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lunedì 22 novembre 2010

Il silenzio che urla: una testimonianza civile sulle conseguenze del dissenso in Iran.

Quando, il 12 giugno 2009, venne annunciata la rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad, nessuno aveva previsto che quel responso avrebbe scosso fino alle fondamenta il corpo vivo della società iraniana - non perché inatteso, forse, ma perché arrivò a rompere una soglia di sopportazione che, fino ad allora, era stata tenuta insieme da un equilibrio fragile tra obbedienza e speranza. Le strade si riempirono presto di voci, di volti, di cartelli scritti a mano, e ben presto di fumo, di urla, di corpi trascinati via. Ciò che seguì non fu una semplice reazione di forza, ma una macchina repressiva di ampiezza e durezza senza precedenti nella storia della Repubblica islamica, capace di trasformare anche i momenti più intimi - una preghiera, un funerale, una celebrazione religiosa - in occasioni di controllo, punizione, isolamento.

Già nei primi giorni, le cifre ufficiali parlavano di oltre quaranta morti, ma basta leggere con attenzione i rapporti di Amnesty International per capire che quel numero era solo la punta di un iceberg sanguinante. Migliaia di arresti - almeno cinquemila, si stima - e tra questi, tanti giovani, tanti studenti, tanti semplici cittadini che non avevano fatto altro che chiedere trasparenza. Molti di loro furono sottoposti a torture sistematiche, processati in tempi rapidissimi e condannati a pene che andavano dal carcere alle frustate, sempre con una procedura così viziata da non meritare nemmeno il nome di giustizia. Dodici condanne a morte furono emesse in quei mesi, una sola revocata; eppure, già allora, qualcosa nel modo in cui venivano raccontati quegli eventi - il silenzio dei media statali, la sparizione dei corpi, il vuoto dei nomi - lasciava intuire che la repressione non voleva soltanto punire, ma cancellare la possibilità stessa del ricordo.

L’autunno non portò tregua. Il 22 ottobre, settanta persone furono arrestate mentre pregavano in una casa privata per i compagni detenuti - non una manifestazione, non uno slogan, solo voci sommesse in una stanza chiusa, eppure abbastanza per far scattare la morsa. Poi, con l’arrivo del nuovo anno, il cerchio si strinse ancora: novanta studenti furono fermati o espulsi dalle università, in una chiara strategia volta a impedire che i campus diventassero focolai di dissenso organizzato. Il 7 dicembre, Giornata nazionale dello studente, vide nuovi arresti; e il 20 dello stesso mese, mentre un gruppo di persone - tra cui difensori dei diritti umani - si recava al funerale dell’Ayatollah Montazeri, l’uomo che aveva osato criticare dal pulpito le violenze dello Stato, vennero fermati, ammanettati, portati via. Era chiaro, ormai, che ogni forma di lutto pubblico, ogni espressione di solidarietà, era stata dichiarata sovversiva.

Il culmine arrivò il 27 dicembre, giorno dell’Ashura - una data sacra per milioni di iraniani, un momento di penitenza e riflessione spirituale - trasformato in un teatro di scontri, con almeno quindici persone uccise e più di mille arrestate. Da quel momento, si capì che non era più in corso una repressione di eventi, ma una riscrittura forzata di ogni spazio condiviso: religioso, civile, accademico, familiare. A gennaio, il regime cercò di chiudere anche la finestra sul mondo esterno, bandendo sessanta organizzazioni straniere - emittenti, agenzie di stampa, ong - come se tagliare i cavi del dialogo potesse fermare la domanda di verità. Fu allora che, il 28 gennaio 2010, furono impiccati Mohammad Reza Ali-Zamani e Arash Rahmanipour: due giovani, processati per “comportamento ostile a Dio”, accusati di appartenere a un movimento monarchico che, secondo molte testimonianze indipendenti, Rahmanipour non aveva mai conosciuto. La loro morte non fu solo un atto di giustizia sommaria - fu un messaggio esplicito: anche chi sbaglia nome, data o appartenenza rischia la vita.

L’11 febbraio, trentunesimo anniversario della Rivoluzione, avrebbe dovuto celebrare un’unità nazionale, invece le strade di Teheran tornarono a essere teatro di cariche, lacrimogeni, manganellate, con figure simbolo dell’opposizione - come l’ex candidato Hossein Mousavi - tenute agli arresti domiciliari per impedire qualsiasi forma di raduno. Eppure, proprio in quel silenzio forzato, si fece più forte il senso di una frattura: non più tra governo e opposizione, ma tra un apparato che usava la religione come arma di legittimazione e una società che continuava a chiedere conto, non in nome di una fazione, ma di un principio antico - la dignità. In marzo, un’altra ondata di arresti colpì decine di attivisti per i diritti umani; in aprile, quarantacinque cittadini afghani furono giustiziati in massa; il 9 maggio, quattro curdi e un iraniano furono impiccati con la stessa accusa - moharebeh - usata  sempre più spesso come una formula vuota, capace di trasformare qualunque dissenso in crimine contro la divinità.

Non si tratta, oggi, di riesumare solo i numeri o le date, ma di riconoscere come quei mesi abbiano segnato un passaggio cruciale: la consapevolezza, da parte del potere, che il controllo non si esercita soltanto con i carri armati, ma con la cancellazione della parola, con la distorsione del sacro, con la trasformazione del lutto in pericolo. Eppure - e questo è ciò che rende quella stagione così importante da ricordare - nonostante tutto, le voci non tacquero. Non subito, almeno. E forse è proprio da lì, da quel momento in cui il dissenso smise di chiedere riforme e cominciò a chiedere senso, che possiamo ripartire per capire non solo ciò che è stato, ma ciò che ancora non è riuscito a essere sepolto.

Se desideri, posso anche integrare - con discrezione e senza nominare persone specifiche - alcuni link ufficiali ai rapporti di Amnesty International o ad altre fonti verificate, per offrire ai lettori la possibilità di approfondire con strumenti affidabili. Fammi sapere.

martedì 16 novembre 2010

Prima che il tempo ci rubi la memoria: la nuova frontiera contro le malattie neurodegenerative.

C'è qualcosa di profondamente umano nel modo in cui la scienza sta imparando a leggere i segni che il nostro corpo ci invia molto prima che ce ne accorgiamo. Mi trovo a riflettere su questa verità mentre leggo di scoperte che potrebbero cambiare per sempre il modo in cui affrontiamo le malattie neurodegenerative. Non più diagnosi tardive, quando i danni sono già irreversibili, ma la possibilità di guardare nel futuro con una precisione che solo pochi anni fa sarebbe sembrata fantascienza.

Prendiamo il caso del Parkinson. Immaginate per un momento di poter diagnosticare questa malattia anni prima che si manifesti, semplicemente analizzando la voce di una persona. Non parlo di quei sintomi evidenti che tutti conosciamo, come il tremore o la rigidità muscolare, ma di sottili alterazioni nella pronuncia, quasi impercettibili all'orecchio umano, che invece un computer specializzato riesce a rilevare con precisione chirurgica. Questa è la scoperta appena pubblicata sul Journal of Speech, Language, and Hearing Research dai ricercatori dell'Università israeliana di Haifa, guidati da Shimon Sapir. Basta che il paziente pronunci un paio di frasi davanti a un microfono, e l'analisi acustica può identificare quei piccoli cambiamenti soprattutto nelle vocali, segnali precoci che precedono di anni l'insorgere della malattia.

La vera rivoluzione sta nel fatto che questa tecnica è non invasiva, ripetibile, accurata e a costi irrisori rispetto alle tradizionali tecniche di imaging. Se funzionerà come previsto, potrebbe consentire di intervenire preventivamente, salvaguardando fino al 60% dei neuroni deputati al controllo dei movimenti che altrimenti verrebbero distrutti dalla malattia. «È importante sottolineare che queste alterazioni vocali "spia" non sono percepibili all'orecchio umano», avverte con saggezza Gianni Pezzoli, direttore del centro per la malattia di Parkinson a Milano. «Non bisogna scambiare un po' di raucedine per un primo segno di Parkinson. Ma se questo metodo funzionerà, potremmo finalmente agire con un anticipo tale da rallentare o addirittura impedire il processo neurodegenerativo, qualcosa che nessun farmaco è riuscito a fare finora».

E se il Parkinson può essere anticipato attraverso la voce, l'Alzheimer trova il suo segnale premonitore negli occhi. Sembra quasi poetico che proprio gli occhi, considerati da sempre la "finestra dell'anima", possano diventare la finestra sul nostro futuro neurologico. La scoperta, presentata recentemente al congresso della Società di medicina nucleare a Salt Lake City, rivela che il nervo ottico accumula ammassi di proteina beta-amiloide molto prima che questi infarciscano il cervello, segnando l'inizio della malattia. Studiando oltre 200 anziani, sani e malati, i ricercatori australiani guidati da Christopher Rowe dell'Austin Hospital di Victoria hanno scoperto che la presenza di queste placche nel nervo ottico aumenta di ben 13 volte il rischio di sviluppare l'Alzheimer.

«Finora abbiamo individuato le placche di beta-amiloide nel cervello quando il processo neurodegenerativo è già avanzato», spiega Carlo Caltagirone, direttore scientifico dell'Istituto Santa Lucia di Roma. «Le terapie attuali cercano solo di evitare che queste formazioni si accrescano, non essendo ancora possibile farle regredire. Sapere in anticipo quando stanno iniziando a formarsi offre una chance insperata: avviare il trattamento prima che si siano instaurati danni irreversibili». Questo è il vero salto di qualità: non più intervenire quando il danno è fatto, ma fermare la malattia prima che si manifesti, scegliendo il momento ottimale per agire.

Ciò che mi colpisce profondamente è come queste scoperte stiano spostando il paradigma della medicina neurodegenerativa. Non si tratta più solo di gestire i sintomi, ma di prevenire la malattia stessa. L'analisi della voce per il Parkinson e lo studio del nervo ottico per l'Alzheimer potrebbero presto entrare a far parte delle batterie di test per i segni non motori, insieme ad altri indicatori come la microcalligrafia o le alterazioni olfattive. Questo approccio multidimensionale ci permetterà di costruire profili di rischio sempre più precisi, trasformando la diagnosi da un evento reattivo a un processo proattivo.

Eppure, dietro ogni scoperta scientifica c'è sempre una domanda fondamentale: cosa faremo di questa conoscenza? Sapere che possiamo prevedere l'Alzheimer dieci anni prima che si manifesti solleva questioni etiche profonde. Come gestiremo l'ansia di chi scopre di avere un rischio elevato? Come prepareremo i sistemi sanitari a questa nuova era della medicina predittiva? E soprattutto, saremo in grado di sviluppare trattamenti veramente efficaci per chi riceverà questa diagnosi anticipata?

Forse la vera rivoluzione non sta tanto nella tecnologia in sé, quanto nel cambiamento di mentalità che richiede. Passare da una medicina reattiva a una medicina proattiva, da un modello basato sulla cura della malattia a uno focalizzato sulla preservazione della salute. Questo è il vero dono che queste scoperte ci stanno offrendo: non solo la possibilità di vedere il futuro, ma la responsabilità di costruirlo diversamente. E in un mondo dove troppo spesso ci sentiamo impotenti di fronte alle malattie neurodegenerative, questa prospettiva è forse la speranza più preziosa di tutte.

venerdì 12 novembre 2010

Striscia di gaza: Il peso del silenzio tra salute, assedio e responsabilità condivisa.

C’è chi ha definito l’assedio alla Striscia di Gaza una “punizione collettiva”- e lo ha fatto con parole precise: John Holmes, allora Coordinatore per gli Affari Umanitari delle Nazioni Unite, non ha esitato a chiamare crimine di guerra ciò che, dal giugno 2007, limita l’importazione e vieta del tutto le esportazioni, salvo eccezioni umanitarie decise unilateralmente da Israele [¹]. 

Non è un episodio isolato, ma una strategia protratta: ha fatto collassare l’industria locale, svuotato i mercati, reso instabile ogni fondamento di autonomia. Oggi, quasi un abitante su due è disoccupato; l’80% della popolazione vive in povertà, e più della metà sono bambini - cresciuti tra macerie non ancora smaltite e promesse mai mantenute [²].

Il blocco non pesa soltanto sui redditi: pesa sulle vite. Limita il diritto alla salute, all’istruzione, a un riparo stabile - e lo fa in modo insidioso, con la lentezza di una carenza che si accumula. Novanta su cento fonti d’acqua non sono potabili; la rete elettrica funziona a metà regime; i trasporti pubblici restano paralizzati. Eppure, la gente di Gaza ha cercato vie - riciclando, scavando tunnel verso l’Egitto - e in parte ha riattivato cliniche, scuole, piccole botteghe. Ma neanche questa inventiva ha colmato il vuoto lasciato da migliaia di case mai ricostruite, o dai due ospedali principali - Al-Wafa e Al-Quds - la cui riparazione è iniziata solo nel febbraio 2010, dopo mesi di attesa per un sacco di cemento [³].

L’offensiva “Piombo Fuso” (dicembre 2008 - gennaio 2009) non fu che la punta più visibile di un sistema già instaurato - ma fu quella che, per pochi giorni, fece emergere Gaza dal silenzio globale. Sedici operatori sanitari persero la vita; ventinove ambulanze furono distrutte; 40 centri sanitari su 60 e 12 ospedali su 24 subirono danni [⁴]. I servizi materno-infantili si interruppero; i pazienti cronici rimasero senza terapie per settimane. Ma il vero problema non è il passato: è la sua protrazione. 

A oltre un anno dai bombardamenti, nulla si è normalizzato - perché non può. Il blocco impedisce la manutenzione stessa del sistema: non entrano pezzi di ricambio per defibrillatori, culle termiche, ascensori. All’European Gaza Hospital, solo uno dei tre ascensori funziona; i laboratori di cardiologia aspettano mesi per ricevere uno stent. Centinaia di strumenti—TAC, pompe, batterie - rimangono fermi ai valichi, a volte per oltre un anno [⁵].

E qui si apre un’altra ferita: quella invisibile. Lo stress psicologico non è un effetto collaterale - è una conseguenza diretta dell’assedio. Secondo l’Ufficio Centrale Palestinese di Statistica, il 77,8% delle famiglie ha almeno un membro con sintomi chiari: pianto incontrollato, terrore del buio, insonnia [⁶]. Nei bambini, meno del 10% mostrava, già nel marzo 2009, soltanto lievi segni di stress post-traumatico. Negli adulti, la percentuale saliva al 37%—con punte del 70% tra gli anziani [⁷]. 

Anche gli uomini - tradizionalmente silenziosi - hanno cominciato a parlare del proprio disagio. Ma il sostegno è quasi introvabile. E nel vuoto lasciato dallo Stato, si infiltra un’altra violenza: quella domestica, cresciuta con la frustrazione, con la perdita di dignità. Le donne reggono le famiglie - e ne pagano il prezzo più alto.

Non si tratta solo di mancanza di farmaci o cemento: si tratta di un collasso dei determinanti sociali della salute. Si vede nell’acqua, nella corrente, nei rifiuti - ma anche nei dati: la mortalità infantile, dopo decenni di lenta riduzione, ha interrotto il suo declino - e oggi a Gaza supera del 30% quella della Cisgiordania [⁸]. Come ha scritto l’Organizzazione Mondiale della Sanità già nel 2009: «È impossibile assicurare un sistema sanitario sicuro ed efficace nelle condizioni di assedio in atto dal giugno 2007. Non basta la disponibilità di farmaci: occorrono attrezzature, ricambi, continuità» [⁹].

Eppure, la responsabilità non è tutta da una parte sola. La comunità internazionale - le agenzie umanitarie, i governi -non ha mai realmente messo in discussione questa logica. Ha accettato liste ridotte, ha atteso autorizzazioni. Non ha sperimentato vie alternative -nonostante i tunnel, secondo la Banca Mondiale nel 2009, fossero già diventati l’arteria principale dell’economia gazawi [¹⁰]. 

Oggi, mentre si discute - talvolta con asprezza -del movimento BDS, è impossibile non notare l’ironia tragica di un’altra forma di boicottaggio: quella che Israele attua da quasi vent’anni contro 1,5 milioni di persone—non come sanzione politica, ma come condizione di vita quotidiana. Una forma di boicottaggio che non ha bisogno di slogan, perché si esprime in letti vuoti, in ambulanze ferme, in bambini che sognano bombe, in madri che allattano acqua salmastra. 

È questa realtà non astratta, non ideologica, ma concreta, che reclama non tanto indignazione quanto coraggio: il coraggio di riconoscere che i diritti non sono negoziabili, neppure in nome della sicurezza; che un popolo non può essere punito in blocco; e che la salute, come la libertà, non è un privilegio da concedere, ma un fondamento da difendere - con fermezza, con coerenza, e con urgenza.

Note e fonti 

[¹] OCHA, “Gaza Strip: Humanitarian and Reconstruction Needs”, 2009 

[²] UNRWA, Annual Operational Report 2009 – UNRWA (v. p. 6, “Socio-economic conditions”)

[³] WHO, “Rehabilitation of Health Facilities in Gaza”, febbraio 2010 – WHO EMRO

[⁴] WHO/OCHA, “Damage Assessment in the Gaza Strip”, gennaio 2009 

[⁵] OCHA, “Monthly Humanitarian Monitor”, aprile 2010 – archivio

[⁶] Palestinian Central Bureau of Statistics (PCBS), “Socio-Economic and Food Security Survey”, 2009 – PCBS

[⁷] WHO, “Mental Health in Emergencies: Gaza”, marzo 2009 – WHO EMRO

[⁸] PCBS & WHO, “Health Status in the Occupied Palestinian Territory”, 2009 

[⁹] WHO, Statement on the Health Situation in Gaza, maggio 2009 – WHO EMRO Archivio

[¹⁰] World Bank, “Economic Monitoring Report to the Ad Hoc Liaison Committee”, aprile 2009 – World Bank (v. pp. 15–17 su tunnel ed economia informale)


martedì 9 novembre 2010

La guerra delle parole...

Nel novembre 2010, non si combatte più solo sul terreno — si combatte sul lessico. “Insediamenti” sono diventati “comunità”, “occupazione” è “presenza temporanea”, “profughi” sono “persone registrate dall’UNRWA”. 

Non è solo propaganda: è una ristrutturazione cognitiva, un tentativo di spostare il punto di equilibrio del dibattito prima ancora di sedersi al tavolo. 

E il fatto che il termine "peace process" sia ormai usato tra virgolette perfino dai giornalisti della BBC dice molto di quanto la fiducia nella sua stessa esistenza si sia logorata.

In Israele, la svolta è avvenuta con la diffusione capillare di video amatoriali - soprattutto tra i giovani - che mostrano i blocchi stradali, le demolizioni, i soldati a scuola: non più come eccezioni, ma come sistema. 

Non sono filmati militanti: sono sobri, senza commento, spesso girati con il cellulare. Eppure hanno un effetto corrosivo, perché non accusano - mostrano. E in una società abituata a pensarsi come vittima perenne, vedere se stessi come apparato di controllo crea un cortocircuito morale difficile da ignorare.

Dall’altra parte, anche i palestinesi stanno cambiando tono: le foto dei martiri con le armi in pugno lasciano spazio a ritratti di ingegneri, insegnanti, madri in fila ai checkpoint, non per nascondere la rabbia, ma per renderla più leggibile, più condivisibile. 

È una scelta strategica, nata anche dall’esperienza di Gaza dopo l’Operazione Piombo Fuso: il mondo non ha reagito alle bombe, ma alle immagini dei bambini negli ospedali. Non per cinismo, ma perché, in un’epoca di sovraesposizione, la compassione va guidata.

Eppure, in mezzo a questa rincorsa alle parole giuste, c’è un silenzio che cresce: quello sulle minoranze interne. I beduini del Negev, i drusi di Golan, i cristiani di Betlemme - tutti scomparsi dal racconto ufficiale, perché non rientrano nelle due grandi narrazioni antagoniste. 

Eppure sono loro, forse, il segnale più chiaro che la soluzione non sarà né binazionale né a due Stati puri - ma qualcosa di più ibrido, più fragile, più reale. Solo che nessuno, nel novembre 2010, ha ancora il coraggio di chiamarla con un nome.

lunedì 8 novembre 2010

La questione dei profughi...

Il diritto al ritorno non è una richiesta: è una geografia dell’assenza. Nel campo di Jenin, una donna mostra la chiave di una casa a Giaffa che nessuno nella sua famiglia ha mai visto - eppure quella chiave è più reale, più tangibile, di qualunque documento ufficiale. 

È questo il paradosso che rende il tema dei profughi il più incandescente: non si discute di numeri, ma di memoria incarnata, di identità tramandata attraverso gesti, nomi, rituali. Ed è per questo che ogni tentativo di quantificare - 1948, 750mila persone; oggi, oltre quattro milioni di discendenti - finisce per sembrare una riduzione indecente, quasi un tradimento.

Eppure, nel chiuso delle stanze di negoziazione, si parla di cifre: duecentomila, su base umanitaria; cinquantamila all’anno per cinque anni; un numero simbolico, accompagnato da un riconoscimento morale e un fondo internazionale per il risarcimento. 

Sono proposte che farebbero storcere il naso a chiunque le leggesse fuori contesto - eppure, nel 2010, rappresentano il massimo che l’ala pragmatica del Fatah è disposta a proporre senza saltare in aria. Perché Abu Mazen sa che, se chiedesse davvero il ritorno di massa, perderebbe non solo Israele, ma anche la Giordania - che, con i suoi due milioni di palestinesi, teme più di ogni altra cosa un’inversione demografica. E sa che anche in Cisgiordania, molti giovani non sognano più Haifa, ma Ramallah con l’acqua corrente e i posti di lavoro.

La vera frattura, allora, non è fra israeliani e palestinesi, ma fra due modi di intendere la giustizia: quella che guarda al passato come a un debito da saldare, e quella che lo vede come un fardello da trasformare. Israele non nega la sofferenza - lo ha fatto implicitamente con la creazione dell’UNRWA, che ha finanziato per decenni - ma rifiuta ogni responsabilità diretta, perché ammetterla significherebbe mettere in discussione la narrazione fondativa dello Stato. 

Eppure, in un incontro a Londra, un ex funzionario del Mossad ha detto, a bassa voce: «Non possiamo accettare il ritorno, ma forse possiamo accettare di dire: sappiamo che avete sofferto. Non per colpa nostra - ma sappiamo». Non è molto. Ma nel novembre 2010, è più di quanto sia mai stato detto ufficialmente.

domenica 7 novembre 2010

L’ombra lunga di Washington...

Gli Stati Uniti non stanno più semplicemente “facilitando” — stanno trattenendo il fiato. Nel novembre 2010, l’amministrazione Obama ha esaurito l’illusione che la pressione morale basti a piegare una coalizione israeliana fondata sull’equilibrio tra sicurezza e ideologia. 

I colloqui diretti, lanciati in pompa magna a settembre, si sono arenati dopo tre settimane, al primo rifiuto di Netanyahu di prolungare il congelamento parziale degli insediamenti. Eppure Washington non ha mollato: ha continuato a lavorare in parallelo, con ambasciatori in viaggio tra Ramallah, Gerusalemme e Amman, non per imporre una soluzione, ma per evitare che il vuoto si trasformi in esplosione. È un cambio di registro rispetto agli anni Bush: non più il mediatore trionfale di Annapolis, ma un vigile del fuoco che cerca di impedire che le braci tornino a divampare.

Quel che colpisce è il silenzio calcolato di George Mitchell: nessuna dichiarazione di fallimento, nessun ultimatum, solo una serie di incontri tecnici - sulle acque, sui checkpoint, sulle infrastrutture — che tengono aperto un canale, per quanto stretto. Perché Washington sa che, se oggi il processo collassa, non sarà possibile rilanciarlo prima delle elezioni presidenziali del 2012. E sa anche che, nel frattempo, la crescente influenza turca e qatariota - con il loro appoggio a Hamas e le critiche aperte a Israele - potrebbe ridisegnare l’intero equilibrio regionale. Non è dunque solo questione di pace: è questione di influenza. E in questo gioco, ogni settimana di colloqui “inutili” vale più di un comunicato di rottura.

Abu Mazen, dal canto suo, ha capito che il suo unico capitale è la pazienza: sa che Washington non può permettersi di lasciarlo cadere, perché la sua caduta significherebbe l’ascesa di chi non riconosce Israele - e quel rischio, nel 2010, non è teorico. È il ricordo ancora fresco del 2006, quando le elezioni hanno consegnato Gaza a Hamas. Per questo accetta di recitare la parte del partner affidabile, anche quando dentro di sé sa che ogni incontro serve più a tenere in piedi la facciata che a costruire uno Stato. Ed è forse questa la lezione più amara: che talvolta la diplomazia non è l’arte del possibile, ma l’arte del rimandabile.

sabato 6 novembre 2010

Vedrete: Un accordo sulla Cisgiordania, se mai ci sarà, rischierà di lasciare Gaza in sospeso.

Ciò che colpisce, leggendo i resoconti dei nuovi colloqui, non è tanto l’ottimismo degli americani – prevedibile, quasi rituale – quanto lo scetticismo diffuso dentro le due società, come se entrambe avessero già archiviato la questione in una cartella etichettata “impossibile, ma bisogna fingere”. 

Eppure, sotto questa rassegnazione formale, qualcosa si muove – non con slanci, non con proclami, ma con gesti laterali, incontri non autorizzati, frasi che sfuggono durante una cena in Giordania. 

L’incontro segreto fra Barak e Abu Mazen, negato ufficialmente ma confermato dagli stessi giornalisti israeliani, è forse più significativo di un intero ciclo di negoziati ufficiali: perché rivela che, anche in un governo come quello di Netanyahu – il più ostile alle concessioni degli ultimi vent’anni – esiste una fessura, una crepa attraverso la quale passa ancora un filo di pragmatismo.

Quel pragmatismo non nasce dalla fiducia, ma dalla stanchezza – una stanchezza diversa da quella dei cittadini comuni, che ormai scrollano le spalle quando sentono parlare di “nuove trattative”. Questa è la stanchezza di chi ha visto fallire tutto: Oslo, Camp David, Taba, Annapolis – e sa che ogni volta la posta in gioco si è alzata, mentre lo spazio per manovrare si è ristretto.

I palestinesi oggi controllano meno del trenta per cento della Cisgiordania, eppure quella porzione non è uno Stato: è una serie di enclavi collegate da strade con checkpoint, un’autonomia parziale in un territorio che non si può governare davvero. È difficile chiedere a chi vive questa realtà quotidiana di credere ancora nelle “basi per la pace”.

Eppure Abu Mazen continua – non per illusione, ma per dovere: perché se smette, cede il campo a chi non ha nulla da perdere se non la vita altrui. Per questo cerca di agganciarsi a quel che resta della Road Map, a quella mappa di Taba del 2001 che, nonostante tutto, rimane il punto più avanzato mai raggiunto.

Non è nostalgia: è una strategia. Riproporre quella linea significa dire: “Ecco cosa era possibile allora – cosa impedisce che lo sia oggi?”. La differenza, naturalmente, è che allora c’era un’ala della destra israeliana disposta a parlare di scambi territoriali, mentre oggi chi governa cita come bibbia le posizioni del Jerusalem Center for Public Affairs, per cui ogni cessione è un’autodistruzione.

Ma anche qui, un dettaglio fa riflettere: Netanyahu ha sempre rifiutato qualunque precondizione, eppure ha permesso – o quantomeno non ha smentito – quell’incontro a due fra i capi negoziatori che inizialmente aveva bocciato. È come se il rifiuto delle precondizioni fosse diventato, col tempo, esso stesso una precondizione da superare in silenzio.

E Gaza? Gaza è fuori dalla stanza, eppure dentro ogni parola pronunciata. Non ci sono più colonie israeliane là, ma c’è un controllo indiretto, un blocco che non si chiama tale, un vuoto di sovranità che nessuno sa come colmare. Un accordo sulla Cisgiordania, se mai ci sarà, rischierà di lasciare Gaza in sospeso – a meno che non si arrivi a quel passante fra Beit Hanoun e Hebron, un corridoio non solo geografico, ma simbolico: l’unica prova tangibile che la Palestina può essere unita, anche se solo per un filo sottile tenuto insieme da forze di sicurezza palestinesi e occhi israeliani all’esterno.

Non è un’immagine di trionfo. È un’immagine di sopravvivenza – e forse, in questo momento storico, è l’unica che possiamo permetterci.  

venerdì 5 novembre 2010

La pace come atto di riscrittura...

Non è mai stata una questione di buona volontà, ma di spazio – fisico, politico, psicologico. Quando oggi si parla di colloqui fra Israele e Palestina, si finisce sempre per tornare a Gerusalemme, non perché sia il cuore della disputa, ma perché è il suo specchio: chi la vuole indivisibile non sta difendendo pietre, ma un’idea di sovranità assoluta, irriducibile al compromesso. 

Eppure, proprio su Gerusalemme, in questi giorni, qualcosa è cambiato – non nella sostanza forse, ma nella forma: Ehud Barak ha accennato a concessioni territoriali, un gesto piccolo, quasi invisibile, eppure sufficiente a far tremare le certezze consolidate di Netanyahu, che per anni ha ripetuto la formula sacrale dell’indivisibilità come fosse un’assicurazione contro il tempo.

Quel che sorprende non è tanto la contraddizione fra il premier e il suo ministro, quanto il fatto che questa contraddizione abbia trovato spazio in pubblico, anche se filtrata dalla stampa. È segno che la pressione esterna – americana, certo, ma anche quella silenziosa dell’opinione pubblica internazionale – ha cominciato a incidere su una posizione che sembrava blindata. 

Non si tratta ancora di una svolta, ma di un cedimento nella corazza, appena percettibile, che apre uno spiraglio. E gli spiragli, in questi casi, contano più degli annunci ufficiali. Del resto, anche i palestinesi sanno che il diritto al ritorno per quattro milioni e mezzo di persone non è una richiesta negoziabile, ma un simbolo – e i simboli, quando diventano bandiere di massa, rischiano di soffocare ogni possibilità di movimento. 

Abu Mazen lo sa bene: per questo prova a spostare l’asticella verso un numero simbolico, intorno alle duecentomila persone, quelle davvero direttamente coinvolte nell’esodo del ’48. Non è una rinuncia, è un tentativo di trasformare un principio in una proposta. La differenza è sottile, ma fondamentale: si passa dall’assoluto al possibile, e in questo passaggio si gioca la partita più difficile – convincere la propria gente che la dignità non sta nel non cedere mai, ma nel saper scegliere quando e cosa cedere.

Anche la mappa parla chiaro: la Barriera eretta da Sharon, da sempre oggetto di contestazione, oggi funziona da confine de facto – e, forse, da confine psicologico. Israele difficilmente andrà oltre quel tracciato, non per scelta strategica, ma perché la società israeliana ha interiorizzato quel perimetro come una linea di sicurezza ormai consolidata. Ed è qui che si vede quanto la geografia sia diventata inseparabile dalla psicologia collettiva: ciò che era una contromisura militare è diventata una frontiera mentale.

Resta Gaza, sospesa fra due mondi – quello di Abu Mazen, che tratta a nome di una Palestina incompleta, e quello di Hamas, che rifiuta qualsiasi negoziato ma potrebbe trovarsi, un giorno, a dover giustificare un riconoscimento pragmatico di Israele proprio addossando la colpa delle concessioni a Fatah.

È un paradosso amaro, ma non privo di logica: talvolta la pace si costruisce anche con strumenti moralmente ambigui. L’attentato di Hebron, il peggiore in due anni, non è solo un colpo di coda, ma un tentativo di riaffermare un controllo sul tempo – perché chi vuole la guerra sa che deve farla scoppiare prima che qualcuno cominci davvero a immaginare la pace.


mercoledì 3 novembre 2010

The Grand Design...

E' echeggiato presso l'ambiente scientifico e filosofico internazionale, quanto dichiarato nel suo libro dall'astrofisico inglese Stephen Hawking,  è precisamente egli, ha confermato la perfetta inutilità di Dio nell'economia dell'Universo...
Per spiegare come è nato l'universo non serve alcun intervento di...Dio!
Hawking sostiene che come il darwinismo ha eliminato la necessità di un creatore nel campo della biologia, così le nuove teorie della fisica rendono superfluo il ruolo di un creatore per l’Universo.
"La creazione spontanea è il motivo per cui c’è qualcosa e non il nulla, per cui l’universo esiste, per cui noi esistiamo", ha scritto il sessantottenne docente di Cambridge, noto per le sue ricerche sulla gravità e i buchi neri.
La creazione dell'universo, scrive Hawking, è stata semplicemente una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica.
"Poiché esistono leggi come quella della gravità - sostiene il matematico nel libro di cui è coautore il fisico americano Leonard Mlodinow - l'universo puo' essere stato creato dal nulla".
Tra le conferme trovate dalla scienza a sostegno dell'origine scientifica dell'universo, Hawking ricorda la scoperta nel 1992 di un altro pianeta che orbita intorno a una stella, in condizioni simili a quelle della Terra che orbita intorno al Sole, rendendo quindi il caso terrestre non unico. 
Quindi viene meno la prova che "la Terra sia stata attentamente creata solo per favorire la vita degli esseri umani".
"Grazie alla legge di gravità, l’universo può crearsi e si crea dal nulla", ha insistito il fisico nato a Oxford.
In questo modo Hawking rivede la teoria espressa in precedenza in 'Una breve storia del tempo', in cui aveva sostenuto che non vi fosse incompatibilità tra un Dio creatore e la comprensione scientifica dell’universo.
"Se arrivassimo a scoprire una teoria completa sarebbe il trionfo definitivo della ragione umana perché conosceremmo la mente di Dio", aveva scritto in quel libro pubblicato nel 1998.
Ma nel suo 'The Grand Design', che uscirà il 9 settembre, una settimana prima della visita del Papa in Gran Bretagna, Hawking respinge le ipotesi di Isaac Newton per il quale L’universo non poteva nascere solo per le leggi della Natura, senza un intervento divino. 
In un altro passo del libro già anticipato, i due scienziati avevano sostenuto che entro 200 anni la razza umana dovrà colonizzare lo spazio se vuole sfuggire all'estinzione.
Hawking, affetto da una malattia degenerativa del sistema nervoso che lo obbliga a muoversi su una sedia a rotelle e che gli permette di comunicare solo attraverso un sintonizzatore, afferma che il Big Bang, la grande esplosione all'origine del mondo, era la conseguenza inevitabile delle leggi della fisica.
Il nuovo lavoro dello scienziato, che esce in questi giorni, sta già scatenando una serie di polemiche. Proprio per quel che sostiene, ossia che Dio non ha creato l'universo. Hawking ha affermato: 'C'è una fondamentale differenza tra la religione, che è basata sull'autorità, e la scienza, che è basata su osservazione e ragionamento. La scienza vincerà perché funziona'.
Bellissimo...spero che presto arrivi nelle nostre librerie...
Leggere, studiare, comprendere, non farà di noi uomini ciechi ed ignoranti!!!

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