

Intanto le domande si accumulano, pesanti come macigni, mentre le risposte - come sempre in questo nostro Paes abile a celare le verità - continuano a mancare. Si scopre che forse alcune indagini non sono andate fino in fondo, che investigatori e magistrati non hanno collaborato come avrebbero dovuto.

Si fa strada, ancora una volta, l’idea scomoda che qualcosa sia stato deliberatamente lasciato cadere, come se certe tracce fossero troppo pericolose da perseguire.

C’è l'ennesimo pentito che parla, che racconta di accordi, di pressioni, di processi che qualcuno avrebbe voluto sistemare prima ancora che iniziassero. C’è un ex presidente coinvolto, e intorno a lui, un vortice di accuse che sembra non finire mai. Ma il vero dolore, la vera amarezza, arriva quando ti rendi conto che anche chi era chiamato a fermare tutto questo, forse invece ne è stato complice o quantomeno silente testimone.

E allora non puoi più fingere di non capire. Non puoi più pensare che sia solo un caso isolato, un incidente nella macchina dello Stato. Quando chi indossa una toga o una divisa finisce nel registro degli indagati, quando chi dovrebbe rappresentare la legalità ne diventa lo spettro oscuro, allora ogni certezza vacilla.

Restano i dubbi, le domande senza risposta, la fatica di credere ancora in qualcosa o in qualcuno. Resta la consapevolezza amara che forse il sistema non è solo fragile, ma malato dentro e che nessuno, davvero nessuno, può dirsi esente dal peso di questa colpa diffusa. 

venerdì 11 luglio 2025

E' una rete sottilissima, a maglie strette, che prende i pesci piccoli, ma che si rompe quando arrivano quelli grossi!

La corruzione ha molti volti, e oggi voglio raccontarvelo attraverso le parole di uno dei miei autori preferiti: Jo Nesbø.

Il maestro norvegese del noir, celebre per i romanzi con l’ispettore Harry Hole (prossimamente protagonista di un adattamento televisivo), ha saputo svelare come pochi i meccanismi oscuri del potere.

Prendo spunto da "La ragazza senza volto", dove Nesbø tratteggia un dialogo rivelatore. Siamo alla festa di addio di Bjarne Müller, da poco in pensione dopo anni a capo della squadra di Harry. Tra brindisi e battute, accade qualcosa di apparentemente banale: Müller regala al suo ispettore il proprio orologio.

Ecco, è in questo gesto – così semplice eppure carico di significato – che l’autore ci mostra l’essenza della corruzione: sottile, personale, a volte persino commovente. Ma perché proprio un orologio? Partiamo da qui...

Bjarne, devi sapere che gli orologi più costosi del mondo hanno un meccanismo a tourbillon, con una frequenza di 28.000 alternanze all'ora. Per questo sembra che la lancetta dei secondi si sposti con un movimento continuo, e il ticchettio è più intenso che negli altri orologi.

Sono davvero notevoli questi Rolex, sì… ma il marchio Rolex è stato aggiunto da un orologiaio, solo per camuffare quello vero.

Come ben sai... si tratta di un A. Lange & Söhne Lange Tourbillon,  che fa parte di una serie prodotta in 150 esemplari. Sì… la stessa serie dell'orologio che mi hai dato tu. L'ultima volta che un analogo Tourbillon è stato venduto all'asta, il prezzo ha quasi raggiunto i tre milioni di corone… oltre 500.000 Euro!

 Waller annui con un sorriso appena accennato sulle labbra.

 «E' così che vi pagavano?» chiese Harry. «In orologi da tre milioni?» Waller si abbottonò il cappotto e sollevò il bavero: "Il loro valore è più stabile e danno meno nell'occhio delle auto".

Sono meno appariscenti di un'opera d'arte di valore, più facili da contrabbandare del contante e non hanno bisogno di essere riciclati. Inoltre possono essere regalati….Esatto. Cos'è successo? E' una lunga storia, Harry…

 E come molte tragedie, è iniziata con le migliori intenzioni. Eravamo un piccolo gruppo di persone che volevano dare il proprio contributo, aggiustare le cose che uno stato di diritto non era in grado di sistemare. Alcuni sostengono che il motivo per cui così tanti criminali sono in libertà è che il sistema giudiziario è una rete a maglie larghe, ma non è affatto vero.

 E' una rete sottilissima, a maglie strette, che prende i pesci piccoli, ma che si rompe quando arrivano quelli grossi. Volevamo essere la rete dietro la rete, in grado di fermare gli squali.

Del nostro gruppo non facevano parte solo poliziotti, ma anche avvocati, politici e burocrati, consapevoli che la struttura della nostra società, con la nostra legislazione e il nostro sistema giudiziario, non era pronta ad affrontare il crimine organizzato internazionale che ha invaso la Norvegia quando sono stati aperti i confini.

La polizia non aveva l'autorità per giocare con le stesse regole dei criminali, almeno finché la legislazione non fosse stata adeguata. Per questo dovevamo operare nell'anonimato.

Ma nei posti chiusi e segreti, dove non circola l'aria, si crea il marcio. Da noi si sono sviluppati dei batteri che all'inizio ci hanno spinto a dire che dovevamo importare armi di contrabbando per fronteggiare gli avversari, poi a venderle per finanziare la nostra attività. Era un paradosso bizzarro, ma coloro che si opponevano scoprirono ben presto che i batteri avevano preso il potere.

E poi cominciarono ad arrivare i regali. Inizialmente delle piccolezze, incoraggiamenti per spronarti, come dicevano, sottolineando al tempo stesso che rifiutare un regalo sarebbe stato considerato una mancanza di solidarietà. Ma in realtà era semplicemente la fase successiva del processo di putrefazione, della corruzione che ti fagocitava quasi senza che te ne accorgessi, finché non ti ci ritrovavi immerso fino al collo.

E non c'era modo di uscire. Avevano troppo potere su di te. La cosa peggiore era che non sapevi chi fossero.

C'eravamo organizzati in piccole cellule che comunicavano tra loro per mezzo di un tramite che aveva l'obbligo di segretezza. Non sapevo ad esempio che Tom Waller fosse uno di noi, che fosse al vertice del contrabbando di armi, né tantomeno che esistesse una persona con il nome in codice di “Principe”. Almeno fin quando tu ed Helen non l'avete scoperto e denunciato!

E allora capì anch'io che avevamo perso di vista il nostro obiettivo reale, che era passato troppo tempo da quando avevamo avuto un obiettivo diverso da quello di riempirci le tasche, che ero corrotto e che ero stato complice!

Un giorno non ce l'ho più fatta. Ho cercato di uscirne. Mi hanno dato delle alternative, molto semplici, ma non temevo per me, bensì per i miei familiari. Ed è per questo che ti sei allontanato da loro.

Harry sospirò: E così mi hai voluto regalare questo orologio per mettere la parola fine a questa storia. 

Dovevi essere tu, Harry. Non poteva essere nessun altro. Lui e noi. Si sentiva un nodo in gola.

Harry si ricordò di qualcosa che Müller gli aveva detto la volta precedente, in cui erano stati proprio lì, su quella cima della montagna. Già… era strano pensare che a sei minuti di cabinovia dal centro della seconda città più grande della Norvegia, ci si potesse smarrire e morire. Credere di trovarsi nel cuore di ciò che si pensasse come giustizia, e poi improvvisamente perdere qualsiasi senso della direzione e diventare come quelli contro cui si voleva combattere.

Pensò a tutti i calcoli mentali che aveva fatto, a tutte le decisioni grandi e piccole prese, già… sono le circostanze e le sfumature a distinguere l'eroe dal criminale.

È sempre stato così. La rettitudine è la virtù di chi è pigro, di chi non ha un ideale. Senza malfattori e senza disonesti vivremmo ancora in una società feudale.

Ho perso, Harry. Tutto qui. Ho creduto in qualcosa, ma ero cieco, e quando ho riacquistato la vista il mio cuore era ormai corrotto.

È così che vanno le cose. Harry rabbrividì investito dal vento e cercò le parole adatte. Quando finalmente le trovò, la sua voce risuonò lontana e tormentata: Scusa, capo, non ce la faccio ad arrestarti. Va bene, Harry. Vedrò di fare da me.

La voce di Müller era calma, quasi consolatoria. Volevo solo che vedessi ogni cosa, e capissi, e magari imparassi. Non c'era altro scopo...

Harry fissava la nebbia impenetrabile, cercando in vano di fare ciò che il suo capo e amico gli aveva chiesto di fare. Vedere ogni cosa. Tenne gli occhi aperti finché non si riempirono di lacrime.

Quando si voltò, Bjarne Müller se n'era andato. Chiamò il suo nome nella nebbia, pur sapendo che il suo ex capo aveva ragione. Non c'era altro scopo, ma pensò che qualcuno doveva comunque farlo...


mercoledì 9 luglio 2025

Tra vendetta e perdono: il dilemma di chi non vede giustizia.

C’è chi lo chiama Far West, ma è davvero colpa dei cittadini se, di fronte a un sistema che non funziona, l’istinto sopravvive? Prendiamo il caso di uno dei tanti femminicidi a quasi due anni di distanza, già... con i genitori dell’assassino intercettati a minimizzare, quasi a volerlo giustificare... 

"Se questo è esser genitori", scrivevo a luglio, allora non stupiamoci se la violenza diventa ereditaria. E mentre i bulli tormentano i deboli, gli stupratori camminano liberi, e i femminicidi si consumano tra una condanna sospesa e un permesso premio, lo Stato cosa fa con quei suoi governanti? Nulla... discute!

Forse è ora di ammetterlo: le leggi attuali non bastano più. Servono pene esemplari, certezze, non promesse. In Israele, ai familiari dei terroristi viene rasa al suolo la casa – un segnale chiaro: la colpa è collettiva

Estremo? Forse. Ma quando lo Stato abdica, il cittadino si trasforma in giudice, boia e vittima insieme. E se la soluzione fosse proprio questa: colpire non solo il colpevole, ma chi lo ha cresciuto nell’odio? Chi ha girato lo sguardo?

Ma attenzione: c’è un confine tra giustizia e barbarie. Per questo, alla fine, resta una verità più alta: "L’animo umano non appare mai così forte e nobile, come quando rinuncia alla vendetta" - link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2020/07/lanimo-umano-non-appare-mai-cosi-forte.html

Perdonare infatti non è debolezza, è l’ultimo atto di fiducia in un’umanità che sembra aver smarrito sé stessa.

Eppure, finché i tribunali continueranno a fallire, finché un ragazzo morirà per 15 euro o una donna per un “no”, la domanda resterà inchiodata alla coscienza di tutti: "Chi paga, in questo Paese, per i reati commessi?". La risposta, purtroppo, la conosciamo già. Sono sempre gli stessi a pagare: quelli che aspettavano giustizia, e hanno ricevuto solo silenzio.

Ci prepariamo a veder scendere il sipario della giustizia. Quel che si profila all'orizzonte è uno scenario da "Far West" postmoderno e come nei film del grande Sergio Leone, ci ritroveremo a contare le "vittime" – coloro che, dopo essersi macchiati di crimini efferati, cadono sotto la vendetta dei familiari di chi hanno distrutto. 

È la legge del taglione che torna a galla, l’antica giustizia privata che sostituisce codici e tribunali. E quando la ragione cede il passo al sangue, non resta che una domanda: Quanti morti ci vorranno prima che qualcuno dica 'basta'?

Giustizia negata, giustizia fatta: il dramma di chi non crede più nello Stato.

Sabato 4 febbraio 2017: Ecco cosa può accadere... quando non c'è giustizia!!!

Mercoledì 31 maggio 2017: Giustizia ritardata è giustizia negata!!!

Mercoledì 5 agosto 2020: L’animo umano non appare mai così forte e nobile, come quando rinuncia alla vendetta e osa perdonare un torto!!!

Sabato 3 febbraio 2024: Ma in questo Paese, chi paga effettivamente per i reati commessi???

Sabato 27 luglio 2024: Se questo è esser genitori: già... si comprende il perché accadono ogni giorno tragedie come quelle che purtroppo andiamo vivendo!!!

Quando una madre piange un figlio ucciso per un paio di cuffie, cosa resta da dire? Le parole si spezzano, e lo Stato – quello stesso Stato che dovrebbe punire, proteggere, garantire – diventa un eco lontano, un meccanismo arrugginito che gira a vuoto.

Eppure, quante volte l’abbiamo ripetuto: "Giustizia ritardata è giustizia negata". Lo scrivevo nel 2017, e oggi, a distanza di anni, la storia si ripete con una ferocia quasi rituale. Madri che urlano in diretta tv, padri che impugnano pistole, familiari che smettono di aspettare. Perché? Perché i tribunali assolvono, le pene si riducono, i colpevoli tornano in strada prima del dolore delle vittime. E allora diventa inevitabile che qualcuno decide di chiudere i conti da solo...

Quelli sopra riportati non sono dei semplici post, sono moniti lasciati cadere nel tempo, pietre lanciate in uno stagno troppo spesso immobile. E oggi, mentre l’eco di un colpo di pistola risuona in una piazza, quelle parole tornano a bussare alla nostra coscienza con domande scomode: Avevamo previsto tutto questo? E soprattutto, potevamo evitarlo?

Perché quando la giustizia istituzionale vacilla, ciò che avanza non è il caos, ma qualcosa di più pericoloso: la rassegnazione. Quella stessa rassegnazione che trasforma un padre in giustiziere, una vittima in carnefice, un lutto in una condanna a vita senza appello. Non è un caso, non è follia. È il risultato matematico di un sistema che ha smesso di contare i fallimenti mentre illudeva di contare i giorni di pena.

Eppure, persino in questo baratro, una verità rimane: la giustizia "fai-da-te" non restituisce i figli uccisi, non risana le ferite, non costruisce società migliori. Al massimo, crea nuovi lutti e nuovi vuoti. Ma come biasimare chi, dopo anni di attesa, si è visto consegnare dalle istituzioni non una sentenza, ma un’amara beffa?

Forse il vero interrogativo non è "perché l’ha fatto?", ma "cosa abbiamo fatto noi per evitarlo?". Abbiamo ascoltato abbastanza le vittime? Abbiamo preteso che ogni condanna fosse all’altezza del dolore inflitto? O abbiamo accettato, con silenzio complice, che i tribunali diventassero fabbriche di promesse non mantenute?

Quel colpo di pistola ha ucciso due volte: un uomo, e simbolicamente, l’ultimo barlume di fiducia in uno Stato che dovrebbe proteggere ma troppo spesso delude. Ora tocca a noi scegliere: continuare a discutere di eccezioni e casi isolati, o ammettere che dietro ogni "gesto folle" si nasconde una lunga scia di giustizia mancata.

Perché come scrivevo anni fa, "l’animo umano è nobile quando perdona"... ma prima di arrivare alla nobiltà, deve attraversare il deserto della giustizia. E quando nel deserto non si trova neppure una goccia d’acqua, perfino i più forti possono impazzire.

martedì 8 luglio 2025

Il procuratore Nicola Gratteri e la verità scomoda di un Paese che convive con la mafia!

La mafia è cambiata, ma la retorica antimafia no e questa distanza tra realtà e narrazione ci dice molto su come oggi siamo disposti a guardare – o meglio, a non guardare – quel fenomeno che un tempo sembrava dover essere combattuto con ogni mezzo. 

Il procuratore che tiene lezioni in televisione non è solo una scelta di sensibilizzazione, è il segnale che ormai siamo arrivati a un punto in cui parlare di mafia serve più a tranquillizzare la coscienza collettiva che a contrastarla realmente.

La verità...? Il Paese ha deciso di convivere con essa, non per paura, non per rassegnazione, ma perché si è fatta strada l’idea che in fondo, in qualche modo, essa funzioni da collante sociale, un male necessario che permette a tanti di ottenere qualcosa senza troppi passaggi burocratici né troppe attese.

Mentre i notiziari raccontano di guerre lontane, di sbarchi quotidiani e di temperature sempre più estreme, la mafia continua a lavorare silenziosa, quasi invisibile, dentro quei meccanismi che tengono insieme un sistema fragile e precario. 

Non è più quella che ti minaccia alla porta di casa, è piuttosto quella che ti fa avere il posto fisso al mercato comunale, che ti assicura un posto in ospedale fuori lista d’attesa, che ti fa assumere tuo cugino anche se non ha esperienza. 

Ecco, questa è la mafia di oggi, non solo criminalità organizzata ma rete informale di scambi, favori, promesse mantenute, dove il confine tra legale e illegale si fa sempre più sottile fino a sparire del tutto.

E allora, mentre si discute di etica pubblica e di legalità, ci si dimentica che molte persone vivono grazie a quelle pratiche che ufficialmente condanniamo. Non parliamo più di complicità esplicite, di omertà urlata nei vicoli dei paesi, ma di una sorta di adattamento quotidiano, una specie di contratto sociale non scritto in base al quale accetti di chiudere un occhio purché ti sia garantita una vita meno complicata. 

Difatti... la mafia non viene più combattuta perché in fondo sono in molti a beneficiarne, direttamente o indirettamente, e nessuno vuole rinunciare al proprio tornaconto pur di mantenere un minimo di equilibrio esistenziale. Un vero schifo, viene il vomito solo a pensarci. Tutti coloro che prendono dalla mafia sono spesso ancor più schifosi degli stessi mafiosi. Siano essi politici, uomini delle istituzioni, magistrati, forze dell’ordine, dirigenti o funzionari pubblici, direttori dei lavori, responsabili della sicurezza, personale della pubblica amministrazione, addetti ai controlli e via dicendo. Un calderone pieno zeppo, sì... anche di quei comuni delinquenti le cui foto vediamo ogni giorno pubblicate sul web, persone che sopravvivono grazie alla mafia e che ne sono, molto spesso, diretti affiliati.

Già... il problema non è più soltanto il silenzio delle istituzioni, ma quel torpore diffuso, quella rassegnata indifferenza che ha preso il posto dell’indignazione. La gente comune ha smesso di ribellarsi davvero, ha imparato a convivere con il marcio, come se fosse una pioggia fastidiosa ma inevitabile. E allora arriva il procuratore Nicola Gratteri, che con le sue parole in tv cerca di scuotere le coscienze, soprattutto quelle dei giovani, sperando in un risveglio collettivo.

Ma quanti, dopo averlo ascoltato, si sentono improvvisamente in pace con sé stessi, come se quella mezz’ora di retorica antimafia bastasse a lavare la loro coscienza? Quanti escono dalla catarsi emotiva del discorso per poi tornare, il giorno dopo, a intascare la bustarella, a cercare la raccomandazione, a voltarsi dall’altra parte? È un gioco pericoloso: credere che ascoltare sia già agire, che indignarsi a parole equivalga a cambiare le cose. Intanto, la mafia ringrazia. Perché sa che finché ci accontenteremo di sentirci puliti solo per aver prestato orecchio, lei continuerà a vincere.

Ma come ripeto ormai da anni, nulla più mi sorprende e soprattutto di una cosa mi sono convinto: il vero dramma non è la mafia, ma la consapevolezza che ormai essa non fa più notizia, non scandalizza più, non mobilita più. È diventata parte del paesaggio, una presenza costante e scontata come la pioggia a novembre o il caldo afoso d’agosto. 

E quando persino i mezzi d'opera nei cantieri o quelli agricoli in agricoltura provocano più morti di quelli compiuti dalla criminalità organizzata, mi chiedo se la battaglia antimafia abbia ancora senso oppure se non sia il caso di ammettere - una volta e per tutte - che siamo noi, già... ciascuno di noi ( o quantomeno consentitemi di fare una precisazione: tutti coloro che partecipano costantemente a quel malaffare...), con le nostre piccole complicità quotidiane, a mantenerla viva e vegeta!

lunedì 7 luglio 2025

Tra ostaggi e illusioni: perché i colloqui su Gaza sono destinati a fallire.

Si è conclusa in nulla la seconda sessione dei negoziati su Gaza, eppure i media continuano a raccontarcela come una semplice battuta d’arresto, un ostacolo temporaneo...

Ma la verità è che qui non si tratta di un banale intoppo diplomatico, bensì dell’ennesima dimostrazione di come la politica internazionale venga gestita con miopia e sudditanza. 

Il "grosso ostacolo" di cui parlano, il mancato rilascio degli ostaggi, non è un dettaglio negoziale, è la sostanza stessa del conflitto. Israele ha chiarito da mesi che senza quel gesto non ci sarà tregua, non ci sarà pace, eppure c’è ancora chi si ostina a credere che basti un vertice, una stretta di mano, una promessa vuota per cambiare le carte in tavola.

I funzionari anonimi intervistati dicono che i negoziati continueranno, come se la perseveranza bastasse a colmare l’abisso tra le parti. Hamas "spera di raggiungere un accordo", dicono. Ma quale accordo può mai esserci con chi ha pianificato il massacro del 7 ottobre, con chi ha trasformato il sangue di 1200 innocenti in una moneta di scambio? 

È grottesco persino doverlo ripetere, eppure sembra che in troppi abbiano già rimosso l’orrore di quel giorno, come se fosse un incidente di percorso e non la scintilla che ha ridisegnato i contorni di questo conflitto.

E mentre Hamas ammette di aver perso l’80% del controllo su Gaza, ecco spuntare la solita retorica della "pressione negoziale", come se Israele dovesse fermarsi proprio ora, proprio quando la vittoria militare è a portata di mano. 

Qualcuno sussurra che Tel Aviv potrebbe estendere le operazioni alla Cisgiordania, ed è allora che scatta il panico diplomatico, l’urgenza artificiale di trovare una soluzione. Ma Israele nega, smentisce, ribadisce che i colloqui proseguono. E intanto, sul campo, nulla cambia: gli aiuti umanitari continuano a essere bloccati, la popolazione di Gaza soffoca, e la guerra non accenna a placarsi.

Trump annuncia ottimisticamente che ci sono "buone possibilità" per un accordo, come se la questione fosse una trattativa immobiliare da chiudere con una stretta di mano. "Abbiamo già liberato molti ostaggi", dice, come se fosse merito suo, come se il resto fosse solo una formalità. 

Ma la realtà è che finché un solo ostaggio rimarrà nelle mani di Hamas, Israele non si fermerà. E chi crede il contrario, chi sogna una soluzione diplomatica senza aver capito la posta in gioco, sta solo illudendo se stesso e gli altri.

E allora, mentre i nostri governanti si affannano a ripetere i copioni scritti da altri, mentre i media ci raccontano una pace che non esiste, la verità è semplice e spietata: questa guerra finirà solo quando Israele deciderà che è finita. E quando quel giorno arriverà, Gaza non sarà più la stessa. 

Forse non ci sarà più. E a quel punto, tutti quei discorsi sui negoziati, sui cessate il fuoco, sulle soluzioni condivise, suoneranno come quello che sono sempre stati: parole vuote in un mondo che non ha più tempo per le illusioni.

mercoledì 2 luglio 2025

La Calabria brucia e lo Stato tace!

Un ospedale in fiamme, ancora e ancora...

Già... non per un incidente o per sfortuna, ma per l’ennesimo atto di violenza contro una terra che implora semplicemente "normalità".

L'Ospedale della Sibaritide aspetta da vent'anni una struttura che dovrebbe salvare vite, e invece vede quel cantiere ridotto in cenere, già... sotto gli occhi di tutti.

E lo Stato? Lo Stato osserva, proclama, promette indagini, ma nel frattempo le ruspe della ‘ndrangheta continuano a demolire il futuro senza che nessuno le fermi davvero.

Presidente Mattarella, Presidente Meloni, dov’è lo Stato quando serve? Quante volte deve bruciare un ospedale prima che qualcuno decida di intervenire con la stessa fermezza con cui si riempiono i discorsi pubblici?

Per favore basta.... mi sono stancato di dover sentire le solite frasi, non servono più parole, servono fatti, servono soldati che presidiano giorno e notte, servono controlli più ferrei che non finiscano come da troppo tempo accade con un comunicato stampa: perché se un cantiere - peraltro videosorvegliato - può essere sabotato due volte in due giorni, allora non c’è sicurezza, ma solo complicità!

Il Commissario alla sanità, Roberto Occhiuto, li chiama “vermi”, e ha ragione. Ma il sottoscritto aggiunge che i vermi prosperano solo dove c’è marcio. E il marcio qui è l’impunità, è il racket che si permette di dettare legge mentre le istituzioni annaspano tra ritardi e omissioni. Sì... l’ospedale sarà ricostruito, dicono sempre così, ma mi chiedo: quanti altri incendi serviranno prima di ammettere che senza una risposta militare, senza una presenza permanente, quei cantieri resteranno sempre ostaggi delle stesse mani che oggi li incendiano?

La Calabria merita di più che essere una cronaca di fuoco e rassegnazione. Eppure, mentre i politici fanno a gara per condannare quanto accaduto - ovviamente (come belle statuine) dinnanzi alle Tv a reti unificate - sul terreno non cambia nulla.

Le fiamme di oggi sono le stesse di ieri, e saranno le stesse di domani - lo dico da sempre per la mia Sicilia, lo ripeto oggi per quella meravigliosa regione (sorella) chiamata Calabria - finché qualcuno non avrà il coraggio di spezzare questo circolo. Ma quel coraggio, a quanto pare, ancora non c'è, ne da noi e ahimè neppure da loro!


martedì 1 luglio 2025

La verità brucia ancora: chi ha davvero ucciso Paolo Borsellino?

"Il popolo italiano ha il diritto di conoscere la verità", dicono...

Ma la verità è già scritta, nascosta sotto gli occhi di tutti, sepolta da decenni di menzogne e complicità!

Già... quella stessa politica che oggi si commuove davanti alla borsa di Paolo Borsellino, è la stessa che ha beneficiato del suo sangue e di quello della sua scorta. Sono loro, quelli che hanno governato e governano ancora, i veri mandanti di quel golpe a tavolino orchestrato con le bombe e il terrore.

La mafia fu solo il braccio armato, i corleonesi gli esecutori materiali, ma chi davvero voleva Falcone e Borsellino morti sapeva che senza di loro il potere sarebbe stato più facile da controllare. E così è stato. 

I nomi, le prove, i collegamenti, erano tutti lì, scritti in quell'agenda rossa. Ma invece di leggerla, di pubblicarla, l’hanno fatta sparire o meglio  chi se ne impossessato ha fatto sì che quelle parole scritte dal giudice restassero celate. 

Penso altresì che gli uomini dei servizi deviati siano intervenuti per recuperarla immediatamente la strage (basti osservare le foto in cui qualcuno - di cui si sconosce l'identità - interviene per recuperare quella borsa e di conseguenza il suo contenuto), oppure leggere le dichiarazioni di quel vigile del fuoco nel 2012, per poi consegnarla a chi aveva partecipato a realizzare quella strage.

Quella borsa non è finita in un magazzino dimenticato, no... è stata recuperata, copiata e nascosta da chi aveva interesse a seppellire la verità!!! Credo altresì che qualcuno che ha avuto modo di averla per qualche istante in mano, l'abbia copiata e autenticata, sì... da un "notaio compiacente" (come accaduto con altri documenti falsi negli anni '90), per poi riporre il tutto in una qualche cassetta svizzera, pronta per essere usata come ricatto contro politici e/o giudici.

Chiamiamolo un salvacondotto per una carriera senza macchia nei confronti di chi sapeva e di chi ha taciuto per i propri interessi politici e finanziari, già... se quella borsa conteneva l'agenda personale con riportati i nomi dei collusi, tenerla nascosta - ma "pronta all’uso" - ha garantito a quei soggetti impunità e favori per decenni, per i propri familiari.

Oggi parlano di sacrificio, di memoria, di lotta alle mafie, ma sono le stesse voci che per anni hanno taciuto, che hanno girato lo sguardo, che hanno fatto finta di non sapere. Il movimento di popolo nato dopo quelle stragi è stato ahimè strumentalizzato, trasformato in retorica, svuotato del suo significato più profondo. Perché la verità scomoda non serve a chi ha costruito il proprio potere sulle macerie di via D’Amelio e di Capaci.

La borsa esposta in Parlamento è un simbolo, dicono. Sì, è il simbolo di tutto ciò che è stato rubato, di tutto ciò che è stato insabbiato. L’odore della pelle bruciata è ancora lì, ma nessuno vuole più sentirlo davvero. 

Perché ammettere che la politica è complice di quelle stragi significherebbe smantellare un sistema costruito sul sangue dei giusti. E questo, nessuno di loro è disposto a farlo.

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