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lunedì 22 novembre 2010

Il silenzio che urla: una testimonianza civile sulle conseguenze del dissenso in Iran.

Quando, il 12 giugno 2009, venne annunciata la rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad, nessuno aveva previsto che quel responso avrebbe scosso fino alle fondamenta il corpo vivo della società iraniana - non perché inatteso, forse, ma perché arrivò a rompere una soglia di sopportazione che, fino ad allora, era stata tenuta insieme da un equilibrio fragile tra obbedienza e speranza. Le strade si riempirono presto di voci, di volti, di cartelli scritti a mano, e ben presto di fumo, di urla, di corpi trascinati via. Ciò che seguì non fu una semplice reazione di forza, ma una macchina repressiva di ampiezza e durezza senza precedenti nella storia della Repubblica islamica, capace di trasformare anche i momenti più intimi - una preghiera, un funerale, una celebrazione religiosa - in occasioni di controllo, punizione, isolamento.

Già nei primi giorni, le cifre ufficiali parlavano di oltre quaranta morti, ma basta leggere con attenzione i rapporti di Amnesty International per capire che quel numero era solo la punta di un iceberg sanguinante. Migliaia di arresti - almeno cinquemila, si stima - e tra questi, tanti giovani, tanti studenti, tanti semplici cittadini che non avevano fatto altro che chiedere trasparenza. Molti di loro furono sottoposti a torture sistematiche, processati in tempi rapidissimi e condannati a pene che andavano dal carcere alle frustate, sempre con una procedura così viziata da non meritare nemmeno il nome di giustizia. Dodici condanne a morte furono emesse in quei mesi, una sola revocata; eppure, già allora, qualcosa nel modo in cui venivano raccontati quegli eventi - il silenzio dei media statali, la sparizione dei corpi, il vuoto dei nomi - lasciava intuire che la repressione non voleva soltanto punire, ma cancellare la possibilità stessa del ricordo.

L’autunno non portò tregua. Il 22 ottobre, settanta persone furono arrestate mentre pregavano in una casa privata per i compagni detenuti - non una manifestazione, non uno slogan, solo voci sommesse in una stanza chiusa, eppure abbastanza per far scattare la morsa. Poi, con l’arrivo del nuovo anno, il cerchio si strinse ancora: novanta studenti furono fermati o espulsi dalle università, in una chiara strategia volta a impedire che i campus diventassero focolai di dissenso organizzato. Il 7 dicembre, Giornata nazionale dello studente, vide nuovi arresti; e il 20 dello stesso mese, mentre un gruppo di persone - tra cui difensori dei diritti umani - si recava al funerale dell’Ayatollah Montazeri, l’uomo che aveva osato criticare dal pulpito le violenze dello Stato, vennero fermati, ammanettati, portati via. Era chiaro, ormai, che ogni forma di lutto pubblico, ogni espressione di solidarietà, era stata dichiarata sovversiva.

Il culmine arrivò il 27 dicembre, giorno dell’Ashura - una data sacra per milioni di iraniani, un momento di penitenza e riflessione spirituale - trasformato in un teatro di scontri, con almeno quindici persone uccise e più di mille arrestate. Da quel momento, si capì che non era più in corso una repressione di eventi, ma una riscrittura forzata di ogni spazio condiviso: religioso, civile, accademico, familiare. A gennaio, il regime cercò di chiudere anche la finestra sul mondo esterno, bandendo sessanta organizzazioni straniere - emittenti, agenzie di stampa, ong - come se tagliare i cavi del dialogo potesse fermare la domanda di verità. Fu allora che, il 28 gennaio 2010, furono impiccati Mohammad Reza Ali-Zamani e Arash Rahmanipour: due giovani, processati per “comportamento ostile a Dio”, accusati di appartenere a un movimento monarchico che, secondo molte testimonianze indipendenti, Rahmanipour non aveva mai conosciuto. La loro morte non fu solo un atto di giustizia sommaria - fu un messaggio esplicito: anche chi sbaglia nome, data o appartenenza rischia la vita.

L’11 febbraio, trentunesimo anniversario della Rivoluzione, avrebbe dovuto celebrare un’unità nazionale, invece le strade di Teheran tornarono a essere teatro di cariche, lacrimogeni, manganellate, con figure simbolo dell’opposizione - come l’ex candidato Hossein Mousavi - tenute agli arresti domiciliari per impedire qualsiasi forma di raduno. Eppure, proprio in quel silenzio forzato, si fece più forte il senso di una frattura: non più tra governo e opposizione, ma tra un apparato che usava la religione come arma di legittimazione e una società che continuava a chiedere conto, non in nome di una fazione, ma di un principio antico - la dignità. In marzo, un’altra ondata di arresti colpì decine di attivisti per i diritti umani; in aprile, quarantacinque cittadini afghani furono giustiziati in massa; il 9 maggio, quattro curdi e un iraniano furono impiccati con la stessa accusa - moharebeh - usata  sempre più spesso come una formula vuota, capace di trasformare qualunque dissenso in crimine contro la divinità.

Non si tratta, oggi, di riesumare solo i numeri o le date, ma di riconoscere come quei mesi abbiano segnato un passaggio cruciale: la consapevolezza, da parte del potere, che il controllo non si esercita soltanto con i carri armati, ma con la cancellazione della parola, con la distorsione del sacro, con la trasformazione del lutto in pericolo. Eppure - e questo è ciò che rende quella stagione così importante da ricordare - nonostante tutto, le voci non tacquero. Non subito, almeno. E forse è proprio da lì, da quel momento in cui il dissenso smise di chiedere riforme e cominciò a chiedere senso, che possiamo ripartire per capire non solo ciò che è stato, ma ciò che ancora non è riuscito a essere sepolto.

Se desideri, posso anche integrare - con discrezione e senza nominare persone specifiche - alcuni link ufficiali ai rapporti di Amnesty International o ad altre fonti verificate, per offrire ai lettori la possibilità di approfondire con strumenti affidabili. Fammi sapere.

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