Il “vertice riservato ed invisibile della ‘Ndrangheta” insieme all’avvocato Paolo Romeo, l’altra testa pensante della ‘Ndrangheta reggina. E’ così che i giudici della corte d’Appello di Reggio Calabria hanno tratteggiato la figura dell’avvocato Giorgio De Stefano nelle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo “Gotha”, nella quale De Stefano è stato condannato a 15 anni di reclusione. Dal processo - nato dalla riunione delle inchieste “Mamma Santissima”, “Reghion”, “Fata Morgana” e “Sistema Reggio” coordinate dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e dai pm Walter Ignazitto, Stefano Musolino e Roberto Di Palma - secondo la Corte è emerso il ruolo “apicale occulto della componente “riservata” della ‘Ndrangheta e componente apicale dell’articolazione territoriale denominata cosca De Stefano” dell’avvocato.
I giudici ritengono infatti che De Stefano - di recente ai domiciliari per ragioni di salute - ebbe “compiti di cooperazione anche con gli altri soggetti al vertice delle diverse articolazioni territoriali della ‘Ndrangheta, al fine di consentire la concreta attuazione del relativo programma criminoso, fungendo da autorevole punto di riferimento per gli imprenditori (e/o esercenti commerciali) che richiedevano specifiche “garanzie ambientali”, necessarie per operare in tranquillità nel predetto territorio, adoperandosi attivamente in tal senso e dando direttamente e/o indirettamente agli operatori economici interessati le garanzie di volta in volta richieste”. Secondo la Corte d’Appello, dunque, “le risultanze istruttorie appaiono sufficienti a dimostrare la partecipazione di De Stefano Giorgio al sodalizio criminale, vale a dire lo stabile ed organico inserimento del soggetto nell’organizzazione del sodalizio, con ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato rimane a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi”. In sostanza, dunque, “è dimostrato come De Stefano, con la sua condotta, abbia prestato un contributo concreto idoneo alla conservazione od al rafforzamento della struttura associativa, con la precipua finalità di perseguirne gli scopi”. Non solo. Nelle pagine della motivazione della sentenza di condanna vengono inoltre delineate la dimensione e la rete di contatti e conoscenze dell’imputato. Si legge, sul punto, il suo ruolo di “capo ed organizzatore del sodalizio unitariamente inteso, in qualità di partecipe della componente invisibile della ‘Ndrangheta, struttura di vertice chiamata a svolgere compiti di direzione strategica e, in ultima analisi, di gestione occulta delle scelte di politica criminale del sodalizio di stampo mafioso denominato ‘Ndrangheta”. Parole cartesiane, quelle dei giudici, che sottolineano De Stefano in un contesto criminale che “interagisce stabilmente, attraverso associazioni segrete caratterizzate dalla “segretezza” dei “fini” e dalla “riservatezza” dei “metodi” (massoneria deviata), con il mondo dell’imprenditoria, della finanza, della magistratura e, più in generale, delle istituzioni”. Vengono anche descritte le modalità di operazione di queste associazioni. Da segnalare la modalità di veicolazione delle strategie criminali a soggetti insospettabili (cerniera o riservati) “il cui compito è di realizzare una interfaccia tra l’organismo di vertice e la “base” territoriale dell’associazione”.La Santa e la sua evoluzione con i due avvocati
Nella sentenza i giudici parlano anche della cosiddetta “Santa”, una “struttura elitaria di cui hanno fatto parte, oltre ai capi promotori (Mommo Piromalli, i fratelli Paolo e Giorgio De Stefano, Santo Araniti, tra i principali), i pochi altri elementi di vertice cooptati in tale apicale organismo”. De Stefano e Paolo Romeo risiedono in una struttura dai simili caratteri, ma più evoluta della conosciuta “Società di Santa” o “Santa”. Una struttura costituita da “una sfera di operatività della ‘Ndrangheta diversa da quella che caratterizza, nei medesimi anni, membri apicali delle singole articolazioni territoriali”.Di questi ambienti aveva fatto cenno anche il pentito Antonino Fiume il quale durante il processo aveva descritto De Stefano come “il consigliori della famiglia”, ossia - sintetizza la Corte - un mafioso di vertice che dà i consigli, non un mafioso da quattro soldi, colui che ereditò quelle relazioni riservate dal defunto boss Paolo De Stefano. “Sono quei legami che stratificano e consolidano la potenza dei De Stefano, la quale si fonda non solo sulla “nota” e “visibile” componente operativa - quella incarnata, fra gli altri, da Carmine, Giuseppe e, all’occorrenza Dimitri De Stefano - ma, soprattutto, sulla capacità di intessere riservatamente relazioni con il mondo imprenditoriale, politico ed istituzionale, nonché con gli ambienti massonici, di cui hanno dato prova, con diversità di ruolo e di “operatività”, i coimputati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo”. Sempre in riferimento alla diarchia Romeo-De Stefano, la corte approfondisce anche le loro relazioni con il “mondo dei “riservati” del sodalizio, con soggetti insospettabili, professionisti al servizio della giustizia come il commercialista Giovani Zumbo”. Facendo leva su questo humus, costituito dalla cosiddetta “borghesia mafiosa”, spiegano i giudici, Giorgio De Stefano, insieme a Paolo Romeo, diviene “promotore, dirigente ed organizzatore della componente riservata della ‘Ndrangheta, agendo stabilmente quale componente apicale occulto del sistema criminale mafioso che, da ultimo, trova la sua sublimazione nel collaudato “Sistema Reggio””. Sempre sul rapporto tra i due avvocati, la corte riporta che “Giorgio De Stefano e Paolo Romeo dimostrano una straordinaria capacità di governare ed orientare lo scenario politico locale in modo tale da determinare le sorti delle elezioni comunali, provinciali, regionali ed europee, giungendo finanche a stabilire chi, fra un candidato e l’altro, debba prevalere”.Le mani nelle istituzioni
Al vaglio dei giudici è passato anche l’insieme di infiltrazioni della ‘Ndrangheta Reggina nelle istituzioni. Secondo la corte, che ha sostanzialmente avvallato il grande lavoro del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, “vi fu una massiccia attività di interferenza sull’esercizio delle funzioni degli organi rappresentativi di rango costituzionale (e non), che ha prodotto l’asservimento della funzione pubblica al soddisfacimento di interessi di parte, in grado di provocare rilevanti vantaggi ed utilità personali, professionali e patrimoniali”.
Il modus operandi attraverso cui tale infiltrazione è stata resa possibile, osservano i giudici, sono: la lottizzazione delle società miste partecipate del Comune di Reggio Calabria e la gestione dei fondi del c. d. “Decreto Reggio”, “con le altrettanto note relazioni occulte gestite dal coimputato Paolo Romeo, con l’ausilio di alti rappresentanti delle istituzioni (vice prefetti e parlamentari, fra gli altri)”.
A riprova di ciò, la Corte porta le intercettazioni all’interno dello studio legale Tommasini, dove De Stefano e Romeo dialogano di dinamiche elettorali, “con l’evidente finalità di modificarne eventualmente l’esito a seconda della scelta del candidato da appoggiare, ciò, si basi, a soli sette giorni dal voto». Le dichiarazioni, il cui tenore è definito esplicito dai giudici, sarebbero la conferma degli evidenti riferimenti alla possibilità di spostare, ad appena una settimana dal voto, pacchetti consistenti di voti. Elementi, questi, che fanno comprendere come una tale tipo di intervento a vantaggio dell’uno o dell’altro candidato sarebbe stato possibile soltanto in virtù del coinvolgimento della ‘Ndrangheta nella sua componente unitaria.