I colloqui diretti, lanciati in pompa magna a settembre, si sono arenati dopo tre settimane, al primo rifiuto di Netanyahu di prolungare il congelamento parziale degli insediamenti. Eppure Washington non ha mollato: ha continuato a lavorare in parallelo, con ambasciatori in viaggio tra Ramallah, Gerusalemme e Amman, non per imporre una soluzione, ma per evitare che il vuoto si trasformi in esplosione. È un cambio di registro rispetto agli anni Bush: non più il mediatore trionfale di Annapolis, ma un vigile del fuoco che cerca di impedire che le braci tornino a divampare.
Quel che colpisce è il silenzio calcolato di George Mitchell: nessuna dichiarazione di fallimento, nessun ultimatum, solo una serie di incontri tecnici - sulle acque, sui checkpoint, sulle infrastrutture — che tengono aperto un canale, per quanto stretto. Perché Washington sa che, se oggi il processo collassa, non sarà possibile rilanciarlo prima delle elezioni presidenziali del 2012. E sa anche che, nel frattempo, la crescente influenza turca e qatariota - con il loro appoggio a Hamas e le critiche aperte a Israele - potrebbe ridisegnare l’intero equilibrio regionale. Non è dunque solo questione di pace: è questione di influenza. E in questo gioco, ogni settimana di colloqui “inutili” vale più di un comunicato di rottura.
Abu Mazen, dal canto suo, ha capito che il suo unico capitale è la pazienza: sa che Washington non può permettersi di lasciarlo cadere, perché la sua caduta significherebbe l’ascesa di chi non riconosce Israele - e quel rischio, nel 2010, non è teorico. È il ricordo ancora fresco del 2006, quando le elezioni hanno consegnato Gaza a Hamas. Per questo accetta di recitare la parte del partner affidabile, anche quando dentro di sé sa che ogni incontro serve più a tenere in piedi la facciata che a costruire uno Stato. Ed è forse questa la lezione più amara: che talvolta la diplomazia non è l’arte del possibile, ma l’arte del rimandabile.

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