Eppure, proprio su Gerusalemme, in questi giorni, qualcosa è cambiato – non nella sostanza forse, ma nella forma: Ehud Barak ha accennato a concessioni territoriali, un gesto piccolo, quasi invisibile, eppure sufficiente a far tremare le certezze consolidate di Netanyahu, che per anni ha ripetuto la formula sacrale dell’indivisibilità come fosse un’assicurazione contro il tempo.
Quel che sorprende non è tanto la contraddizione fra il premier e il suo ministro, quanto il fatto che questa contraddizione abbia trovato spazio in pubblico, anche se filtrata dalla stampa. È segno che la pressione esterna – americana, certo, ma anche quella silenziosa dell’opinione pubblica internazionale – ha cominciato a incidere su una posizione che sembrava blindata.
Non si tratta ancora di una svolta, ma di un cedimento nella corazza, appena percettibile, che apre uno spiraglio. E gli spiragli, in questi casi, contano più degli annunci ufficiali. Del resto, anche i palestinesi sanno che il diritto al ritorno per quattro milioni e mezzo di persone non è una richiesta negoziabile, ma un simbolo – e i simboli, quando diventano bandiere di massa, rischiano di soffocare ogni possibilità di movimento.
Abu Mazen lo sa bene: per questo prova a spostare l’asticella verso un numero simbolico, intorno alle duecentomila persone, quelle davvero direttamente coinvolte nell’esodo del ’48. Non è una rinuncia, è un tentativo di trasformare un principio in una proposta. La differenza è sottile, ma fondamentale: si passa dall’assoluto al possibile, e in questo passaggio si gioca la partita più difficile – convincere la propria gente che la dignità non sta nel non cedere mai, ma nel saper scegliere quando e cosa cedere.
Anche la mappa parla chiaro: la Barriera eretta da Sharon, da sempre oggetto di contestazione, oggi funziona da confine de facto – e, forse, da confine psicologico. Israele difficilmente andrà oltre quel tracciato, non per scelta strategica, ma perché la società israeliana ha interiorizzato quel perimetro come una linea di sicurezza ormai consolidata. Ed è qui che si vede quanto la geografia sia diventata inseparabile dalla psicologia collettiva: ciò che era una contromisura militare è diventata una frontiera mentale.
Resta Gaza, sospesa fra due mondi – quello di Abu Mazen, che tratta a nome di una Palestina incompleta, e quello di Hamas, che rifiuta qualsiasi negoziato ma potrebbe trovarsi, un giorno, a dover giustificare un riconoscimento pragmatico di Israele proprio addossando la colpa delle concessioni a Fatah.
È un paradosso amaro, ma non privo di logica: talvolta la pace si costruisce anche con strumenti moralmente ambigui. L’attentato di Hebron, il peggiore in due anni, non è solo un colpo di coda, ma un tentativo di riaffermare un controllo sul tempo – perché chi vuole la guerra sa che deve farla scoppiare prima che qualcuno cominci davvero a immaginare la pace.

Nessun commento:
Posta un commento