Eppure, sotto questa rassegnazione formale, qualcosa si muove – non con slanci, non con proclami, ma con gesti laterali, incontri non autorizzati, frasi che sfuggono durante una cena in Giordania.
L’incontro segreto fra Barak e Abu Mazen, negato ufficialmente ma confermato dagli stessi giornalisti israeliani, è forse più significativo di un intero ciclo di negoziati ufficiali: perché rivela che, anche in un governo come quello di Netanyahu – il più ostile alle concessioni degli ultimi vent’anni – esiste una fessura, una crepa attraverso la quale passa ancora un filo di pragmatismo.
Quel pragmatismo non nasce dalla fiducia, ma dalla stanchezza – una stanchezza diversa da quella dei cittadini comuni, che ormai scrollano le spalle quando sentono parlare di “nuove trattative”. Questa è la stanchezza di chi ha visto fallire tutto: Oslo, Camp David, Taba, Annapolis – e sa che ogni volta la posta in gioco si è alzata, mentre lo spazio per manovrare si è ristretto.
I palestinesi oggi controllano meno del trenta per cento della Cisgiordania, eppure quella porzione non è uno Stato: è una serie di enclavi collegate da strade con checkpoint, un’autonomia parziale in un territorio che non si può governare davvero. È difficile chiedere a chi vive questa realtà quotidiana di credere ancora nelle “basi per la pace”.
Eppure Abu Mazen continua – non per illusione, ma per dovere: perché se smette, cede il campo a chi non ha nulla da perdere se non la vita altrui. Per questo cerca di agganciarsi a quel che resta della Road Map, a quella mappa di Taba del 2001 che, nonostante tutto, rimane il punto più avanzato mai raggiunto.
Non è nostalgia: è una strategia. Riproporre quella linea significa dire: “Ecco cosa era possibile allora – cosa impedisce che lo sia oggi?”. La differenza, naturalmente, è che allora c’era un’ala della destra israeliana disposta a parlare di scambi territoriali, mentre oggi chi governa cita come bibbia le posizioni del Jerusalem Center for Public Affairs, per cui ogni cessione è un’autodistruzione.
Ma anche qui, un dettaglio fa riflettere: Netanyahu ha sempre rifiutato qualunque precondizione, eppure ha permesso – o quantomeno non ha smentito – quell’incontro a due fra i capi negoziatori che inizialmente aveva bocciato. È come se il rifiuto delle precondizioni fosse diventato, col tempo, esso stesso una precondizione da superare in silenzio.
E Gaza? Gaza è fuori dalla stanza, eppure dentro ogni parola pronunciata. Non ci sono più colonie israeliane là, ma c’è un controllo indiretto, un blocco che non si chiama tale, un vuoto di sovranità che nessuno sa come colmare. Un accordo sulla Cisgiordania, se mai ci sarà, rischierà di lasciare Gaza in sospeso – a meno che non si arrivi a quel passante fra Beit Hanoun e Hebron, un corridoio non solo geografico, ma simbolico: l’unica prova tangibile che la Palestina può essere unita, anche se solo per un filo sottile tenuto insieme da forze di sicurezza palestinesi e occhi israeliani all’esterno.
Non è un’immagine di trionfo. È un’immagine di sopravvivenza – e forse, in questo momento storico, è l’unica che possiamo permetterci.

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