Non è solo propaganda: è una ristrutturazione cognitiva, un tentativo di spostare il punto di equilibrio del dibattito prima ancora di sedersi al tavolo.
E il fatto che il termine "peace process" sia ormai usato tra virgolette perfino dai giornalisti della BBC dice molto di quanto la fiducia nella sua stessa esistenza si sia logorata.
In Israele, la svolta è avvenuta con la diffusione capillare di video amatoriali - soprattutto tra i giovani - che mostrano i blocchi stradali, le demolizioni, i soldati a scuola: non più come eccezioni, ma come sistema.
Non sono filmati militanti: sono sobri, senza commento, spesso girati con il cellulare. Eppure hanno un effetto corrosivo, perché non accusano - mostrano. E in una società abituata a pensarsi come vittima perenne, vedere se stessi come apparato di controllo crea un cortocircuito morale difficile da ignorare.
Dall’altra parte, anche i palestinesi stanno cambiando tono: le foto dei martiri con le armi in pugno lasciano spazio a ritratti di ingegneri, insegnanti, madri in fila ai checkpoint, non per nascondere la rabbia, ma per renderla più leggibile, più condivisibile.
È una scelta strategica, nata anche dall’esperienza di Gaza dopo l’Operazione Piombo Fuso: il mondo non ha reagito alle bombe, ma alle immagini dei bambini negli ospedali. Non per cinismo, ma perché, in un’epoca di sovraesposizione, la compassione va guidata.
Eppure, in mezzo a questa rincorsa alle parole giuste, c’è un silenzio che cresce: quello sulle minoranze interne. I beduini del Negev, i drusi di Golan, i cristiani di Betlemme - tutti scomparsi dal racconto ufficiale, perché non rientrano nelle due grandi narrazioni antagoniste.
Eppure sono loro, forse, il segnale più chiaro che la soluzione non sarà né binazionale né a due Stati puri - ma qualcosa di più ibrido, più fragile, più reale. Solo che nessuno, nel novembre 2010, ha ancora il coraggio di chiamarla con un nome.

Nessun commento:
Posta un commento