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venerdì 31 ottobre 2025

Quando il pianeta parla e il mondo ascolta con "interesse".

Continuando il discorso che porto avanti da mesi sul blog, mi sono imbattuto in una nota su una pagina Instagram che ha catturato subito la mia attenzione e da cui ho tratto spunto per questa riflessione.

La notizia confermava, con dati incontrovertibili, ciò di cui si parla da tempo: il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato e, con ogni probabilità, il più caldo degli ultimi 125.000 anni. Non si tratta di un semplice numero, ma di un segnale profondo emerso dal sesto rapporto sullo “Stato del Clima”.

Mi colpisce sempre pensare a come questi parametri vitali del pianeta — 22 su 35 ormai a rischio (nel post di domani ne parlerò più nel dettaglio) — non siano più fredde statistiche, ma sintomi visibili di un’accelerazione della crisi climatica. Dagli oceani che si surriscaldano alle foreste divorate dalle fiamme, la percepiamo ormai come un rumore di fondo alla nostra esistenza.

Ascoltando Johan Rockström, si comprende che molti di questi indicatori hanno da tempo superato ogni soglia storica. Non si può allora non riflettere sulla natura interconnessa dei rischi che affrontiamo: dall’indebolimento delle correnti oceaniche alla fragilità delle risorse idriche. È un monito che va ben oltre l’allarme ambientale: ci parla della salute stessa dei sistemi che ci permettono di vivere.

Eppure, mentre la realtà fisica del pianeta ci parla con un linguaggio diretto e implacabile, la nostra risposta collettiva sembra annaspare in un paradosso stridente. Gli “Accordi di Parigi” fissano obiettivi vincolanti, ma di fatto non prevedono sanzioni, affidandosi unicamente alla buona volontà degli Stati.

Questo meccanismo è visibile anche nel nostro paese, dove i piani vengono aggiornati senza che i ritardi comportino conseguenze reali. Si rivela così un conflitto profondo tra sovranità nazionale e urgenza globale: non esistono tribunali internazionali capaci di imporre tagli alle emissioni, ma solo un dialogo tra pari, un osservarsi a vicenda mentre la situazione precipita.

È affascinante e, al tempo stesso, angosciante notare come, nonostante il collasso dei parametri climatici, l’interesse mondiale per il tema stia crescendo. Forse la spinta non viene più solo dalla coscienza morale, ma dagli incentivi economici che stanno inclinando l’ago della bilancia verso la cosiddetta transizione ecologica, trasformandola da dovere etico a calcolo strategico.

Forse è proprio in questa frizione — tra la lentezza della politica e la nascita di nuovi interessi — che si sta scrivendo il nostro futuro. E forse è qui che si conferma un meccanismo ricorrente: le istituzioni, nazionali e internazionali, sembrano più concentrate nel coltivare un “interesse” economico e finanziario che nel monitorare con serietà gli indicatori chiave — quei “vital signs” che dovrebbero misurare lo stato reale del sistema climatico e il progresso effettivo verso il suo recupero.

giovedì 30 ottobre 2025

RESISTERE!

Talvolta le parole appaiono consumate, quasi svuotate del loro significato più profondo, eppure alcune conservano un potere antico, una risonanza che scuote l’anima. RESISTERE! 

È questa la parola che scelgo, che abbiamo scelto, come un faro nell’oscurità di un presente spesso sconcertante. 

Non è un titolo, ma è il battito del cuore di tutti coloro che avvertono un profondo malessere, un disagio viscerale verso uno stato di cose che non ci rappresenta più, e che anelano a un cambiamento non più rimandabile, un cambiamento definitivo.

Mi torna in mente l’immagine della mia pagina di Facebook - https://www.facebook.com/resistworld - e quella citazione attribuita a Malcolm X che sembra scavata nella pietra della nostra contemporaneità: «Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono». 

Queste parole non sono un semplice monito, sono una lente di ingrandimento gettata sul meccanismo più subdolo dei nostri tempi, quello che ci porterebbe, quasi senza accorgercene, a sostenere per il carnefice mentre guardiamo con sospetto la vittima, un ribaltamento della realtà che intorpidisce le coscienze e spegne la volontà.

E proprio oggi, l’associazione LIBERA, a cui ho l’onore di appartenere, ci ricorda con parole chiare e dolorose perché quella vigilanza sia più cruciale che mai. Negli ultimi giorni si sono riaffacciate modalità criminali e barbare, atti vigliacchi concepiti per mettere a tacere chi della verità e dell’informazione libera ha fatto la propria bandiera. È un colpo che ci ferisce tutti, che ci riporta a pagine buie che credevamo di aver voltato, e invece no, ci siamo ancora in mezzo, e questo ci grida che non possiamo più permetterci di essere spettatori.

C’è un mondo che resiste, sì... un mondo fatto di persone comuni, di cittadini che, in silenzio o a gran voce, hanno compiuto la scelta più importante: hanno deciso da che parte stare. È il mondo di chi non si volta dall’altra parte quando passa l’ingiustizia, di chi crede nella verità anche quando è scomoda, di chi ha il coraggio di mettere in discussione il potere e di fare domande che bruciano. È fatto di chi difende i diritti di tutti, anche dei più invisibili, di chi non si rassegna ma costruisce alternative concrete, di chi si ostina a credere nel bene nonostante tutto, di chi agisce con la ferma determinazione di non lasciare indietro nessuno.

Ecco perché mi permetto in questo post di riportarvi la nota pubblicata in questi giorni dall'associazione LIBERA: Negli ultimi giorni si sono riaffacciate modalità criminali per mettere a tacere chi della verità e dell’informazione libera ha fatto il proprio lavoro. Un atto barbaro e vigliacco che ci riporta indietro nel tempo, ma che ci ricorda quanto sia ancora necessario prendere parte. E Resistere! C’è un mondo che resiste. Un mondo fatto di persone comuni, cittadine e cittadini che hanno scelto da che parte stare. È il mondo di chi non si volta dall’altra parte, di chi crede nella verità, di chi mette in discussione il potere, di chi fa domande scomode, di chi difende i diritti, di chi costruisce alternative, di chi si ostina, di chi non lascia indietro nessuno, di chi agisce, di chi non si rassegna alle ingiustizie. Noi la nostra scelta l’abbiamo fatta. Adesso tocca a te!

Sì... noi tutti, in LIBERA, quella scelta l’abbiamo fatta da tempo, piantando i nostri piedi sul terreno della legalità e della giustizia sociale. Ma una scelta, da sola, non basta. Deve diventare un coro, un movimento, un’onda che non si può più fermare. E allora consentitemi di rivolgervi una domanda, semplice e diretta, che bussa alla porta della vostra coscienza: e tu? La tua scelta qual è? Perché il tempo di sperare che qualcun altro sistemi le cose è finito, è scaduto. È giunto il momento, il tuo momento, di fare la tua parte. Il futuro non aspetta, e la storia ci guarda.

mercoledì 29 ottobre 2025

Quando la scienza rifiuta il confronto. Non resta che incontrare la Prof.ssa Celeste Saulo e il Prof. Jan Barani.

Facendo seguito a quanto avevo riportato nel post di ieri - avevo anticipato la mia intenzione di contattare il Dott. Grassi per un aggiornamento - beh, l'ho fatto, e lui mi ha risposto quasi subito, con una chiarezza che non ammette repliche.

La sua risposta ha il suono secco di un'ammissione che conferma ogni più fondato sospetto. Non solo mi ha confermato la correttezza di quanto avevo ricostruito, ma ha aggiunto altri dettagli essenziali che rendono il quadro ancor più fosco.

Mi ha riferito (e quindi confermato) ad esempio, che per ben due volte è stato modificato lo schermo della stazione senza che il SIAS comunicasse al pubblico l'avvenuta modifica, e soprattutto senza spiegarne le ragioni. Questo non è più solo incuria, ma un pattern di opacità volontaria, una sistematica alterazione della scena senza rendere conto a nessuno.

E poi, il cuore della questione si sposta a Torino, al Laboratorio INRiM, quel tempio della metrologia che rappresenta il garante ultimo della veridicità del dato. 

Il Dott. Grassi mi ha confermato che, nonostante le ripetute interlocuzioni compiute dal suo legale, il Laboratorio non ha dato riscontro alla sua richiesta di accesso agli atti o di confronto. Per cui, a differenza di quanto si pensava, il muro di silenzio, non è solo regionale, ma si erge anche di fronte a un Istituto Nazionale di altissima competenza. 

Le sue parole successive squarciano il velo su quello che potrebbe essere il nodo cruciale di tutta la vicenda. Egli ricorda che nel documento tecnico-scientifico a firma di vari autori del laboratorio INRiM di Torino, con il quale la WMO ha poi deciso di approvare il record di 48,8°, è stato riportato che la stazione non era danneggiata e che dall'analisi delle foto non risultavano anomalie. 

A questa affermazione il Dott. Grassi - vedasi le prove evidenziate da egli, link: https://www.meteoweb.eu/2025/07/caldo-sicilia-record-europeo-floridia-siracusa-agosto-2021-e-clamoroso-falso-storico/1001819097/?_gl=1*m4g6uu*_up*MQ..*_ga*MTgyMDk3MzEzMS4xNzYxNjY2Mjg3*_ga_KQG15EME6Z*czE3NjE2NjYyODQkbzEkZzAkdDE3NjE2NjYyODQkajYwJGwwJGgw - oppone una constatazione di un'evidenza disarmante, quasi un paradosso tragico: peccato che lo schermo solare avesse un buco in cui ci potevano entrare anche gli uccellini.

Questa immagine, così potente e grottesca, riassume da sola l'abisso che separa la realtà dei fatti dalla narrazione ufficiale. Da un lato, un documento scientifico di convalida che, basandosi su foto non specificate, asserisce l'integrità della strumentazione, dall'altro, la testimonianza oculare di un buco tale da poter accogliere un uccello. 

Viene quindi spontaneo chiedersi: come si conciliano queste due verità? Quali foto sono state esaminate? E perché, di fronte a una discrepanza così macroscopica, non c'è stata la minima volontà di un confronto tecnico trasparente con chi quelle anomalie le ha documentate per anni? 

Ciò che emerge, ormai in modo inequivocabile, non è più la storia di un semplice dato sbagliato, ma il racconto agghiacciante di come un dubbio, coltivato con tenacia e supportato da prove incontrovertibili, stia mettendo a nudo le crepe di un sistema che forse ha più a cuore la protezione di una narrazione e dei finanziamenti che essa genera, che non la pura, semplice e, in questo caso, tremendamente scomoda, accuratezza.

Il Dott. Grassi ha aggiunto di aver già richiesto un incontro ufficiale al World Meteorological Organization (WMO), indirizzando la richiesta direttamente alla Prof.ssa Celeste Saulo, Segretario Generale dell'organizzazione, e in copia anche al Prof. Jan Barani

Da questo passaggio cruciale, posso già prevedere che a breve questo muro di gomma inizierà a mostrare tutte le sue incrinature, e sono certo che molti aspetti della storia verranno finalmente portati alla luce.

Lasciate quindi che concluda questa vicenda con un pensiero in versi: 

Del sole che ha surriscaldato i sensori,

nessuno più ascolta i suoi colori.

Si spensero i sogni e i loro splendori,

povere misurazioni senza valori.

E del vento che avrebbe detto il vero,

non resta che un silenzio bugiardo e severo.

Delle temperature... mani velate

ne han falsato le cifre incantate. 

martedì 28 ottobre 2025

A Vienna si discute della credibilità perduta della meteorologia. E il caso "Sicilia" è al centro della polemica.

Come molti di voi sapranno, il record di temperatura di 48.8°C registrato a Siracusa l'11 agosto 2021 è stato ufficialmente convalidato dopo un attento esame. 

Ciò che in pochi sanno - e che emerge da documenti ufficiali - è che l'indagine metrologica alla base di quella convalida è stata condotta nell'ambito del progetto "Climate Reference Station" (CRS-EMPIR). 

Questo progetto, di altissimo profilo scientifico, è stato cofinanziato dal programma EMPIR e dall'Unione Europea attraverso Horizon 2020. La sua missione era chiara: sviluppare stazioni di riferimento climatologiche con strumenti metrologicamente validati per aumentare l'accuratezza delle misurazioni e rafforzare la fiducia nei dati raccolti. In altre parole, doveva eliminare ogni dubbio, ogni incertezza, ogni possibile bias ambientale che potesse inficiare i dati cruciali per lo studio del cambiamento climatico. 

Difatti, la stazione di riferimento climatica installata dal progetto vicino a Torino, in Italia, è un gioiello di precisione, installata in un'area specifica libera da ostacoli e conforme alle rigorose raccomandazioni dettate dal "World Meteorological Organization"(WMO). I suoi dati sono così pregiati da essere stati proposti per entrare a far parte della ristretta cerchia di stazioni di riferimento della "GCOS Surface Reference Network" (GSRN). 

Cosa significa tutto questo? Significa che la convalida del record di Siracusa non è stata un'operazione routine. È stata un'operazione di altissima scienza, condotta con la metodologia più avanzata e rigorosa al mondo, sotto l'egida dei programmi di ricerca più prestigiosi d'Europa.

La domanda allora che sorge spontanea, e che ancora attende una risposta chiara, è: perché tanta metrologia avanzata per convalidare un dato, e poi, forse, così poca trasparenza su tutto ciò che quel dato ha scatenato a livello istituzionale e sulle responsabilità di chi avrebbe dovuto prevenire le conseguenze di tali eventi estremi?

Infatti, mentre riflettevo su questa contraddizione, mi sono ritornate in mente le parole pronunciate dal Dott. Grassi che ora risuonano con una precisione quasi profetica: Il mio impegno - aveva affermato - è integralmente sostenuto con le mie finanze ed è soprattutto animato dal principio di verità. Posso altresì affermare di essere autonomo e indipendente a qualsiasi logica di potere, ma alla luce di quanto ho potuto direttamente verificare, ritengo inammissibile che un falso record sia stato convalidato da Enti, Organizzazioni, Istituti che dovrebbero ispirarsi esclusivamente al rigido metodo scientifico. In queste modalità, viceversa, ho riscontrato molte opacità. 

Una dichiarazione che quando mi era stata - ufficialmente - comunicata, aveva sollevato un interrogativo ineludibile: chi beneficia di questa opacità e a quali finanziamenti pubblici, magari erogati proprio per garantire trasparenza e accuratezza, si è attinto, già... mentre un dato così fragile veniva elevato a verità indiscutibile?

La sua riflessione poi si è fatta ancora più penetrante, svelando retroscena che hanno gettano una luce sinistra sull'intera vicenda. Il SIAS - secondo il Dott. Grassi - dopo la registrazione del record, ha sostituito (per ben due volte) lo schermo bucato, sostituendolo con altri a norma. 

Ora... di queste modifiche il SIAS non ha mai dato comunicazione ufficiale, difatti - sempre secondo il geologo Grassi - quest'ultima ha rimosso il secondo schermo dove alloggiava un altro sensore, sempre senza comunicarlo. Insomma, la stazione è stata modificata all’insaputa di tutti, egli ritiene che quanto sopra sia avvenuto nel tentativo di normalizzarla, ovvero di eliminare quella sovrastima sistemica che quasi proprio in quei i giorni quella stazione registrava.

Difatti, il dott. Grassi proseguendo ha commentato: Mi sono convinto che questo record di 48,8° serviva - o forse serve - a qualcuno per creare allarmismo climatico e incutere spavento alla popolazione.

Perché? Semplice dichiara Grassi: da questo allarmismo si generano nuovi dibattiti, nuove politiche economiche, insomma diventa più facile condizionare le nostre società. Affermare che siamo sulla soglia dei 50° ha un impatto devastante verso l’opinione pubblica, perché suscita grande panico. È qui che il dubbio si fa concreto: quanti progetti, quanti finanziamenti europei e nazionali legati alla cosiddetta transizione ecologica o all'adattamento climatico trovano la loro ragion d'essere in narrazioni costruite su dati così incerti? Ed allora, ecco che viene spontaneo chiedersi: "Chi trae vantaggio da questo panico indotto"?

Ma nel frattempo - in attesa di comprendere (come tanti di voi) cosa sia realmente accaduto - e dopo aver letto e ascoltato in un video pubblicato su Youtube le parole del Dott. Grassi e del suo legale, si... proprio mentre venivano poste quelle domande, è giunta da Vienna, dal Meteorological Technology World Expo 2025, una conferma sconcertante che dà un peso internazionale a quei miei primi, solitari dubbi, quando iniziai a parlare di questo problema. 

L’intervento di Jan Barani, uno dei massimi esperti internazionali in strumentazione meteorologica, ha sollevato proprio il caso del termometro malfunzionante della stazione SIAS in Sicilia, citando esplicitamente il lavoro del geologo Alfio Grassi.

Barani ha parlato di come la meteorologia stia perdendo credibilità, afflitta dal "teatro delle schede tecniche", dove le specifiche dei sensori mostrano buone performance in laboratorio, ma non riescono a mantenere la stessa accuratezza in condizioni reali. Ha evidenziato altresì come un errore di 3°C, - proprio come quello documentato dal Dott. Grassi - comporti una distorsione del 30% nelle previsioni, influenzando gravemente le previsioni energetiche e climatiche. 

Ecco, allora, che inizio a pensare che i miei sospetti non erano affatto campati in aria, ma trovano ora un riscontro autorevole, sì... in una sede prestigiosa, trasformando una questione che ipotizzavo "locale", in un simbolo di una crisi di fiducia globale.

Sappiamo tutti come dopo l'intervista realizzata al Dott. Grassi, egli, non abbia alcuna intenzione di fermarsi, tanto da avermi anticipato d'aver inoltrato, richiesta di accesso agli atti, al Laboratorio Metrologico INRiM di Torino, dove per l'appunto, era stato effettuato il test di calibratura della strumentazione della stazione di Floridia allo scopo di convalidare il record. 

Confido in un celere riscontro - aveva sottolineato Grassi alcuni giorni fa - al fine di fugare alcuni miei sospetti. È l'ultimo, necessario tassello di un'indagine che vuole arrivare fino in fondo, per scoprire non solo la verità su un singolo termometro, ma su un sistema che sembra aver smarrito il suo legame con il rigore scientifico, preferendo alimentare una narrazione utile piuttosto che affrontare la complessità della realtà. 

E difatti il Dott. Grassi aveva anticipato che pensava di inoltrare richiesta di accesso agli atti al Laboratorio Metrologico INRiM di Torino, dove era stato per l'appunto effettuato il test di calibratura della strumentazione della stazione di Floridia allo scopo di convalidare il record.

Cosa aggiungere (ho pensato ieri - mentre stavo scrivendo questo post - di contattare per mail il Dott. Grassi, per sapere se nel frattempo egli abbia ricevuto le risposte ufficiali che desiderava) ciò che alla fine emerge non è solo la storia di un dato sbagliato, ma il racconto di come un dubbio, coltivato con tenacia e supportato da prove, stia lentamente smontando una verità imposta, rivelando crepe in un sistema che forse ha più a cuore il consenso e il finanziamento che la pura, semplice e a volte scomoda, accuratezza. 

Non mi resta che promettere ai miei lettori che, se vi saranno nuovi sviluppi, farò in modo di farveli conoscere.

lunedì 27 ottobre 2025

Da una nota su Instagram, una riflessione personale.

Ho letto ieri sera una nota su "Instagram" che invitava a vietare l’aborto per far ripartire la natalità, definendolo un omicidio e un fardello disumano, e altresì, proponeva di bruciare in un rogo liberatorio tutto ciò che viene considerato una minaccia per i giovani, dalla pornografia all’indottrinamento gender, affermando la necessità di tornare a una “famiglia vera” e a ruoli di genere rigidamente definiti.

Ma come ripeto spesso, a volte le risposte più semplici ai problemi complessi, sono proprio quelle che più ci allontanano da una reale soluzione. 

Già... la tentazione di imporre un ordine, di stabilire regole ferree e di eliminare simbolicamente tutto ciò che non vi si conforma è comprensibile in un'epoca di grandi incertezze, ma rischia di essere una cura peggiore del male. 

Difatti, la vera sfida, forse, non sta nel tornare a un passato idealizzato o nell'ergere muri di divieti, ma nel costruire un presente capace di accogliere la complessità con pragmatismo e un rispetto infinito per le persone.

Pensiamo al tema della natalità. Il cuore urla contando ogni vita che non c'è più, e la statistica di quel gran numero d'interruzioni di gravidanza è un dato che interpella la coscienza di tutti, ma la risposta non può limitarsi a un divieto perentorio. 

Come ho scritto in questi mesi, obbligare una donna, specialmente in casi estremi come una violenza, a portare avanti una gravidanza non è un atto di amore per la vita, ma l'imposizione di un trauma profondo che ignora la sua salute psicofisica. 

Perché difendere la vita significa, prima di tutto, sostenere le vite esistenti in tutte le loro difficoltà, creando una rete sociale ed economica che renda desiderabile e sostenibile la maternità, non vissuta quindi con paura.

Allo stesso modo, il concetto di famiglia merita una discussione onesta che vada oltre gli slogan. È indubbio che la famiglia tradizionale abbia una sua forza, ma non è l'unico luogo in cui l'amore e la stabilità possano fiorire. 

Onestamente, posso nutrire personali riserve, magari legate al disagio sociale che un bambino potrebbe incontrare, ma devo anche riconoscere con altrettanta onestà come, molte coppie omosessuali, offrano un affetto più autentico e responsabile di tante famiglie eterosessuali in crisi. 

L'amore non ha un'unica forma, e la stabilità di un figlio nasce dalla qualità delle relazioni, non dall'adesione a un modello astratto.

Quando si parla di bruciare le influenze negative per i giovani, si tocca un nervo scoperto di ogni genitore. Certo, la paura è reale, ma un rogo, per quanto liberatorio possa apparire, è solo un atto distruttivo che non costruisce nulla. 

Non si combattono le dipendenze e le insidie con la censura, ma educando alla responsabilità, al senso critico, alla gestione delle emozioni. Bruciare non educa, distrugge. E' l'educazione l'unico vero antidoto all'indottrinamento, di qualsiasi segno esso sia.

Sì... alla fine, il punto fondamentale è proprio questo. C'è chi vede nel ritorno a principi chiari e netti la cura per una deriva sociale, io, al contrario, vedo in quel rigore un pericolo di soffocare la complessità delle esistenze individuali. 

Forse la verità non sta in un estremo o nell'altro. Non si tratta di scegliere tra una tazzina tradizionale e una tazza moderna, quanto di trovare un punto d'incontro. Così, una comunità sana non cerca una rigida chiusura né un'apertura senza confini, ma un equilibrio dove le regole sappiano includere e la libertà non significhi smarrimento.

Certo, parliamo di un equilibrio fragile, l'unico che rispetti insieme la dignità del vivere comune e la libertà della coscienza di ciascuno. Ma alla fine, prima di qualsiasi regola, vengono sempre le persone, con le loro storie, le loro sofferenze e soprattutto il loro diritto inalienabile di essere ascoltate.

domenica 26 ottobre 2025

La nausea della Storia: il depistaggio che uccise due volte Piersanti Mattarella

Ci sono dettagli che, a distanza di decenni, gridano ancora più forte delle conclusioni ufficiali.

Già, come il ritorno di quel guanto di pelle marrone, trovato non fuori, ma dentro l’auto del presidente della Regione Piersanti Mattarella, sì... sotto il sedile del passeggero.

Per anni ci è stata proposta una versione ufficiale secondo cui, nel panico della fuga dopo quel delitto di Stato, un assassino si sarebbe tolto un guanto e lo avrebbe fatto scivolare - con cura quasi maniacale - sotto il sedile. Un gesto innaturale, illogico, che trasforma un reperto compromettente in un comodo biglietto da visita, quasi a indicare il nominativo dell’assassino.

A me è sempre sembrato più plausibile che quel guanto fosse stato posizionato lì appositamente: un dono avvelenato alle indagini. Forse non è mai appartenuto a nessun killer. Forse il suo scopo non era aiutare la giustizia, ma depistarla - già nelle prime ore dopo gli spari. Serviva a indirizzare lo sguardo altrove, a costruire un colpevole comodo o a inquinare la scena del crimine, garantendo che la verità non emergesse mai. È il primo, perfetto tassello di una copertura che doveva essere impeccabile.

E oggi, a oltre quarantacinque anni di distanza, non parliamo dei mandanti, né della regia: parliamo della scomparsa di quel guanto dagli archivi della polizia. Ci viene offerto un capro espiatorio - un funzionario accusato di averne simulato la consegna - ma questa nuova storiella non fa che confermare il sospetto atroce che ci accompagna da una vita: il sistema è un organismo tentacolare e infetto, in cui servizi deviati, logge massoniche, gruppi eversivi e politica collusa giocano la stessa partita.

In questo gioco al massacro, la criminalità organizzata è spesso il volto più utile da mostrare al pubblico: il colpevole “logico”, a cui attribuire ogni nefandezza, mentre i veri architetti del potere operano nell’ombra, indisturbati. L’omicidio di Mattarella fu un colpo al cuore dello Stato proprio perché un presidente onesto stava spezzando quel legame malsano e per questo fu fermato. Non solo dalla mafia, ma da quel sistema parallelo che della commistione tra affari, politica e violenza ha fatto la sua ragione d’essere.

È un gioco di poltrone che si tramanda da generazioni: una regia occulta che condiziona le nostre vite, decide dei nostri destini e insabbia le nostre verità. Depistaggi, collusioni, limitazioni non sono incidenti di percorso: sono il funzionamento stesso della macchina. E ogni volta che un caso come questo riemerge, non è per giustizia, ma per gestire la narrazione, sì... per offrire una verità di comodo che calmi le acque e continui a proteggere i nomi di chi, ieri come oggi, siede nelle stesse stanze di potere.

La domanda, allora, non è più chi ha ucciso Piersanti Mattarella, ma chi aveva interesse a che quella verità non venisse mai a galla, e perché quel sistema è ancora lì, intatto, a raccontarci storie. Alla fine, ciò che rimane dopo tutti questi anni non è la verità, ma la consapevolezza di aver vissuto in una narrazione forzata.

Io non ho mai creduto a nulla di ciò che mi è stato raccontato, perché ogni storia ufficiale si è rivelata un castello di carte, pronto a crollare sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. Dall’omicidio di Aldo Moro - un teatro sanguinoso i cui veri registi sono rimasti impeccabilmente nell’ombra - alle stragi che hanno insanguinato piazze e stazioni, macchine perfette per seminare un terrore funzionale a qualsiasi restrizione delle nostre libertà.

E poi gli accordi: quei patti scellerati tra Stato e mafia, scritti su “papelli” di carta, che da diceria sono diventati verità storica, rivelando non un’emergenza, ma una simbiosi tossica al più alto livello.

Tutte queste vicende, intrecciate come i tentacoli di una stessa piovra, non sono tragedie isolate, ma capitoli di un’unica, grande strategia. Sono state le armi di una propaganda che ha sistematicamente alimentato paura e insicurezza nei cittadini, perché un popolo impaurito è un popolo che accetta qualsiasi cosa in cambio di un’illusione di ordine.

È così che si è consumato, passo dopo passo, fatto dopo fatto, un vero e proprio colpo di Stato silenzioso. Non con i carri armati in piazza, ma con leggi speciali, deviazioni investigative, segreti di Stato e la sistematica distruzione di ogni prova scomoda. E le stesse autorità che avrebbero dovuto proteggere la democrazia sono state le artefici del suo insabbiamento, garantendo che il gioco delle poltrone e il riciclo dei potenti continuasse e ahimè - continua ancora - indisturbato.

Questo non è più un sospetto, ma la traiettoria inconfutabile della nostra storia: un’eredità di menzogne che non appartiene al passato, ma avvelena il nostro presente e ipoteca il futuro.

E quando queste verità scomode tornano a galla, non proviamo più rabbia o sconcerto. Proviamo solo un profondo, viscerale disgusto. A pensarci, viene il vomito, sì... per un sistema che si è nutrito della nostra paura e ha scavato le sue fondamenta nella nostra inconsapevolezza.

sabato 25 ottobre 2025

Quando il dialogo è già una risposta.

Buongiorno, una mia cara lettrice mi ha scritto ieri sera questa nota:

Caro Nicola, ho letto il post scritto l’altro ieri e anche quello dello scorso mese e, pur apprezzando sempre le tue riflessioni - di cui alcune considero giustissime - ritengo però che, quando trattiamo temi come la famiglia e la vita, non possiamo più avere nessun indugio: occorre mettere ordine, fare regole chiare che poi possano prevedere eccezioni.

Il clima di incertezza, fondato sui casi singoli, non può continuare a generare confusione, rischiando di produrre una società anarchica, senza radici, senza quei valori e quei riferimenti che tengono insieme il tessuto comunitario. Troppi segnali negativi arrivano da ogni parte, e si avverte una deriva sociale sempre più grave.

Certo, siamo aperti alle eccezioni, ma le regole restano fondamentali. Ecco perché il convegno di domani a Messina sarà certamente un incontro interessante, specie per i giovani, ma anche per noi attempati, che forse, nella nostra frenesia di modernità e progressismo, abbiamo reso deboli e incerti proprio coloro che avevamo il compito di guidare. Con affetto ti abbraccio.

Cara ………, ho letto la tua mail e vorrei dirti che apprezzo sempre la tua tenacia e, soprattutto, mi piace la tua determinazione. È proprio perché so di poter contare su un confronto schietto, genuino e senza compromessi che mi sento - in un qualche modo - legato a te.

Avendo saputo di questo secondo incontro a Messina, dopo quello realizzato in precedenza a Catania, ho sentito il bisogno di scrivere nuovamente, cercando ancora una volta di essere me stesso: pur riconoscendo il valore di quanto si sta provando a costruire attraverso questi incontri, non volevo che la mia promozione dell’evento venisse letta - dai miei lettori e non solo - come una mera propaganda, tanto più sapendo che alcuni relatori sono legati a uno schieramento politico o a un periodico di ispirazione cristiana.

Per me, ascoltare non significa dover cambiare idea; significa, piuttosto, arricchirsi con la visione altrui, anche quando non la si condivide. Ecco perché non smetterò mai di ringraziarti per quanto mi hai scritto in questi anni: con te so di poter contare su un confronto costruttivo, capace di tenere insieme rispetto e libertà di pensiero.

In fondo, noi due siamo come il quadro rappresentato sopra: due strade che all’apparenza sembrano lontane, ma che, proseguendo il cammino, si avvicinano sempre di più fino a incontrarsi. Perché, al di là delle differenze, entrambi desideriamo una società solida, capace di offrire orientamento - soprattutto alle nuove generazioni. Tu temi che la moltiplicazione dei casi particolari indebolisca il senso comune; io temo che l’imposizione di regole rigide, per quanto ben intenzionate, possa soffocare la complessità delle vite reali.

Difatti, tu vedi nel ritorno a principi chiari una cura per la deriva; io, viceversa, vedo nel riconoscimento del dubbio una forma di responsabilità morale. Eppure, entrambi riconosciamo che le eccezioni esistono, e che vanno accolte.

La differenza, forse, sta nel punto di partenza: per te, la regola viene prima e l’eccezione dopo; per me, la persona viene prima, e la regola deve saperla accompagnare, non imprigionare.

Non si tratta quindi di una contrapposizione sterile, ma di un dialogo necessario per far crescere la società. Nessuna comunità, infatti, può reggersi solo sull’assolutezza dei principi, né solo sulla frammentazione delle esperienze. Ha bisogno di entrambe: di radici e di ali.

Di chi ricorda che esistono confini, e di chi ricorda che esistono volti dietro ogni eccezione.

Forse, allora, non si tratterà più di scegliere tra ordine e apertura, ma di cercare un ordine capace di accogliere l’apertura, e un’apertura che non rinneghi il bisogno di orientamento.

Certo, è un equilibrio fragile, ma è l’unico che rispetti insieme la dignità della comunità e la libertà della coscienza.

E per questo continuerò ad andare a questi (e ad altri incontri) non come portavoce, ma come semplice cittadino in ascolto. E poi, come sempre accade dopo queste circostanze, continuerò a scrivere, non per convincere, ma per invitare i miei lettori a pensare.

Sì… proprio come fai tu, con quella schiettezza che tanto ammiro.

Con affetto,
Nicola

venerdì 24 ottobre 2025

Di Matteo contro il sistema che piega la giustizia.

Con un gesto carico di quella amarezza che solo le delusioni profonde sanno lasciare, Nino Di Matteo ha consegnato le sue dimissioni dall’Associazione Nazionale Magistrati.

Questa decisione, maturata nel silenzio e nella riflessione, non è che l’epilogo di un disagio crescente, la presa d’atto che all’interno di quel consesso continuano a prevalere logiche correntizie e calcoli di opportunità politica, dinamiche che ha sempre rifiutato e contrastato persino da membro del Consiglio Superiore della Magistratura.

È un addio amaro, che parla di ideali traditi e di un’istituzione che, invece di essere baluardo di indipendenza, sembra aver smarrito la sua strada, piegandosi a quelle stesse influenze che dovrebbe combattere.

E così, mentre si accinge a proseguire la sua battaglia a titolo personale, come del resto ha sempre fatto anche quando l’Anm preferiva il silenzio, la sua voce si leva a denunciare il pericolo incarnato dalle riforme degli ultimi anni.

A partire dalla riforma Cartabia fino al più recente progetto sulla separazione delle carriere, questi interventi minano alle fondamenta l’indipendenza della magistratura, il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e l’efficacia della lotta alla criminalità.

La sua scelta non è una ritirata, ma un cambio di trincea, l’affermazione che certe battaglie per l’integrità dello Stato sono troppo importanti per essere confinate dentro un’associazione che sembra aver dimenticato la sua missione.

C’è un’amara ironia nel fatto che sia un magistrato simbolo della lotta alla mafia a dover constatare, quasi come una rivelazione tardiva, che la giustizia in questo Paese è da tempo fragile e profondamente compromessa.

È un sistema dove le logiche di potere e gli interessi forti, siano essi politici o imprenditoriali, hanno finito per infiltrarsi persino laddove dovrebbe vigere solo il rigore della legge.

La sua uscita non è un episodio isolato, ma un sintomo di un male antico, la testimonianza vivente di come la giustizia sia spesso costretta a subire il peso di giochi che nulla hanno a che fare con il suo compito di garantire verità e giustizia.

Questa presa di posizione arriva in un momento cruciale, mentre si avvicina la battaglia referendaria sulla giustizia, e rappresenta un colpo durissimo per la credibilità dell’associazione.

Dimostra, senza bisogno di ulteriori prove, come la giustizia in Italia mostri da troppo tempo i segni di una fragilità strutturale, dove l’indipendenza è continuamente erosa e le decisioni rischiano di essere condizionate da calcoli estranei al diritto.

La sua scelta è un monito severo, un atto d’accusa contro un sistema che sembra aver normalizzato la sua sottomissione alle logiche del potere, e che forse, proprio per questo, non merita più il nome di "giustizia".

giovedì 23 ottobre 2025

Convegno “Tradizione è Futuro – Difendere la vita, difendere la famiglia”.

Qualche settimana fa, a Catania, ho partecipato a un convegno interessante che mi ha lasciato molto da pensare... 

Oggi torno su quelle riflessioni, perché credo che su temi come la vita e la famiglia non bastino le certezze: serve soprattutto rispetto per la libertà di coscienza di ciascuno.

Chi mi segue sa che diffido delle formule rigide, di quei “valori” declinati come se esistesse un unico modello giusto per tutti. La crescita - personale e collettiva - nasce invece dal confronto libero, dal dialogo senza imposizioni, lontano da ogni forma di coercizione morale o ideologica.

È con questo spirito che guardo nuovamente con interesse all’appuntamento di sabato 25 ottobre, presso la Sala Ovale del Comune di Messina: “Tradizione è Futuro – Difendere la vita, difendere la famiglia”.

L’iniziativa, promossa da Carlotta Nicastro, Giuseppe Pisa e Romj Crocitti (dirigenti dei Movimenti della Democrazia Cristiana Sicilia) e moderata dal Sen. Dott. Domenico Scilipoti Isgrò, vuole riaffermare valori fondanti e lo fa in un momento in cui il futuro richiede, più che mai, solidarietà e senso comune.

Apprezzo profondamente questi spazi di riflessione, specialmente quando affrontano questioni complesse senza pretendere di avere risposte semplici. Perché la vita reale non è mai bianco o nero.

A portare i saluti istituzionali saranno l’Assessora ai Servizi Sociali del Comune di Messina, Avv. Alessandra Calafiore, il Dott. Giovanni Frazzica (Segretario Provinciale DC), il Dott. Pippo Previti (Vice Segretario) e il Dott. Umberto Bonanno (Vice Coordinatore dei Giovani DC): un segnale che queste tematiche attraversano diversi livelli della società.

Solitamente la mia presenza a eventi come questo — o ad altri simili — non è un'approvazione acritica, ma quella di un semplice cittadino che sceglie di ascoltare, riflettere e, se possibile, porre domande o condividere osservazioni. Credo nel confronto, anche quando non sempre condivido tutto. Anzi: proprio quando non condivido, il dialogo diventa essenziale.

E quindi, pur condividendo taluni principi generali, resto distante da chi li vuole trasformare in dogmi, ignorando la complessità delle vite reali e il dolore che spesso le attraversa.

Ne ho già scritto nel mio post precedente (http://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/09/un-convegno-domani-catania-per.html) e alcuni lettori mi hanno scritto via email per dirmi che si riconoscevano in quelle parole. Mi fa piacere, perché significa che non siamo soli nel cercare un pensiero onesto, non ideologico.

Prendiamo l’aborto, per esempio. Come espresso, avevo posto riserve sull’idea di una sua abolizione incondizionata. Obbligare una donna - magari vittima di violenza - a portare a termine una gravidanza non è “difendere la vita”: è imporle un trauma profondo, fisico e psicologico. E questo non toglie nulla al rispetto per chi, nella stessa situazione, sceglie di proseguire. La libertà deve valere per entrambe.

Lo stesso vale per la famiglia. Certo, il modello tradizionale ha una sua forza. Ma non è l’unico capace di dare amore, stabilità, educazione. Pur avendo qualche perplessità - soprattutto per il disagio sociale che ancora oggi pesa su certe famiglie “diverse”, riconosco con onestà che molte coppie omogenitoriali offrono un affetto più autentico e responsabile di tante famiglie eterosessuali in crisi.

E poi ci sono le frontiere etiche, come la gravidanza surrogata. Da un lato, suscita legittime preoccupazioni: il corpo non può diventare merce. Dall’altro, non possiamo ignorare i casi in cui è un gesto gratuito - magari di una sorella o una parente - che restituisce speranza a chi soffre per l’infertilità. La realtà è più sfumata di quanto spesso si voglia ammettere.

Ed è proprio per questo che servono convegni come quello di sabato: luoghi dove cittadini e operatori possano incontrarsi senza pregiudizi, confrontare esperienze, ascoltare storie vere.

Perché dietro ogni dibattito astratto c’è il dramma dell’infertilità, il calvario della procreazione medicalmente assistita, le delusioni, le speranze. E quando tutto questo fallisce, c’è l’iter adottivo: un labirinto burocratico che spesso sembra progettato per scoraggiare l’amore, non per sostenerlo.

E mentre si discute di “valori”, non possiamo dimenticare un’altra emergenza: il femminicidio. Una violenza di genere che colpisce donne già fragili, sole, senza protezione. Questo sì che è un tema urgente -e concreto - per ogni società che voglia dirsi civile.

Spero quindi che gli interventi di Livio Lucà Trombetta, Antonino Greco, Letterio Interdonato, Marco Faraci e Rebecca Rinaldo possano andare oltre gli slogan e offrire spunti autentici.

Auspico inoltre che iniziative come questa non restino isolate, ma si moltiplichino in tutta Italia: non per imporre verità, ma per coltivare il dubbio, la responsabilità, la capacità di guardare negli occhi chi la pensa diversamente e riconoscerne l’umanità.

Sì… se posso permettermi un suggerimento per il titolo del prossimo convegno, vedrei bene: Tradizione, futuro e il coraggio del dubbio.


mercoledì 22 ottobre 2025

Straordinari di dolore: quando violare i contratti spezza le vite.

Oggi sento il bisogno di parlare di una questione che mi sta profondamente a cuore, e che purtroppo si ripete con una sconcertante regolarità...

Rifletto da tempo su come il mancato rispetto dei contratti, l’aumento indiscriminato delle ore lavorative e l'erosione delle tutele possano creare un terreno fertile per la tragedia. 

Si tratta di un circolo vizioso che, ahimè, continua a mietere "vittime bianche", ogni giorno, rendendo il lavoro non un luogo di dignità, ma di pericolo.

Mi torna altresì in mente - quanto ho sempre evidenziato nel mio blog - un'altra ambigua circostanza, una procedura che avrebbe dovuto essere un faro di trasparenza. , 

Per anni, ad esempio, ho denunciato il fatto che, nonostante fosse prevista dalla normativa, questa pratica fosse sistematicamente ignorata da molti Committenti, in particolare dai suoi dirigenti, come se le regole fossero optional e non prescrizioni vitali.

Eppure, finalmente, dopo tanto insistere, vedo finalmente un segnale di cambiamento, seppur a macchia di leopardo.

Ho constatato personalmente, negli ultimi mesi, che alcuni General Contractor, non tutti purtroppo, stanno iniziando a richiedere con serietà le liberatorie, accompagnate dai relativi bonifici, a tutte le maestranze coinvolte nelle catene d’appalto.

Un passo fondamentale, perché certifica il pagamento e il rispetto dei diritti di chi lavora, dall’appaltatrice principale fino all’ultimo subappaltatore o fornitore. Già... un riconoscimento formale che il lavoratore esiste, è stato retribuito, e non è un fantasma nel sistema.

Pensando a questo, non posso non ricordare quanto accaduto nella mia regione, dove la Fillea Cgil Sicilia ha sollevato il velo su irregolarità profonde negli appalti pubblici. Denunciavano accordi aziendali che, con un lessico calcolatamente edulcorato, trasformavano lo straordinario in “lavoro aggiuntivo”, retribuito forfettariamente e privato di ogni tutela indiretta e differita. 

Una deroga silenziosa al contratto nazionale che svuota la dignità del lavoratore. Ma la risposta di taluni Enti (committenti) non è stata lineare, anzi in molte occasioni hanno preferito non affrontare il merito, ma girare lo sguardo, addirittura omettendo di coinvolgere il sindacato nelle comunicazioni successive.

Un comportamento che, ho letto, ha portato la vicenda davanti al Giudice del Lavoro per un presunto comportamento antisindacale!

Tutto questo mi fa pensare a una partita, sì... una partita in cui le regole sono chiare, ma chi dovrebbe arbitrare a volte sembra dimenticarsi di farlo, o addirittura scende in campo in modo maldestro negli ultimi minuti. 

Noi, però, non possiamo essere spettatori passivi di questo gioco. Perché quando si gioca con i diritti e la sicurezza delle persone, l’unico gol che si segna è quello della negazione della vita stessa e ogni "vittima bianca" è una sconfitta per tutti noi.

martedì 21 ottobre 2025

Sicilia: dove la distruzione diventa creazione.

A volte mi fermo a pensare che ciò che ci sembra ostacolo, possa poi diventare dono...

Soprattutto qui, da noi, nella mia "bedda" Sicilia, dove il confine tra fatica e bellezza è sempre stato sottile come la cenere che cade dopo un’eruzione. 

Già… quella stessa cenere che, per secoli, ha ricoperto i campi, oscurato il sole, costretto intere famiglie a ricominciare da zero, ed oggi capace di sorprenderci ancora con una versatilità che sa di miracolo...

È come se questa terra, oltre a regalarci arance dorate, mandorle dolci e un mare cristallino che brucia gli occhi, volesse insegnarci a guardare oltre, a riconoscere valore, sì... proprio lì, dove prima vedevamo disagio.

Pensate ad esempio a quella polvere così scura, apparentemente insignificante, che per intere generazioni è stata raccolta con rassegnazione e poi gettata via come scarto inerte, oggi è diventata protagonista, silenziosa di tante vite nuove. 

Nei laboratori artigiani si trasforma in saponi esfolianti e purificanti, capaci di restituire alla pelle la freschezza delle sorgenti etnee. Nei campi, sparsa con sapienza tra le file di viti, ulivi e piante aromatiche, agisce da fertilizzante naturale, arricchendo il suolo con minerali che solo il vulcano sa donare. Nelle botteghe di artisti, progettisti e costruttori, la pietra lavica - levigata, intagliata, plasmata - diventa pavimento, scultura, oggetto d’arredo, portando con sé la memoria millenaria del fuoco e del tempo.

Consentitemi - prima di parlare di quest’ultima incredibile innovazione - di ricordarvi alcuni di questi esempi che ho trovato in rete, che trattano proprio di questo materiale, patrimonio unico di quest’isola, che ha saputo forgiare nei millenni intere comunità: mi riferisco al Consorzio della Pietra Lavica dell’Etna, che promuove l’uso della roccia vulcanica in edilizia e design, al sapone esfoliante a base di cenere dell’Etna realizzato da Antiche Bolle; l’uso agricolo della cenere come fertilizzante naturale per le piante aromatiche e officinali, come racconta l’azienda agricola Sari, fino agli oggetti di design e bigiotteria in PETRAFEEL - un materiale innovativo a base di lava - proposti da System Futur, si... sono questi alcuni esempi che ho scovato navigando in rete e di cui vi allego i link:

https://consorziodellapietralavicadelletna.com/i-prodotti  

https://www.antichebolle.it/saponi-al-taglio/61-cenere-dell-etna-scrub.html  

https://www.sariaziendaagricola.com/en/blog-detail/post/278364/cenere-dell-etna-un-fertilizzante-naturale-per-piante-aromatiche-e-officinali-di-sari  

https://www.systemfutur.it/negozio/  

Ma c’è di più, sì… come dico spesso: c’è sempre di più, in Sicilia!

Perché non è la prima volta che la lava - fredda, nera, ostinata - entra a far parte della nostra storia non come minaccia, ma come compagna di vita. Già i nostri antenati, dopo le eruzioni, non si limitavano a piangere i raccolti perduti: raccoglievano la pietra lavica, la lavoravano con pazienza, ne facevano architravi, pavimenti, persino strumenti.

Sì... quella stessa cenere che mescolata alla calce diventava malta per case, le stesse che ancora oggi resistono al tempo, testimoni di un’alleanza antica tra l’uomo e il vulcano; potremmo definirlo un patto silenzioso: tu ci provochi, noi ti trasformiamo!

E oggi quel patto si rinnova, in forme che i nostri nonni non avrebbero mai immaginato. Infatti, provate ora a immaginare, quella stessa cenere dell’Etna, unita a scarti di vetro, che viene trasformata in un inchiostro per le nuove stampanti 3D. 

Sì, avete letto bene. Un recente studio - nato proprio ai piedi del vulcano, all’Università di Catania - ha unito geologia e tecnologia avanzata in un abbraccio inaspettato. 

Grazie a una tecnica chiamata "Direct Ink Writing", cenere e vetro, invece di finire in discarica, prendono nuova vita: diventano miscele modellabili, solide, omogenee. “Gli oggetti stampati sono promettenti, robusti, sorprendentemente resistenti”, ha spiegato una delle ricercatrici coinvolte.

Ecco: il futuro non è una promessa lontana. È qui, ora, nelle mani di chi sa ascoltare la terra, rispettarne il fuoco e reinventarne i doni.

Già perché in Sicilia, forse più che altrove, sappiamo che ogni fine può essere un inizio, basta semplicemente avere il coraggio di guardare la cenere non come polvere di distruzione, ma come seme di qualcosa di nuovo.

D'altronde come non ricordare quanto scriveva Goethe: 
L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita.


lunedì 20 ottobre 2025

Mangia e fai mangiare...

Il detto “mangia e fai mangiare” non è solo un modo di dire: è una fotografia cruda, precisa, del meccanismo che spesso muove le cose in questo Paese.

Funziona tutto - molto meglio - quando, accanto al compenso legittimo per il proprio lavoro, si aggiunge un incentivo extra: una busta, un favore, un “grazie” in contanti che scavalca la formalità dello stipendio. In quel momento, l’efficienza diventa straordinaria, la disponibilità massima, la cortesia smisurata.

È un sistema che si autoalimenta: gentilezza e dedizione crescono in proporzione all’aspettativa di un guadagno aggiuntivo. L’obbligo professionale si trasforma in servizio d’eccellenza, non per senso del dovere, ma per interesse personale e tangibile.

Ne ho trovato un esempio illuminante in un’intervista di Alessandro Nesta, che raccontava la sua esperienza al Milan di Berlusconi. Descriveva, quasi senza volerlo, il “mangia e fai mangiare” applicato a un contesto di altissimo livello.

Dopo una vittoria importante, era prassi che i giocatori raccogliessero del denaro da destinare - in buste - a tutto il personale: dal cameriere al giardiniere. Il capitano Maldini passava a indicare la quota di ciascuno. Una colletta “volontaria”, certo, ma sistematica, per ricompensare chi, negli orari più improbabili e con un sorriso, garantiva un supporto fondamentale.

Ecco il meccanismo in piena regola: i calciatori, già ben remunerati con premi lauti, “facevano mangiare” il personale; e il personale, a sua volta, era motivatissimo a “farli mangiare bene” - e a farli vincere - sapendo che ne sarebbe derivato un beneficio diretto.

Quella del Milan era una macchina perfetta, perché gli incentivi erano doppi e pervasivi. Da un lato, la società raddoppiava gli stipendi in caso di vittoria; dall’altro, i giocatori integravano con le loro buste, così, ogni dipendente - a qualsiasi livello - spingeva al massimo: il successo della squadra diventava il suo successo economico personale.

La dedizione non era più solo questione di professionalità, ma un vero e proprio investimento sul proprio portafoglio. Se la squadra non vinceva, non era solo una delusione sportiva: era un danno economico per tutti, e questa consapevolezza generava una pressione sociale fortissima su ogni singolo giocatore.

Nesta lo descrive con semplicità, ma - permettetemi di aggiungere - quel “sistema” rappresenta, in piccolo, lo stesso meccanismo che oggi pervade ampie zone del nostro Paese: una micro-società in cui l’efficienza si ottiene grazie a mance istituzionalizzate, che generano una circolarità di favori e denaro.

È la prova che le persone, quando spinte da un tornaconto immediato e tangibile, diventano incredibilmente disponibili, operative, persino generose, ben oltre i limiti della normale cortesia.

Ma è anche la dimostrazione di una verità scomoda: questo modello funziona!

E, purtroppo, riflette una mentalità diffusa, in cui il favore, la bustarella, la “tangente educata” diventano il lubrificante sociale che fa girare gli ingranaggi, sostituendosi a una meritocrazia fondata su stipendi equi e su un'etica del lavoro disinteressata.

domenica 19 ottobre 2025

Io, il nemico, lo combatto quando è vivo e non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e non quando giace per terra.

C’è una specie di uomo (e di donna) che esiste solo in branco. Non sa stare da solo, non sa parlare se non urlando, non sa guardare negli occhi se non per sfidare chi già trema. Si sente forte solo quando qualcun altro è piegato, ride solo quando sente il silenzio di chi ha smesso di ribellarsi, si gonfia di coraggio solo quando il terreno è già stato spianato dalla paura altrui. 

Sono quelli che definiscono "bulli", ma forse sarebbe più onesto chiamarli per quello che sono: individui meschini, incapaci di rispetto, affamati di potere che non sanno conquistare se non rubandolo a chi non ha la forza di difenderlo. Non combattono, non discutono, non si misurano: aggrediscono. E lo fanno sempre da dietro un muro di compari, perché da soli non reggerebbero neppure il peso del proprio vuoto.

Il sottoscritto viceversa "il nemico lo combatte quando è vivo e non quando è morto. Lo combatte quando è in piedi e non quando giace per terra”. 

Già... non è un grido di  battaglia, non è l’inno di chi cerca lo scontro per il piacere di distruggere. È qualcosa di più profondo, un principio che parla di onore - non quello delle apparenze, delle pose, delle urla nel vuoto - ma quello che nasce dal coraggio di guardare negli occhi chi ti sta di fronte, senza nascondersi dietro il branco, senza doverlo fare esclusivamente per compiacere il bullo o per non finire come quell'altro, già sottomesso al branco e ahimè pronto a cadere per venir calpestato.

Sì... faccio sempre l’esatto contrario di ciò che farebbe il bullo: quest'ultimo infatti non sceglie mai un avversario in piedi, perché sa che non vincerebbe. Preferisce quindi un bersaglio immobile, un’anima già ferita, un corpo che non reagisce più. E in quel gesto non c’è forza, c’è solo la confessione di una debolezza disperata.

Combattere un nemico quando è in piedi significa riconoscerne il valore, la dignità di avversario. È nello scontro frontale, quando entrambi sono all’apice delle forze, che si misura veramente se stessi. È in quel confronto che le proprie idee vengono messe alla prova, affilate, e a volte persino cambiate. 

Sconfiggere qualcuno che non può più reagire, che è già sconfitto dalla vita o dalle circostanze, non è una vittoria, è solo l’ombra di un atto, l'ennesimo gesto che non lascia nulla se non il vuoto. Eppure, quanti sono quelli che scelgono proprio quel vuoto? Quelli che ridono solo quando qualcun altro trema, che parlano solo quando l’altro tace, che si sentono grandi solo accanto a chi è stato ridotto a niente? Non sanno che la vera grandezza non si costruisce sulle spalle di chi cade, ma sul coraggio di restare in piedi anche quando il vento soffia forte.

C’è una motivazione etica in questo, un rispetto quasi tragico per la figura dell’altro. Perché se il nemico è degno del tuo odio, della tua opposizione totale, allora deve essere degno anche di tutto il tuo rispetto in quanto forza contraria. 

Abbatterlo quando è già a terra non è solo vigliaccheria, è un tradimento della ragione stessa per cui hai deciso di combattere. È ammettere di aver paura non della sua forza, ma della sua stessa esistenza, e di voler cancellare non la sua minaccia, ma la sua memoria. 

Ed è qui che si nasconde il bullo: non nell’atto violento in sé, ma nella sua incapacità di esistere senza umiliare, senza sminuire, senza trascinare qualcun altro nel fango per sentirsi pulito. Non ha idee da difendere, non ha valori da affermare - ha solo il bisogno disperato di sentirsi qualcuno, anche a costo di far sentire nessuno chi gli sta di fronte.

E poi c’è una motivazione che riguarda noi stessi, la nostra integrità. Che uomo o  donna, diventiamo se ci abituiamo a colpire solo chi è incapace di rialzarsi? La nostra forza si trasforma in bullismo, la nostra convinzione in fanatismo. Perdiamo la capacità di vedere il confine tra giustizia e crudeltà. 

Combattere un nemico in piedi è un atto che nobilita entrambi, perché costringe alla chiarezza, al coraggio, a guardarsi negli occhi e ad accettare le conseguenze delle proprie azioni. Chi invece ha bisogno del branco per sentirsi qualcuno, chi ride solo quando qualcun altro piange, non sta combattendo: sta nascondendo. Nasconde la propria fragilità dietro la maschera della prepotenza, e la sua vittoria è sempre amara, perché sa che non è mai stata reale.

La forze sta nel sapere contraddire senza aggredire, di sapersi opporre ad ogni idea contraria alla nostra in maniera educata, discutendo, argomentando, mettendo in gioco la propria intelligenza. Non si deve attaccare, marginalizzare, deridere o obbligare al silenzio gli altri con la forza. Perché è nel confronto con ciò che ci sfida che si cresce, è solo affrontando avversari in piedi che possiamo, un giorno, costruire qualcosa di solido sulle ceneri di uno scontro leale.

Il vero coraggio non è mai nel calpestare chi è già caduto, ma nel riconoscere che anche chi ci sta di fronte merita di stare in piedi, perché solo allora sapremo davvero cosa significhi stare in piedi noi stessi.

sabato 18 ottobre 2025

Ranucci, la bomba e la deriva dei programmi di "informazione".

L’episodio gravissimo dell’attentato a Sigfrido Ranucci - con un chilo di esplosivo piazzato sotto la sua auto e fatto detonare poco dopo il suo rientro a casa - è un fatto che scuote le coscienze e riporta la memoria a pagine buie della nostra storia. Non si tratta di un gesto casuale, ma di un messaggio preciso e calcolato: un’azione studiata per dire a un giornalista scomodo: “Sappiamo come ti muovi e possiamo colpire te e la tua famiglia in qualsiasi momento”.

È un attacco non solo a un uomo e alla sua famiglia, ma a un simbolo del giornalismo d’inchiesta e, in ultima analisi, alla libertà di informazione, diritto fondamentale in ogni democrazia!

Eppure, ieri sera, nel programma di “informazione” di Bruno Vespa, si è preferito discutere di un banchetto alla Casa Bianca, di un incontro diplomatico tra Trump e Zelensky, come se questo rappresentasse l’emergenza assoluta del giorno, sorvolando invece sulla notizia che ha messo in allarme l’intero Paese.

Permettetemi però di ricordare quanto proprio alcuni giorni fa ha evidenziato "Reporters Sans Frontières: la preoccupante retrocessione dell’Italia di otto posizioni nell’indice mondiale sulla libertà di stampa. Questo scarto tra ciò che è vitale e ciò che è spettacolo, tra ciò che ferisce la democrazia e ciò che fa audience, è la risposta pratica - e desolante - a ciò che l’Avvocato Lovati aveva teoricamente denunciato proprio da quel servizio pubblico.

Ciò che accade a chi non cammina sui binari - come il professor Orsini o lo stesso Ranucci con le sue inchieste - è l’emarginazione o, in questo caso estremo, la violenza più vile. Mentre un giornalista viene colpito con un metodo che ricorda da vicino le intimidazioni della criminalità organizzata, il servizio pubblico sceglie di non dare il giusto risalto a questa notizia in una delle sue vetrine principali, optando invece per un argomento di politica internazionale che, per quanto importante, non ha né l’urgenza né la drammaticità di un attacco alla libertà di stampa avvenuto sotto casa nostra.

È qui che il sospetto che certe trasmissioni siano, in fondo, programmi di intrattenimento “senza lampadari” si trasforma in una certezza amara: perché l’intrattenimento può anche essere la rappresentazione rassicurante di una normalità inesistente, un talk show che ignora le bombe reali per concentrarsi su quelle diplomatiche.

Perché, dunque, dedicare solo “cinque minuti” a temi profondi e poi riservare ampio spazio a programmi di puro svago, quando una notizia come questa meriterebbe una riflessione corale e un approfondimento serio in prima serata?

Del resto, in questi mesi ho dedicato diverse lettere aperte al rischio di recrudescenza in questo Paese, al punto da rivolgere le mie preoccupazioni direttamente al Presidente Mattarella con i seguenti post - e oggi, ahimè, i rischi che avevo preannunciato si sono concretizzati:

Presidente Mattarella, intervenga immediatamente: basta con questa retorica da anni di piombo!

https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/09/presidente-mattarella-intervenga.html

Continuo a ripetermi, ma le mie parole restano come l’eco delle stragi dimenticate!

https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/09/continuo-ripetermi-ma-le-mie-parole.html

Lettera aperta al Presidente Mattarella: l’appello inascoltato.

http://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/10/lettera-aperta-al-presidente-mattarella.html

La risposta, forse, va ricercata proprio in quella logica dello share che l’Avvocato Lovati aveva smascherato con tanta spregiudicatezza: una logica che premia il dibattito politico-spettacolare e allontana i temi scomodi, quelli che mettono in discussione non un governo specifico, ma l’intero sistema di sicurezza e la tenuta democratica del Paese. 

È più comodo parlare di ciò che accade a Washington che di ciò che accade a Pomezia, perché la prima cosa non imbarazza nessun potentato locale, non interroga le connivenze tra economia e malavita, non costringe a fare i conti con un clima di intimidazione che sta diventando sempre più pesante.

Viene dunque spontaneo chiedersi: perché pago un canone per un servizio pubblico che, di fronte all’attentato a uno dei propri giornalisti, sceglie il binario di una normale serata di intrattenimento politico, lasciando che la notizia vera scivoli nell’indifferenza, come un fastidioso deragliamento di cui non parlare?

Spero quantomeno che episodi come quello accaduto al giornalista Ranucci della Rai - uno dei pochi che, da quel servizio pubblico radiofonico e televisivo, si occupa realmente di “informazione” - possano rappresentare un caso isolato e non ripetersi mai più.

venerdì 17 ottobre 2025

Servizio pubblico o intrattenimento? La scomoda verità dell'Avvocato Lovati...

La riflessione dell’Avvocato Lovati, per quanto possa apparire provocatoria, ha il merito di sollevare un velo su una realtà che molti spettatori percepiscono ,ma che raramente viene enunciata con tanta chiarezza. 

Affermare (su Rai 1, il 14 ottobre, nella puntata di “Porta a Porta”) che anche un programma come quello di Bruno Vespa sia, di fatto, "intrattenimento", non rappresenta una semplice battuta, ma una diagnosi precisa sul funzionamento di una certa televisione pubblica. È un'ammissione che, se accettata, costringe a rivedere le etichette ufficiali che ci vengono proposte ogni giorno e a guardare con occhio diverso alla programmazione e quindi alle sue priorità.

Quanto sopra, mi ha portato ad una domanda, già... ad un altro programma, condotto sempre da Bruno Vespa, che - mi dispiace dire - assilla anche me in qualità di utente che paga mensilmente il canone: perché la Rai dedica uno spazio contenuto di soli "cinque minuti", quasi simbolico, all’interno di un programma serale, per affrontare temi di bruciante attualità e di profondo impegno civile, come le tragedie internazionali di Gaza e Ucraina o l’ennesimo femminicidio nel nostro Paese, per poi dilungarsi in programmi di puro svago che, per quanto gradevoli, potrebbero trovare collocazione in fasce orarie meno pregiate. 

La risposta, ahimè, sembra essere proprio quella indicata - silenziosamente - dall’avvocato Lovati: la logica dello share, dell’audience, prevale sulla missione di servizio pubblico. Ci si chiede allora dove sia finito il diritto di chi paga l’abbonamento a un'informazione approfondita e non relegata a pochi minuti ritagliati tra un dibattito e l’altro.

Perché un cittadino che contribuisce al finanziamento del servizio pubblico si sente costretto a fruire quasi esclusivamente dei telegiornali e di qualche rara produzione di qualità, come le fiction ben fatte o i programmi culturali di Alberto Angela, mentre una fetta consistente della programmazione definita di “informazione” viene sistematicamente percepita come uno spazio per narrazioni orientate, per propaganda politica o di governo?

È una sensazione di estraneità che porta a un rifiuto, a una sorta di censura spontanea, ma che non risolve il problema di fondo: perché sono costretto a finanziare con una tassa obbligatoria, abilmente nascosta nella bolletta energetica, un servizio che spesso non mi serve e che anzi, su temi cruciali, delude le mie aspettative di cittadino?

Abbiamo tutti visto la reazione stizzita degli altri ospiti e dello stesso Vespa alla dichiarazione di Lovati, ed è la prova lampante di aver toccato un nervo scoperto. Non si è tollerata quella verità scomoda, proprio come accade sistematicamente a chiunque, ospite o opinionista, tenti di deviare dal copione prestabilito, di non assecondare il filo conduttore imposto dalla trasmissione. 

L’esperienza analoga del Prof. Orsini, messo ai margini per le sue posizioni non allineate, non è un caso isolato, ma il sintomo di un meccanismo che premia l’omologazione e punisce il pensiero divergente. Quella reazione indignata in studio non era solo una difesa d’ufficio della definizione di “programma di informazione”, era la difesa di un sistema che non ammette di essere messo in discussione.

Alla fine, l’episodio con l’Avvocato Lovati trascende la singola trasmissione e diventa un emblematico specchio di ciò che accade nel nostro Paese a chi non vuole camminare sui binari. 

Dimostra che quando qualcuno ha la sfrontatezza di chiamare le cose con il loro nome, smontando le narrazioni ufficiali, la reazione non è il confronto, ma l’isolamento e la delegittimazione! 

Quella dell'Avvocato, era più di un’osservazione sul palinsesto, era una verità che fa male, perché ci ricorda che spesso, anche di fronte alle tragedie più crude, ciò che guida la scelta non è il dovere di informare, ma la legge dello spettacolo!

giovedì 16 ottobre 2025

Quando i fondi europei dell'agricoltura finiscono nelle mani sbagliate.

Da oggi, 16 ottobre 2025, la Commissione europea ha deciso di aumentare gli anticipi della Politica Agricola Comune, consentendo agli agricoltori di ricevere fino al 70% dei pagamenti diretti (prima era il 50% ) e addirittura l’85% per gli interventi legati a superficie e allevamenti, contro il precedente 75%. 

La motivazione ufficiale è chiara: dare respiro a un settore sempre più stretto tra eventi climatici estremi e mercati internazionali instabili.

Ma mentre si parla di sostegno e liquidità, non posso fare a meno di chiedermi cosa succeda davvero dietro le quinte di questi flussi finanziari. 

Già nel periodo 2014-2020, i "Programmi di Sviluppo Rurale" sono stati regolarmente finanziati e il nostro Paese ha ricevuto un contributo pubblico di 2,14 miliardi di euro, eppure, proprio in quegli anni, si sono moltiplicate le inchieste giudiziarie che hanno smascherato frodi sistematiche, spesso orchestrate da vere e proprie organizzazioni criminali. 

La mia impressione, purtroppo confermata da fatti concreti, è che una parte non trascurabile di questi fondi finisca per alimentare circuiti illegali, anziché sostenere chi lavora la terra con onestà.

Oggi, con la nuova programmazione 2021-2027 dotata di un bilancio complessivo di 387 miliardi di euro per tutta l’UE, il sistema non solo non si è fermato, ma si è evoluto: nel 2025 la Commissione ha presentato un pacchetto di semplificazioni per rendere la PAC meno burocratica e più efficace, proprio mentre il Parlamento europeo si opponeva alla proposta di accorpare i fondi agricoli con altri settori, chiedendo invece un bilancio autonomo e un sostegno diretto al reddito degli agricoltori. 

Quindi, tutto sembra muoversi nella direzione giusta - almeno sulla carta - eppure, basti osservare i casi recenti per capire quanto sia fragile questa architettura. A Napoli e Salerno, tra il 2022 e il 2024, sono stati sequestrati oltre 1,1 milioni di euro grazie a indagini che hanno smantellato un’organizzazione criminale specializzata in documenti falsi, dati fittizi e corruzione di funzionari pubblici. 

Mentre nella stessa provincia di Salerno, nel 2025, altri 470.000 euro sono stati sottratti a chi dichiarava superfici agricole inesistenti. A Caronia e Longi, in provincia di Messina, si gonfiavano i costi dei progetti per intascare contributi più alti, mentre in Calabria, già nel 2014, erano stati sottratti 250.000 euro su un totale di 400.000 attraverso falsificazioni sulla titolarità dei terreni.

Il copione si ripete: documenti alterati, complicità di professionisti (commercialisti, agrotecnici, funzionari regionali) pronti a intascare una percentuale in cambio di coperture, e talvolta persino tentativi di depistaggio da parte di ex appartenenti alle forze dell’ordine. 

Di fronte a tutto ciò, è difficile non domandarsi se l’obiettivo dichiarato di questi finanziamenti - sostenere l’agricoltura, la sostenibilità, le comunità rurali - non venga sistematicamente svuotato da meccanismi opachi che favoriscono chi sa muoversi nell’ombra più di chi coltiva il campo ogni giorno. 

Certo, l’Unione non sta a guardare: esiste la Procura europea (EPPO), ci sono nuclei specializzati dei Carabinieri, e si parla di controlli digitali, anche via satellite, per contrastare le frodi. Ma la domanda rimane: finché il sistema consentirà tanta discrezionalità amministrativa e burocratica, non rischieremo di continuare a versare denaro pubblico in un pozzo senza fondo, dove la criminalità organizzata pesca con troppa facilità?

Io continuo a dubitare, ma d'altronde i fatti, purtroppo, danno ragione ai miei dubbi...

mercoledì 15 ottobre 2025

La messa in scena del potere: Perché baciare l'anello è l'antitesi dell'umiltà.

C’è un gesto che da sempre mi ripugna...

Antico, superato, apparentemente silenzioso, eppure carico di un intero universo di significati non detti. Mi riferisco al momento in cui qualcuno si china per baciare l’anello di un Papa, vescovo o di un cardinale.

Osservandolo, al di là della devozione che pretende di esprimere, non posso fare a meno di sentire il peso strisciante della storia: l’eco potente di troni e imperi che credevamo ormai sopiti.

Quel gesto non è nato in una sacrestia, è un reperto archeologico, un fossile vivente importato direttamente dalla corte bizantina. A Costantinopoli, i sudditi praticavano la "proskynesis": si prostravano fino a toccare la terra con la fronte davanti all’imperatore, considerato vicario di Cristo sulla Terra. Non era un atto d’amore fraterno, ma di sottomissione assoluta, un rito che sanciva una distanza abissale tra il divino-autoritario e l’umano-suddito.

La Chiesa di Roma, erede politica di un impero in rovina, non si limitò a raccoglierne l’eredità spirituale: ne assorbì anche i codici del potere. L’anello con il sigillo, un tempo strumento di comando imperiale, divenne l’anello episcopale. E il bacio, un tempo rivolto al Cesare, fu trasferito al principe della Chiesa.

E qui sorge la domanda più scomoda, quella che risuona da secoli: come può un’istituzione che predica l’umiltà del Figlio dell’Uomo, che lava i piedi ai discepoli in un gesto di commovente servizio, permettere - anzi, talvolta esigere - un atto che ne è l’esatto contrario?

La risposta è amara, ma chiara: il lavacro dei piedi è il prodotto da esporre al gregge, il sublime esempio di come dovrebbe essere il rapporto tra gli uomini!

Il bacio dell’anello, invece, è l’istruzione non verbale sul posto che il gregge occupa nella realtà. È un meccanismo perfetto: non devi obbedire perché minacciato, ma perché ti è stato fatto credere che la tua sottomissione sia una forma elevata di devozione. Ti vendono umiltà… e tu compri auto-annichilimento.

Ricordiamocelo con forza: l’uomo che indossa quell’anello è un uomo. Punto!
Con le sue paure, le sue fragilità, i suoi dubbi, i suoi peccati - forse anche più gravi dei nostri, perché nascosti sotto la maestosità di una toga e il peso di una responsabilità che ha scelto di portare.

Non possiede virtù sovrannaturali. Non è stato toccato da una grazia speciale che lo renda intrinsecamente superiore. Ha studiato, ha fatto una scelta di vita, forse nobile, forse no, ma rimane, in fondo, un uomo che cammina, che cade, e che, come tutti noi, dovrà un giorno rendere conto della propria coscienza.

Quel gesto di inchino, dunque, non è solo un retaggio imbarazzante. È la perpetuazione di una menzogna antropologica: che esista una categoria di esseri umani che, per il solo fatto di ricoprire un ruolo, meriti di essere simbolicamente innalzata, e di conseguenza, di abbassare gli altri.

È l’antitesi di ogni autentica comunità fraterna, dove ci si guarda negli occhi da pari a pari, nella consapevolezza condivisa della nostra comune, magnifica e miserabile umanità.

Smascheriamo dunque questo gesto per quello che è: non devozione, ma psicologia del potere applicata. E rifiutare quella logica non è mancanza di fede.

Al contrario: forse, il primo, autentico atto di umiltà è riconoscere che davanti all’Assoluto, siamo tutti — papi, vescovi e fedeli — nudi e uguali.

E nessun anello d’oro potrà mai cambiare questa verità!

martedì 14 ottobre 2025

L’inganno della tregua: Donald Trump raccoglie gli applausi, ma il merito va a suo genero Kushner, all’inviato speciale Witkoff e al leader di Hamas, Khalil al-Hayya.

Già… bisogna ringraziare Jared Kushner e l’inviato speciale Steve Witkoff, insieme ai capi di Hamas - capeggiati dal loro leader Khalil al-Hayya, sopravvissuto appena tre settimane prima a un attacco israeliano a Doha - se l’accordo è stato realizzato.

Parliamo degli stessi protagonisti che in passato avevano promosso gli “Accordi di Abramo”, quei patti volti a normalizzare le relazioni tra Israele e diversi Paesi arabi.

Come sempre accade nella vita - e il sottoscritto ne sa qualcosa - gli applausi e le coccarde non vanno mai a chi svolge il lavoro sporco sul campo, bensì a chi incarna la figura istituzionale. Così, anche Donald Trump si riprende la scena, mentre chi, dietro le quinte, ha condotto per settimane la trattativa a tu per tu con i quattro leader di Hamas, non riceve neppure un ringraziamento pubblico.

Ma permettetemi di contraddire quanto scritto in queste ore da pseudo-giornalisti legati in maniera diretta a quel meccanismo di “propaganda politica di governo” che ormai ha infettato il nostro Paese. Uscendo da quello schema - che ricorda fin troppo da vicino il metodo Goebbels - non posso che constatare una realtà scomoda: la tregua raggiunta è stata esclusivamente un mero scambio di prigionieri. Da un lato gli ultimi venti ostaggi israeliani, dall’altro circa duemila detenuti palestinesi. Un baratto umano che ha sollevato un velo di sollievo, ma che non ha scalfito il cuore del problema.

D’altronde, questo nuovo accordo, celebrato a Sharm el-Sheikh da numerosi leader internazionali, ha deliberatamente escluso le parti direttamente coinvolte - Israele e Hamas - come se il destino di una terra potesse essere deciso senza di loro. È lo stesso errore già commesso negli anni passati, e proprio in questa grave assenza risiede, secondo il sottoscritto, l’ennesimo grande fallimento: un fallimento che lascia i due popoli confinanti separati da una voragine… già, proprio come nella mia foto.
Ho osservato - dopo due anni di guerra - quanto è accaduto a seguito del raid di Hamas, e non posso che prendere atto di ciò che resta oggi: un immenso cimitero a cielo aperto, la distruzione totale della Striscia di Gaza, con case, ospedali e scuole ridotti in macerie, e soprattutto oltre sessantasettemila morti e una popolazione stremata dalla fame.

In questo scenario apocalittico, ogni parte ha perso qualcosa, ma forse Hamas ha perso più di tutti, incluso il favore del suo stesso popolo, sfiancato da una violenza che non ha condotto da nessuna parte se non alla rovina.

L’Autorità Palestinese, con sede in Cisgiordania, cerca ora di ritagliarsi uno spazio di mediazione, presentandosi all’ONU e al mondo come l’unico interlocutore credibile per riavviare un dialogo che porti finalmente alla costituzione di uno Stato palestinese - un sogno che sembra più vicino sulla carta che nella realtà.

E quindi non posso fare a meno di essere scettico di fronte a questo entusiasmo euforico, perché la storia ci insegna che i conflitti in questa terra hanno radici profonde e che le soluzioni imposte dall’alto raramente attecchiscono.

Quello che stiamo vivendo è solo una pausa, un momento passeggero dettato dall’urgenza di risolvere la questione degli ostaggi e di permettere l’ingresso degli aiuti umanitari - un bisogno così disperato che persino i combattimenti tra fazioni a Khan Yunis, dove clan locali hanno sfidato Hamas, sono serviti a ricordare a tutti la precarietà del potere.

Sono profondamente convinto che tra qualche mese, quando le macerie saranno state rimosse e la situazione sembrerà stabilizzata, i conflitti riprenderanno con rinnovata ferocia. Hamas - un movimento nato dalla resistenza e dalla militanza armata - non accetterà mai di essere relegato a forza a ruolo subalterno, né di essere messo da parte da un governo tecnocratico o da un’autorità imposta dall’esterno.

La tregua, quindi, non è la fine, ma solo un interludio: un respiro profondo prima che il ciclone di violenza si scateni di nuovo, portando con sé, come sempre, altra morte e altra distruzione, in un ciclo infinito che nessun accordo, finora, è riuscito a spezzare.

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