È questo il paradosso che rende il tema dei profughi il più incandescente: non si discute di numeri, ma di memoria incarnata, di identità tramandata attraverso gesti, nomi, rituali. Ed è per questo che ogni tentativo di quantificare - 1948, 750mila persone; oggi, oltre quattro milioni di discendenti - finisce per sembrare una riduzione indecente, quasi un tradimento.
Eppure, nel chiuso delle stanze di negoziazione, si parla di cifre: duecentomila, su base umanitaria; cinquantamila all’anno per cinque anni; un numero simbolico, accompagnato da un riconoscimento morale e un fondo internazionale per il risarcimento.
Sono proposte che farebbero storcere il naso a chiunque le leggesse fuori contesto - eppure, nel 2010, rappresentano il massimo che l’ala pragmatica del Fatah è disposta a proporre senza saltare in aria. Perché Abu Mazen sa che, se chiedesse davvero il ritorno di massa, perderebbe non solo Israele, ma anche la Giordania - che, con i suoi due milioni di palestinesi, teme più di ogni altra cosa un’inversione demografica. E sa che anche in Cisgiordania, molti giovani non sognano più Haifa, ma Ramallah con l’acqua corrente e i posti di lavoro.
La vera frattura, allora, non è fra israeliani e palestinesi, ma fra due modi di intendere la giustizia: quella che guarda al passato come a un debito da saldare, e quella che lo vede come un fardello da trasformare. Israele non nega la sofferenza - lo ha fatto implicitamente con la creazione dell’UNRWA, che ha finanziato per decenni - ma rifiuta ogni responsabilità diretta, perché ammetterla significherebbe mettere in discussione la narrazione fondativa dello Stato.
Eppure, in un incontro a Londra, un ex funzionario del Mossad ha detto, a bassa voce: «Non possiamo accettare il ritorno, ma forse possiamo accettare di dire: sappiamo che avete sofferto. Non per colpa nostra - ma sappiamo». Non è molto. Ma nel novembre 2010, è più di quanto sia mai stato detto ufficialmente.

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