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venerdì 5 novembre 2010

La pace come atto di riscrittura...

Non è mai stata una questione di buona volontà, ma di spazio – fisico, politico, psicologico. Quando oggi si parla di colloqui fra Israele e Palestina, si finisce sempre per tornare a Gerusalemme, non perché sia il cuore della disputa, ma perché è il suo specchio: chi la vuole indivisibile non sta difendendo pietre, ma un’idea di sovranità assoluta, irriducibile al compromesso. 

Eppure, proprio su Gerusalemme, in questi giorni, qualcosa è cambiato – non nella sostanza forse, ma nella forma: Ehud Barak ha accennato a concessioni territoriali, un gesto piccolo, quasi invisibile, eppure sufficiente a far tremare le certezze consolidate di Netanyahu, che per anni ha ripetuto la formula sacrale dell’indivisibilità come fosse un’assicurazione contro il tempo.

Quel che sorprende non è tanto la contraddizione fra il premier e il suo ministro, quanto il fatto che questa contraddizione abbia trovato spazio in pubblico, anche se filtrata dalla stampa. È segno che la pressione esterna – americana, certo, ma anche quella silenziosa dell’opinione pubblica internazionale – ha cominciato a incidere su una posizione che sembrava blindata. 

Non si tratta ancora di una svolta, ma di un cedimento nella corazza, appena percettibile, che apre uno spiraglio. E gli spiragli, in questi casi, contano più degli annunci ufficiali. Del resto, anche i palestinesi sanno che il diritto al ritorno per quattro milioni e mezzo di persone non è una richiesta negoziabile, ma un simbolo – e i simboli, quando diventano bandiere di massa, rischiano di soffocare ogni possibilità di movimento. 

Abu Mazen lo sa bene: per questo prova a spostare l’asticella verso un numero simbolico, intorno alle duecentomila persone, quelle davvero direttamente coinvolte nell’esodo del ’48. Non è una rinuncia, è un tentativo di trasformare un principio in una proposta. La differenza è sottile, ma fondamentale: si passa dall’assoluto al possibile, e in questo passaggio si gioca la partita più difficile – convincere la propria gente che la dignità non sta nel non cedere mai, ma nel saper scegliere quando e cosa cedere.

Anche la mappa parla chiaro: la Barriera eretta da Sharon, da sempre oggetto di contestazione, oggi funziona da confine de facto – e, forse, da confine psicologico. Israele difficilmente andrà oltre quel tracciato, non per scelta strategica, ma perché la società israeliana ha interiorizzato quel perimetro come una linea di sicurezza ormai consolidata. Ed è qui che si vede quanto la geografia sia diventata inseparabile dalla psicologia collettiva: ciò che era una contromisura militare è diventata una frontiera mentale.

Resta Gaza, sospesa fra due mondi – quello di Abu Mazen, che tratta a nome di una Palestina incompleta, e quello di Hamas, che rifiuta qualsiasi negoziato ma potrebbe trovarsi, un giorno, a dover giustificare un riconoscimento pragmatico di Israele proprio addossando la colpa delle concessioni a Fatah.

È un paradosso amaro, ma non privo di logica: talvolta la pace si costruisce anche con strumenti moralmente ambigui. L’attentato di Hebron, il peggiore in due anni, non è solo un colpo di coda, ma un tentativo di riaffermare un controllo sul tempo – perché chi vuole la guerra sa che deve farla scoppiare prima che qualcuno cominci davvero a immaginare la pace.


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