Non è un episodio isolato, ma una strategia protratta: ha fatto collassare l’industria locale, svuotato i mercati, reso instabile ogni fondamento di autonomia. Oggi, quasi un abitante su due è disoccupato; l’80% della popolazione vive in povertà, e più della metà sono bambini - cresciuti tra macerie non ancora smaltite e promesse mai mantenute [²].
Il blocco non pesa soltanto sui redditi: pesa sulle vite. Limita il diritto alla salute, all’istruzione, a un riparo stabile - e lo fa in modo insidioso, con la lentezza di una carenza che si accumula. Novanta su cento fonti d’acqua non sono potabili; la rete elettrica funziona a metà regime; i trasporti pubblici restano paralizzati. Eppure, la gente di Gaza ha cercato vie - riciclando, scavando tunnel verso l’Egitto - e in parte ha riattivato cliniche, scuole, piccole botteghe. Ma neanche questa inventiva ha colmato il vuoto lasciato da migliaia di case mai ricostruite, o dai due ospedali principali - Al-Wafa e Al-Quds - la cui riparazione è iniziata solo nel febbraio 2010, dopo mesi di attesa per un sacco di cemento [³].
L’offensiva “Piombo Fuso” (dicembre 2008 - gennaio 2009) non fu che la punta più visibile di un sistema già instaurato - ma fu quella che, per pochi giorni, fece emergere Gaza dal silenzio globale. Sedici operatori sanitari persero la vita; ventinove ambulanze furono distrutte; 40 centri sanitari su 60 e 12 ospedali su 24 subirono danni [⁴]. I servizi materno-infantili si interruppero; i pazienti cronici rimasero senza terapie per settimane. Ma il vero problema non è il passato: è la sua protrazione.
A oltre un anno dai bombardamenti, nulla si è normalizzato - perché non può. Il blocco impedisce la manutenzione stessa del sistema: non entrano pezzi di ricambio per defibrillatori, culle termiche, ascensori. All’European Gaza Hospital, solo uno dei tre ascensori funziona; i laboratori di cardiologia aspettano mesi per ricevere uno stent. Centinaia di strumenti—TAC, pompe, batterie - rimangono fermi ai valichi, a volte per oltre un anno [⁵].
E qui si apre un’altra ferita: quella invisibile. Lo stress psicologico non è un effetto collaterale - è una conseguenza diretta dell’assedio. Secondo l’Ufficio Centrale Palestinese di Statistica, il 77,8% delle famiglie ha almeno un membro con sintomi chiari: pianto incontrollato, terrore del buio, insonnia [⁶]. Nei bambini, meno del 10% mostrava, già nel marzo 2009, soltanto lievi segni di stress post-traumatico. Negli adulti, la percentuale saliva al 37%—con punte del 70% tra gli anziani [⁷].
Anche gli uomini - tradizionalmente silenziosi - hanno cominciato a parlare del proprio disagio. Ma il sostegno è quasi introvabile. E nel vuoto lasciato dallo Stato, si infiltra un’altra violenza: quella domestica, cresciuta con la frustrazione, con la perdita di dignità. Le donne reggono le famiglie - e ne pagano il prezzo più alto.
Non si tratta solo di mancanza di farmaci o cemento: si tratta di un collasso dei determinanti sociali della salute. Si vede nell’acqua, nella corrente, nei rifiuti - ma anche nei dati: la mortalità infantile, dopo decenni di lenta riduzione, ha interrotto il suo declino - e oggi a Gaza supera del 30% quella della Cisgiordania [⁸]. Come ha scritto l’Organizzazione Mondiale della Sanità già nel 2009: «È impossibile assicurare un sistema sanitario sicuro ed efficace nelle condizioni di assedio in atto dal giugno 2007. Non basta la disponibilità di farmaci: occorrono attrezzature, ricambi, continuità» [⁹].
Eppure, la responsabilità non è tutta da una parte sola. La comunità internazionale - le agenzie umanitarie, i governi -non ha mai realmente messo in discussione questa logica. Ha accettato liste ridotte, ha atteso autorizzazioni. Non ha sperimentato vie alternative -nonostante i tunnel, secondo la Banca Mondiale nel 2009, fossero già diventati l’arteria principale dell’economia gazawi [¹⁰].
Oggi, mentre si discute - talvolta con asprezza -del movimento BDS, è impossibile non notare l’ironia tragica di un’altra forma di boicottaggio: quella che Israele attua da quasi vent’anni contro 1,5 milioni di persone—non come sanzione politica, ma come condizione di vita quotidiana. Una forma di boicottaggio che non ha bisogno di slogan, perché si esprime in letti vuoti, in ambulanze ferme, in bambini che sognano bombe, in madri che allattano acqua salmastra.
È questa realtà non astratta, non ideologica, ma concreta, che reclama non tanto indignazione quanto coraggio: il coraggio di riconoscere che i diritti non sono negoziabili, neppure in nome della sicurezza; che un popolo non può essere punito in blocco; e che la salute, come la libertà, non è un privilegio da concedere, ma un fondamento da difendere - con fermezza, con coerenza, e con urgenza.
Note e fonti
[¹] OCHA, “Gaza Strip: Humanitarian and Reconstruction Needs”, 2009
[²] UNRWA, Annual Operational Report 2009 – UNRWA (v. p. 6, “Socio-economic conditions”)
[³] WHO, “Rehabilitation of Health Facilities in Gaza”, febbraio 2010 – WHO EMRO
[⁴] WHO/OCHA, “Damage Assessment in the Gaza Strip”, gennaio 2009
[⁵] OCHA, “Monthly Humanitarian Monitor”, aprile 2010 – archivio
[⁶] Palestinian Central Bureau of Statistics (PCBS), “Socio-Economic and Food Security Survey”, 2009 – PCBS
[⁷] WHO, “Mental Health in Emergencies: Gaza”, marzo 2009 – WHO EMRO
[⁸] PCBS & WHO, “Health Status in the Occupied Palestinian Territory”, 2009
[⁹] WHO, Statement on the Health Situation in Gaza, maggio 2009 – WHO EMRO Archivio
[¹⁰] World Bank, “Economic Monitoring Report to the Ad Hoc Liaison Committee”, aprile 2009 – World Bank (v. pp. 15–17 su tunnel ed economia informale)

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