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mercoledì 13 agosto 2025

La fragilità dei numeri "Caldi".

Avevo letto di questo articolo a fine luglio e mi ero ripromesso di scrivere un post a riguardo, poi, però, altre notizie avevano avuto la precedenza e, sebbene avessi già abbozzato una prima stesura, solo stasera ho trovato il tempo di completarla e pubblicarla.

La questione del record di caldo a Floridia, riportata dal sito "MeteoWeb", mi aveva lasciato perplesso, non tanto per il dato in sé, ma per ciò che potrebbe celarsi dietro quelle poche cifre.

E allora, come molti di voi, mi sono chiesto: com’è possibile che una stazione meteorologica (a quanto pare "malfunzionante") abbia generato un valore così eclatante? E ancora, come ha fatto l’OMM a validarlo dopo due anni di verifiche?

Ora, non essendo un esperto in meteorologia, ritengo comunque che questa sia una scienza piuttosto precisa, eppure, leggendo l'articolo, mi sembra esserci qualcosa di incomprensibile, almeno, il sottoscritto ammette di non averci capito granché.

Si parla di un termometro rotto, di un falso storico che ha fatto il giro del mondo, eppure la cosa più strana è come tutto questo sia potuto accadere sotto gli occhi di esperti e istituzioni (ammetto che per il sottoscritto non è una sorpresa: sono anni che, per vicende giudiziarie in cui sono stato coinvolto, mi sono imbattuto in un sistema i cui referenti, spesso, "non vedono l’elefante nella stanza").

Quei +48,8°C registrati nell’agosto 2021 avrebbero dovuto rappresentare un primato europeo, superando di quasi un grado il precedente record greco del 1977. E invece, oggi emerge che il dato era errato, già... frutto di un malfunzionamento.

Ma allora, perché è stato confermato dall’OMM? E soprattutto - ed è qui che la mia mente non trova pace -cosa si nasconde dietro questa differenza di pochi gradi, apparentemente insignificante ma in realtà così determinante?

Sì... è quell’insistere ossessivamente su un valore al limite della realtà che rende tutto ancora più sospetto. Sappiamo bene, in particolare i miei conterranei, come la Sicilia possa rappresentare una terra di caldo estremo, ma non mi sembra normale dover discutere su dati che dovrebbero essere certi e inconfutabili. Come si è potuta creare una tale confusione attorno a misurazioni che, come dicevo, dovrebbero essere incontrovertibili?

Forse il problema non è solo il termometro, difettoso o meno, ma qualcosa di più profondo, qualcosa che sfugge alla comprensione di chi, come me, osserva la vicenda con scetticismo.

L’OMM ha in parte ritrattato, ma lasciando un ulteriore alone di ambiguità. Il record greco resta imbattuto, ma ormai il dubbio è stato piantato: quanti altri dati sono stati accettati con troppa facilità? Quanto possiamo fidarci delle cifre che diventano storia, se poi si scopre che dietro c’è un errore?

Perdonate il mio scetticismo e/o la mia mancanza di fiducia, ma, da tempo, ho capito che in questo Paese non ci si può fidare di nessuno. E chissà se anche in meteorologia, come in altre discipline, ciò che sembra certo nasconde spesso zone d’ombra.

A me questa cosa non riesce proprio a convincermi. Ecco perché, dopo aver letto l’articolo e lo studio di Alfio Grassi (del cui link non mi è ero accorto a causa del cellulare, con tanto di immagini e dettagli a testimonianza - secondo il geologo - del falso storico), ho provato a contattarlo. Non riuscivo a capire quali ripercussioni, positive o negative, potesse avere l’aumento anche solo di due gradi nella temperatura registrata.

Purtroppo, il geologo Grassi mi ha comunicato di essere in ferie all’estero. Mi ha però promesso che, appena rientrato a Catania, mi contatterà per spiegarmi nel dettaglio il suo studio e, soprattutto, per chiarire cosa – secondo lui – si celi dietro questa vicenda.

In attesa, proverò ad analizzare e riassumere quanto riportato nel suo studio...

martedì 12 agosto 2025

Quale documentazione deve predisporre il direttore dei trasporti.

Buongiorno, faccio seguito alle molte richieste ricevute a mezzo mail da parte di alcuni lettori che mi chiedevano un elenco dettagliato dei documenti che per l'appunto un Direttore dei Trasporti deve redigere e gestire, suddivisi possibilmente per frequenza di attenzione:

Documenti da gestire QUOTIDIANAMENTE

Registro di controllo dei veicoli – Verifica dello stato tecnico e manutentivo prima e dopo l’uso.

Foglio di viaggio (o scheda di missione) – Dettaglio dei percorsi, orari, autisti e carichi.

Registro delle ore di guida e riposo – Controllo del rispetto dei tempi di guida e pause (tachigrafo digitale/analogico).

Checklist sicurezza veicoli – Verifica pre-partenza (luci, freni, pneumatici, carico, ecc.).


Comunicazioni di anomalie – Segnalazione di guasti, incidenti o ritardi.

Tracciamento GPS e logistica – Monitoraggio in tempo reale delle spedizioni o delle forniture consegnate.

Documenti da gestire SETTIMANALMENTE

Pianificazione turni autisti – Assegnazione degli autisti nel rispetto delle norme sui tempi di guida.

Report consumi carburante – Analisi degli sprechi e ottimizzazione dei consumi.

Resoconto infrazioni/segnalazioni – Eventuali multe, violazioni del codice della strada o problemi legali.

Aggiornamento stato manutenzioni ordinarie – Verifica degli interventi programmati.

Documenti da gestire MENSILMENTE

Report prestazioni flotta – Analisi di efficienza, costi e tempi di consegna.

Controllo documenti autisti – Validità patenti, certificati medici, formazione ADR (se trasporto merci pericolose).

Registro manutenzioni veicoli – Revisioni, tagliandi, riparazioni.

Bilancio trasporti – Spese (carburante, pedaggi, manutenzioni) vs. ricavi.

Verifica polizze assicurative – Validità e coperture (RCA, carico, infortuni).

Registro formazione autisti – Corsi obbligatori (sicurezza, ecoguida, ecc.).

Documenti da gestire ANNUALMENTE (o con scadenza fissa)

Certificato di conformità CE dei veicoli – Omologazione e revisioni ministeriali.

Documentazione ADR (se applicabile) – Rinnovo certificati per merci pericolose.

Audit interni ed esterni – Verifica conformità alle normative (es. ISO 39001, regolamento UE 561/2006).

Piano di miglioramento flotta – Acquisti nuovi mezzi, rottamazioni, ottimizzazione logistica.

Relazione annuale sicurezza – Incidenti, near-miss, azioni correttive.

Aggiornamento normativo – Recepimento nuove leggi (es. direttive UE, modifiche al Codice della Strada).

Altri documenti importanti (da tenere sempre aggiornati)

Manuale di qualità e sicurezza – Procedure aziendali per il trasporto.

Registro infortuni sul lavoro – Obbligatorio per il D.Lgs. 81/08.

Autorizzazioni al trasporto – Licenze comunitarie/nazionali, autorizzazioni particolari (es. eccezionali, animali vivi).

Ogni documento deve essere conservato secondo i tempi previsti dalla legge (es. registri di guida: 1 anno, documenti fiscali: 10 anni).

Se poi il Direttore dei Trasporti deve certificare le attività svolte per inserirle in un piano di qualità (es. ISO 9001, ISO 39001, EN 12513 per la logistica, ecc.), allora ecco che dovrà adottare un sistema documentale strutturato che garantisca tracciabilità, conformità e miglioramento continuo.

Per far ciò ovviamente servirà mettere in atto tutta una serie di azioni mirate per una corretta gestione certificata.

1. Implementare un Sistema di Gestione Documentale (Document Control)

Procedure scritte per ogni attività (es. "Istruzione operativa per la manutenzione dei veicoli").

Registri numerati e revisionati (es. "Registro manutenzioni v.2.0 del 01/2024").

Archiviazione ordinata (cartacea/digitale) con accesso controllato.

2. Adottare Moduli Standardizzati e Validati

Checklist firmate (es. "Checklist pre-partenza autista – Mod. QMS-005").

Report approvati (es. "Report mensile consumi carburante – Firmato dal Direttore").

Registri con evidenza di verifica (es. "Registro ore guida – Verificato da [Nome] il [Data]").

3. Eseguire Audit Interni ed Esterni

Pianificazione audit (es. "Audit semestrale sul rispetto dei tempi di guida").

Checklist di verifica (es. "Checklist audit ADR – Allegato al Manuale Qualità").

Report non conformità e azioni correttive (es. "NC-2024-001: Veicolo senza revisione – Azione: blocco fino a regolarizzazione").

4. Tenere Registri delle Revisioni Periodiche

Piano delle revisioni documenti (es. "Aggiornamento Manuale Qualità ogni 2 anni").

Log delle modifiche (es. "Modifica procedura formazione autisti – Rev. 3.0 del 05/2024").

5. Formazione e Addestramento Certificato

Registro formazione con firme e attestati (es. "Corso ADR 2024 – Autista Rossi Mario").

Valutazione delle competenze (es. "Test di idoneità alla guida ecologica").

6. Monitoraggio KPI (Indicatori di Prestazione)

Report periodici su:

Puntualità consegne (%)

Consumo carburante (km/litro)

Tasso di guasti (n° guasti/veicolo/anno)

Infrazioni stradali (n° multe/anno)

Analisi trend e obiettivi di miglioramento (es. "Riduzione del 10% dei consumi entro il 2025").

7. Raccogliere Evidenze Oggettive

Fotografie (es. carico correttamente fissato).

Log digitali (es. estrazioni dati tachigrafo).

Firme autisti (es. "Conferma avvenuta verifica pre-partenza").

8. Allineamento alle Norme di Riferimento

Mappatura dei requisiti (es. "Tabella di conformità al Reg. UE 561/2006").

Riferimento esplicito nei documenti (es. "Procedura conforme all’Art. 47 D.Lgs. 285/92").

Esempio Pratico di Certificazione in un Piano Qualità

Documento: *"Piano di Manutenzione Veicoli – Cod. QMS-MAN-001"*

Contenuto: Scadenziario interventi, fornitori autorizzati, modulo di consuntivo.

Certificazione:

Firmato dal Direttore e dal Responsabile Qualità.

Allegati report di manutenzione e fatture dei fornitori.

Verificato in audit con registrazione nel verbale.

Comprenderete che nel realizzare quanto sopra vi siano dei vantaggi grazia ad una Gestione certificata, come la:

✔ Riduzione rischi legali (multe, sanzioni).

✔ Miglioramento efficienza (dati misurabili per ottimizzare costi).

✔ Fidelizzazione clienti (garanzie di trasparenza).

✔ Accesso a gare e banditori (requisito spesso obbligatorio).

Infine, se l’azienda è già certificata ISO o intende esserlo, il Direttore dei Trasporti dovrà collaborare con il Responsabile Qualità per integrare i processi nel Sistema di Gestione.

lunedì 11 agosto 2025

Israele e gli Houthi: Il braccio di ferro nel Mar Rosso.

Israele ha dimostrato più volte di saper colpire con precisione, come nel caso dei raid in Iran, e adesso si prepara a individuare nuovi bersagli nello Yemen ed in Libano per infliggere colpi ancora più significativi agli Houthi e agli Hezbollah. 

Una fonte militare israeliana, però, non ha nascosto la complessità crescente di queste operazioni, ammettendo che gli strumenti attualmente a disposizione non sono sufficienti a fermare del tutto i lanci missilistici. Eppure, una cosa è chiara: Tel Aviv non ha intenzione di restare con le mani in mano.

Gli attacchi aerei israeliani hanno già centrato il porto di Hodeidah, un punto nevralgico per gli Houthi, colpendo direttamente bulldozer, camion e perfino un serbatoio di carburante.

Nel frattempo l’organizzazione sciita libanese avrebbe allestito una serie di hub logistici nei distretti di Batroun, Jbeil, Minieh e Akkar, tutti situati nella parte settentrionale del Paese, strutturando quell'area in maniera autonoma, non solo nei mezzi e nelle decisioni, ma soprattutto, con le armi.

L’uso crescente dei droni, lanciati direttamente dalle basi israeliane, ha permesso di ridurre i rischi per i piloti, dimostrando una strategia sempre più raffinata e mirata e nonostante la fermezza israeliana, replicare agli stessi modelli usati contro di essa, sembra al momento improbabile. 

Già... la distanza geografica nel caso dello Yemen e la mancanza di una rete di intelligence altrettanto solida in quei territori, rendono difficile applicare lo stesso approccio utilizzato a Gaza o in Iran. Gli Houthi, dal canto loro, non si fermano nel cercare di sviluppare nuove capacità militari, spinti dal supporto di quest'ultimi, anche se i risultati non sempre seguono. 

Difatti... ogni tentativo di ricostruire le infrastrutture portuali viene puntualmente vanificato da nuovi bombardamenti, come a ribadire un messaggio inequivocabile: ogni sforzo di riparazione verrà punito con nuovi attacchi!

Nel frattempo, gli Stati Uniti lanciano un nuovo monito: Teheran starebbe riorganizzando le milizie alleate nella regione, e gli Houthi potrebbero presto ricevere armamenti ancora più sofisticati. 

In questo equilibrio instabile, però, nessuno può dire con certezza come andranno le cose. Le rotte del Mar Rosso, strategiche per il traffico marittimo mondiale, potrebbero presto trasformarsi in un teatro di conflitti imprevedibili, dove ogni mossa genera reazioni a catena. 

E in questo gioco di specchi, dove le intenzioni si confondono con le azioni, l’unica certezza è che il prossimo colpo, in qualsiasi momento, potrebbe cambiare tutto.

domenica 10 agosto 2025

Urlavano sovranità, ora obbediscono agli USA. La Spagna no!

Già... prima delle elezioni, la coalizione urlava alla Sovranità! Ora, gli stessi che sono saliti al Governo, evidenziano comportamenti lacchè agli Usa! Sì... a differenza della Spagna, che - con i fatti - dimostra essere autonoma!


Difatti, la Spagna ha scelto di dire "no" agli F-35 statunitensi, e lo ha fatto con una motivazione che suona come un manifesto di sovranità. "Questione di principi", ha dichiarato il ministero della Difesa, preferendo puntare su opzioni europee come l'Eurofighter e il Future Combat Air System.



Non è solo una scelta tecnica, ma politica, un segnale chiaro di indipendenza da Washington, soprattutto in un momento in cui gli Stati Uniti, sotto la guida di Trump, impongono alla NATO di alzare la spesa militare al 5% del Pil e minacciano dazi commerciali. Madrid non ci sta, e mentre altri Paesi - come ad esempio il nostro - si piegano, la Spagna dimostra di avere una schiena più dritta.

Il governo Sánchez ha approvato con riluttanza un aumento della spesa militare, ma solo fino al 2% del Pil, ben lontano dalle richieste americane. Una decisione che non è piaciuta a Trump, il quale ha risposto con minacce di ritorsioni economiche. Eppure, la Spagna non ha abbassato la testa, anzi, ha ribadito la sua volontà di ridurre la dipendenza dagli USA, anche in campo tecnologico, come dimostra la scelta di affidare a Huawei l'archivio delle intercettazioni giudiziarie. Un altro tassello di una strategia chiara: difendere la propria autonomia decisionale.

Certo, lo Stato maggiore spagnolo non nasconde le preoccupazioni. Senza gli F-35, la sostituzione degli Harrier AV8B entro il 2030 diventa un rompicapo. Le alternative europee sono ancora lontane dall'essere operative, e l'unica soluzione immediata sarebbe proprio il caccia americano. Ma Madrid sembra disposta ad accettare questo rischio pur di non sottostare alle pressioni di Washington. Il messaggio è chiaro: meglio una flotta aerea meno avanzata oggi che rinunciare alla propria sovranità domani.

Lockheed Martin ha provato a giocare la carta europea, sottolineando che gli F-35 sono assemblati in Italia, ma non è bastato. Per la Spagna, il problema non è la provenienza geografica del velivolo, ma la dipendenza strategica dagli USA.

E dopo le ultime uscite di Trump, che ha minacciato di far pagare il doppio a chi non si allinea, la posizione di Madrid appare ancora più significativa. E così... mentre altri governi cedono, la Spagna dimostra che esiste ancora un modo per resistere alle logiche del ricatto.


Ed allora - vorrei chiedere a tutti quei burattini che si presentano ogni giorno in Tv a raccontarci (quanto imparato a memoria), quasi fossero "pappagalli" o come li definiva la Fallaci "Cicale": siamo stanchi di vedere quei vostri visi, ma soprattutto ci siamo rotti le palle di ascoltare - in una televisione nazionale - le solite caz...

Urlavano sovranità, ora obbediscono agli USA!

venerdì 8 agosto 2025

Netanyahu e il piano silenzioso: da Gaza alla Cisgiordania, l’ombra dell’annessione!

Da tempo il sottoscritto anticipava che il governo Netanyahu avrebbe trasformato la risposta all’Operazione Diluvio (al-Aqṣā) in un’occasione per riprendersi Gaza, e oggi quelle ipotesi stanno diventano realtà.

La decisione del gabinetto di sicurezza israeliano di approvare l’occupazione di Gaza City non è che l’inizio di un disegno più ampio, quello che - sempre secondo il sottoscritto - porterà, tra qualche anno, a estendere il controllo anche sulla Cisgiordania.

Il piano, approvato dopo dieci ore di discussioni accese, prevede lo smantellamento definitivo di Hamas, ma anche qualcosa di più profondo: la rimozione di ogni autonomia palestinese nella Striscia. L’IDF si prepara a entrare in Gaza City, un’area finora evitata, evacuando circa un milione di persone verso i campi profughi centrali, mentre i terroristi rimasti verranno assediati e neutralizzati.

Abbiamo visto come il capo di stato maggiore, abbia tentato di opporsi, sostenendo l’impossibilità di garantire una risposta umanitaria a uno spostamento così massiccio, ma la sua voce alla fine è rimasta inascoltata. Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz hanno viceversa spinto per un’azione decisa, fissando simbolicamente la scadenza delle operazioni al 7 ottobre 2025, secondo anniversario del massacro.

I cinque principi approvati dal gabinetto non lasciano spazio a interpretazioni: fine dell’arsenale di Hamas, ritorno degli ostaggi (vivi o morti), smilitarizzazione di Gaza, controllo israeliano sulla sicurezza e un’amministrazione civile alternativa, che escluda tanto Hamas quanto l’Autorità Palestinese.

Tutto ciò conferma ciò che già avevo a suo tempo riportato: la risposta israeliana al 7 ottobre non si limiterà alla vendetta, ma sarà l’occasione per ridisegnare i confini del potere nella regione e Gaza è soltanto il primo passo!

giovedì 7 agosto 2025

Firme, timbri e negligenze: l’altra faccia della gestione dei trasporti.

Stasera dovevo regalarvi la continuazione del post di ieri, con quel racconto particolare su ciò che accade in alcuni comuni etnei, tra suddivisioni di posti tra familiari, parenti e amici...

Purtroppo, non posso mantenere la promessa. E no, non posso spiegarvi il motivo. So che sembra strano, ma alcune storie, a volte, devono aspettare.

Fidatevi: se potessi parlare, lo farei. Purtroppo per il il momento debbo chiedervi di pazientare... 

Ed allora stasera, continuo con quanto avevo a suo tempo iniziato...
 
Sì... so bene che avrei dovuto iniziare questo post con la frase "La fragile illusione del controllo: storie di documenti dimenticati".

Infatti, dopo aver scritto il post https://nicolacostanzo.com/2025/07/29/se-il-direttore-dei-trasporti-ce-solo-sulla-carta-chi-risponde-davvero/ c'è una domanda che molti miei lettori mi hanno posto, con tono quasi ansioso: quali sono i documenti che un direttore dei trasporti dovrebbe davvero gestire? La risposta, teoricamente, è semplice. Basterebbe aprire un manuale, sfogliare una normativa, e l’elenco sarebbe lì, chiaro e inoppugnabile. Ma tra il dovrebbe e il fare, c’è un abisso che pochi hanno il coraggio di ammettere.

Prendiamo i documenti, quelli che dovrebbero essere il pane quotidiano di chi ricopre questo ruolo. Il registro di controllo dei veicoli, i fogli di viaggio, il monitoraggio delle ore di guida. Carta su carta, firme che a volte sembrano più un automatismo che una reale verifica. 

Quanti di questi documenti vengono compilati per dovere, anziché per reale necessità? Quante checklist sono solo un segno di penna frettoloso, anziché l’esito di un controllo attento? La risposta, purtroppo, la conoscono bene quelli che poi, sul campo, si scontrano con le conseguenze di questa superficialità.

E poi arrivano i documenti settimanali, mensili, quelli che richiedono un minimo di pianificazione. La turnazione degli autisti, il report dei consumi, lo stato delle manutenzioni. Sembrano compiti banali, quasi meccanici. Eppure, quante volte vengono archiviati come semplici adempimenti, anziché essere usati per quello che sono: strumenti per evitare guai ben più grossi? Un direttore dei trasporti che si limita a timbrare carte, senza mai analizzare quei dati, è come un capitano che guarda la bussola ma ignora la rotta.

Passiamo ai documenti annuali, quelli che richiedono una visione più ampia. Le revisioni, gli audit, i piani di miglioramento. Qui la faccenda si fa ancora più delicata, perché se il quotidiano è già gestito con approssimazione, figuriamoci il resto. 

Quante aziende hanno un manuale di qualità che esiste solo nello scaffale di un ufficio, mai sfogliato? Quanti audit sono semplici formalità, con checklist compilate a memoria anziché con attenzione? La verità è che, in troppi casi, la certificazione è solo un pezzo di carta da esibire, non una garanzia reale.

Eppure, basterebbe poco. Un sistema documentale strutturato, procedure chiare, controlli che siano veri controlli, non mere ritualità. Ma questo richiederebbe tempo, risorse, e soprattutto la volontà di fare le cose come si deve. Invece, troppo spesso, tutto si riduce a un gioco di apparenze. Si compila, si archivia, si firma, e si spera che nessuno vada a guardare troppo da vicino.

Alla fine, la domanda è sempre la stessa: serve davvero un direttore dei trasporti, se il suo ruolo si riduce a una firma? O sarebbe meglio ammettere che, senza un reale processo di qualità, quell’incarico è solo un nome vuoto?

I documenti ci sono, le norme pure, quello che manca, troppo spesso, è la serietà di chi dovrebbe farle rispettare. E il problema, purtroppo, non è nella carta. È in chi quella carta la tratta come un fastidio, anziché come uno strumento per evitare disastri!

mercoledì 6 agosto 2025

Quando la legalità è solo uno slogan: politica e interessi privati. Dov'è la Procura?

Già… una legalità che risuona solo nei discorsi, mentre nella realtà si sgretola come un castello di sabbia al primo soffio di vento. Le parole volano alte, impennate come aquiloni in un cielo sereno, ma i fatti strisciano nel fango, lenti e viscidi, e quel fango è lo stesso in cui affondano le mani coloro che dovrebbero custodire il bene comune con rigore e silenzio.

Questo schifo di politica, gonfia di potere e intrisa di privilegi, ha trasformato la gestione della cosa pubblica in un affare privato, un mercato sommerso dove ogni decisione è un debito da saldare con un favore, ogni posto di lavoro una ricompensa per chi ha baciato l’anello al momento giusto. 

Quelli che abbiamo eletto per rappresentarci, per lavorare per tutti, hanno invece interpretato il mandato come un diritto ereditario, una specie di investitura divina a spartirsi ricchezze, appalti, poltrone, come se la città fosse una villa di famiglia da dividere tra eredi. E il peggio? Che lo fanno con la spudoratezza di chi crede di essere nel giusto, di chi si guarda allo specchio e vede un benefattore, non un parassita.

Forse il problema sta proprio in quelle parole mal interpretate, in quel “governare come il buon padre di famiglia” che hanno preso alla lettera, ma nel modo più distorto, più meschino possibile. Per loro, essere “buoni padri” non significa avere cura del paese, ma garantire che i figli abbiano un posto in Comune, che i cognati gestiscano le gare d’appalto, che gli amici più fedeli trovino sempre una raccomandazione pronta presso uno degli uffici. E i concorsi pubblici? Una farsa, una sceneggiata dove i copioni sono scritti mesi prima e gli attori principali sono sempre gli stessi, quelli che non hanno mai aperto un bando ma sanno già dove finirà il posto.

E mentre tutto questo accade, mentre il denaro pubblico diventa moneta di scambio per lealtà personali, mentre le opere incompiute marciscono sotto il sole e i giovani scappano all’estero, mi chiedo: ma le Procure dove sono? Dormono? O forse, anche lì, qualcuno ha deciso che certe cose è meglio non vederle, che certi nomi vanno trattati con riguardo, che certe inchieste potrebbero far cadere troppi alberi in un bosco già malato?

Lasciate quindi che vi racconti una storia, una di quelle che sembrano uscite da un romanzo grottesco, ma che purtroppo è vera, anzi, quotidiana. Un Comune etneo, piccolo ma non troppo, dove le dinamiche di potere si intrecciano con affari, favori e raccomandazioni come radici in un terreno avvelenato. E la cosa più agghiacciante? Che non è l’unico. È solo uno dei tanti anelli di una catena che sembra non avere fine, un sistema che si ripete identico in cento paesi, in cento province, con volti diversi ma stesse mosse, stessi silenzi, stesse complicità.

Ma la domanda che resta, alla fine, è sempre la stessa: fino a quando continueremo a permettere che tutto questo accada? Fino a quando lasceremo che il bene di tutti diventi il bottino di pochi, che la speranza si trasformi in rancore e il rancore in rassegnazione?

Il sottoscritto pensa – ahimè – che non cambierà mai nulla in questo nostro Paese. È un circolo vizioso che si autoalimenta, perché in fondo ai miei connazionali piace questo sistema clientelare, lo tollerano, lo subiscono, ma segretamente sperano di poterne usufruire un giorno, quando toccherà a loro. È un gioco di specchi dove tutti fingono di indignarsi, ma nessuno rompe davvero lo schema, perché ognuno coltiva il sogno di diventare un giorno il padrone del favore, non più il mendicante.

Forse solo un conflitto armato, una di quelle tragedie che sconquassano le fondamenta di una nazione, potrebbe costringerci a un reset, a spezzare la catena e ricominciare da zero. Già, perché così è stato per i nostri padri e nonni. Sì… quelli che hanno vissuto il dopoguerra sanno cosa significa vedere un Paese in macerie e doverlo ricostruire partendo dalla fame, dalla cenere, dai sassi.

D'altronde basti osservare quanto sta accadendo in queste ore nella striscia di Gaza o in Ucraina per comprendere le difficoltà, per capire cosa significa perdere tutto e dover ricominciare con le mani nude. Come oggi, anche allora da noi – in quegli anni bui – accadde qualcosa di straordinario. Quando il pane era razionato e le città ed i suoi palazzi erano ridotti a scheletri di mattoni, la gente si aiutava, non per dovere, ma per necessità, perché l’altro era il fratello della stessa miseria.

Le donne dividevano l’ultima manciata di farina per fare una minestra, mentre i contadini – che nascondevano il grano – ora provavano a sfamare i vicini, gli operai viceversa iniziavano la ricostruzione con le mani nude, con la forza di chi non ha più niente da perdere. Se qualcuno volesse rivivere quei momenti, gli basterà osservare alcuni film neorealisti come "Ladri di biciclette" o "Roma città aperta"; in quei cortometraggi si racconta in modo reale la vita – in quel momento storico – del nostro Paese: non c’era eroismo, solo disperazione e una solidarietà che sgorgava spontanea, unico modo di sopravvivenza.

Persino i bambini raccoglievano cicche di sigarette per rivenderle, le donne facevano la fila per ore per un litro di latte annacquato. Eppure, in quella miseria, c’era una dignità che oggi sembra svanita, un senso di appartenenza che non si comprava, non si raccomandava, ma nasceva dal sangue e dalla terra. Forse perché allora si lottava per qualcosa di concreto: un tetto, un lavoro, un futuro. Oggi, invece, ci accontentiamo di illusioni e piccoli privilegi, mentre il sistema ci divora pezzo a pezzo, in silenzio.

Ma il dopoguerra insegnò anche altro: che la ricostruzione non fu solo merito degli aiuti americani del Piano Marshall. Fu soprattutto la gente comune, quella che non aveva niente da perdere, a rimettere in piedi l’Italia, mattone dopo mattone, con le unghie e con i denti. Senza aspettare che lo facessero i politici, già anche allora impegnati a spartirsi le poltrone, a costruire nuovi castelli di sabbia sulle macerie del vecchio mondo.

Chissà se serve davvero una nuova catastrofe per ritrovare quell’istinto di comunità, quel senso del noi che sembra ormai sepolto sotto tonnellate di individualismo e rancore. Sì… forse, semplicemente, abbiamo dimenticato troppo in fretta cosa significa aver fame, cosa significa non avere niente e dover costruire tutto. E soprattutto, cosa significa alzarsi insieme per cambiare le cose, non per interesse, ma per dignità.

Comunque, domani vi racconto la storia di cui vi ho accennato, vedrete… resterete senza parole.

martedì 5 agosto 2025

Mafia e antimafia, tra riforme e passi indietro! - Parte Finale

Sono giunto alla fine di questa "mini-serie" sulla giustizia, e vorrei concludere riepilogando con precisione ciò che accade a chi, armato di coraggio, prova a denunciare.

Come già accennavo ieri, la "Legge Cartabia" ha finito per scoraggiare chiunque avesse presentato un esposto, anche se spesso, più per motivi profondamente personali che per fare il proprio dovere di cittadini. Ora che la riforma impone di procedere solo tramite formale querela, molti hanno preferito ritirarsi, lasciando che il sistema li inghiottisse nel silenzio.

Alcuni mesi fa, mi trovavo in Tribunale a Messina come teste per la procura, e prima del mio intervento erano in calendario ben sette processi. Pensavo sarebbe stata una lunga attesa, che avrei impiegato almeno tutta la mattinata. Invece no. Il giudice apriva il dibattimento, chiamava i testimoni, e puntualmente gli avvocati comunicavano la rinuncia dei loro assistiti. Non è successo una volta, ma tutte e sette. In mezz’ora, ero già seduto per testimoniare.

Una dimostrazione lampante di come questa legge non serva a ridurre i processi, ma a farli evaporare prima ancora che inizino.

E poi c’è l’altro aspetto, quello più logorante. Quando denunci qualcosa che non ti riguarda direttamente, quando provi a fare la tua parte, il sistema ti accoglie con una serie infinita di intoppi.

L’udienza slitta di sei mesi per l’agenda del giudice, l’avvocato della difesa non si presenta bloccato in un altro tribunale. La volta successiva: il PM è assente per un “impegno istituzionale”. Poi tocca agli scioperi – prima i magistrati, poi i legali e infine gli uscieri – e quando finalmente sembra tutto a posto, l’imputato gioca la carta del “malore improvviso” e il processo si blocca di nuovo.

Nel frattempo, nessuno ti avvisa che l’udienza è saltata. E così, chi ha cercato solo di fare il proprio dovere, si ritrova a perdere tempo e denaro. Perché magari ha preso un aereo, essendo per lavoro in un’altra regione o addirittura all’estero. E lo Stato? Non ti rimborsa nulla. O meglio, mi dicono che puoi chiedere qualcosa per il biglietto del treno, rigorosamente di seconda classe.

Negli Stati Uniti, se grazie a una denuncia lo Stato smaschera una frode, chi ha contribuito viene premiato con una percentuale del recupero. Da noi, invece, sei tu a pagare. Sempre!

È comprensibile, allora, che chi ha già vissuto questa tortura preferisca rinunciare in partenza, evitando di riviverla. E così, l’illecito che avrebbe potuto essere fermato, prosegue indisturbato, mentre il sistema fa di tutto per scoraggiare chiunque provi a cambiare le cose.

Denuncia! È questo il mantra che ci ripetono in coro, dal Presidente della Repubblica all’ultimo funzionario di periferia. Peccato che nessuno di loro, quando si tratta di circostanze che non li riguardano personalmente, abbia mai avuto il coraggio di farlo davvero. Nessuno ha mai sacrificato un briciolo della propria comoda posizione, figuriamoci la carriera.

Basterebbe guardarsi intorno per capire come funziona questo sistema malato. Basterebbe ascoltare le inchieste giudiziarie che ci vengono vomitate addosso ogni giorno, con nomi e cognomi di politici inquisiti, coinvolti, condannati. Eppure, stranamente, eccoli lì, sempre gli stessi, che risorgono come zombi, pronti a riprendersi il loro posto come se nulla fosse.

È questo il Paese che abbiamo. Un Paese che non merita cittadini onesti, perché li schianta, li logora, li umilia. Un Paese che, per andare avanti, ha bisogno dei soliti meschini personaggi, quelli che da decenni si aggrappano alle poltrone e non hanno intenzione di mollare. Perché qui, chi denuncia perde. Chi tace, invece, sopravvive. E chi dovrebbe cambiare le cose, è troppo occupato a garantirsi l’immunità.

E allora, mi rivolgo ora a voi, cari Procuratori, con cui ho aperto questa serie di interventi – e permettetemi, in questa sede, di aggiungere due nomi che stimo profondamente: Nicola Gratteri, oggi Capo della Procura di Napoli, e Raffaele Cantone, alla guida della Procura di Perugia. A voi, che siete la parte sana del Paese, voi che ogni giorno sfidate questo sistema marcio, pongo una domanda semplice, ma straziante nella sua ovvietà: perché mai qualcuno dovrebbe ancora provarci?

Perché dovrebbe presentarsi in procura, denunciare alla Dia, segnalare alla Finanza, quando poi si ritrova solo contro un sistema che lo punisce per il suo coraggio? Quando scopre che i potenti indagati hanno più diritti dei cittadini onesti? Quando si accorge che i reati spariscano come neve al sole tra rinvii, prescrizioni e cavilli procedurali, ma anche quando alla fine si riesce a giungere ad una condanna?

Già... perché dovrebbe credere in uno Stato che, quando va bene, lo ignora, e quando va male, lo punisce per aver osato disturbare?

Voi lo sapete meglio di chiunque altro quanto costa, in termini di coraggio e solitudine, alzare la mano e dire "basta". Eppure, nonostante tutto, continuate a farlo. Ma ditemi: quanti ancora resisteranno, prima di capire che qui la giustizia è un lusso, non un diritto? Quanti cittadini perbene dovranno sbattere la faccia contro questo muro di gomma, prima che qualcosa – finalmente – si rompa?

Con affetto (e molta amarezza),
Nicola Costanzo

P.S. Questo non è un addio, ma un invito a non arrendersi. Sappiate che non sarete soli in questa battaglia: finché ci sarà anche solo uno di voi disposto a lottare, troverete sempre persone come il sottoscritto al vostro fianco. Perché la speranza, quando diventa collettiva, smette di essere un'illusione e diventa un'arma!

lunedì 4 agosto 2025

Mafia e antimafia, tra riforme e (aggiunge il sottoscritto: 'troppi') passi indietro! - Quarta parte.

Eccoci qui, al penultimo atto di questo viaggio attraverso i meandri di mafia, antimafia e riforma giudiziaria. Ora, come promesso, parliamo di chi, come me, non abbassa lo sguardo davanti alle verità più scomode, quelle che bruciano, quelle che fanno girare la testa a tanti, ma che alla fine tutti noi, volenti o nolenti, ci ritroviamo a ingoiare...

E permettetemi di essere chiaro: urlare per un torto subìto in prima persona è una cosa, ben altra è alzare la voce per chi non ti ha mai fatto nulla di personale, ma opera in quell'ambiente che dovrebbe essere la casa della giustizia. Parlo di chi siede nelle istituzioni. Di chi fa politica. Di chi riceve incarichi dai Tribunali a nome dello Stato. Di chi dirige enti, associazioni e dovrebbe vigilare ed invece copre raggiri, truffe, soldi pubblici sperperati.

Ed allora: A chi giova questo silenzio? A chi conviene che i Tribunali continuino a nominare gli stessi nomi che, come dimostrano gli scandali di questi anni, persino di questi giorni, sono intrecciati a collusioni e corruzione? A chi serve un'antimafia che abbaia ma non morde? Chi ci guadagna da un sistema clientelare, tentacolare, radicato, che tiene in piedi la politica col voto di scambio e si nutre della criminalità attraverso appalti, concessioni, finanziamenti?

E qui arriva il punto. Il problema non sono solo i corrotti. Il vero cancro è chi, in questi anni, non ha voluto o saputo fare leggi serie, permettendo alla corruzione di diventare sistema. Un sistema in cui il silenzio è omertà. Dove nessuno denuncia, perché denunciare significa sfidare un meccanismo che ti schiaccia.

Difatti... cosa succede quando qualcuno prova a fare il proprio dovere? Prendiamo il caso di chi ricopre incarichi dirigenziali, con responsabilità civili e penali che potrebbero costargli la libertà. Fintanto che un dipendente o professionista non deve rispondere personalmente, su aspetti tecnici, amministrativi, di sicurezza sul lavoro, ambientali o gestionali, potrei ancora comprendere (senza però giustificare...) quel voltarsi dall'altra parte. Quel fare finta di non vedere. Ma quando uno risponde in prima persona, quando mette a rischio non solo il posto ma la propria libertà, senza essere nemmeno l'amministratore della società, allora la domanda sorge spontanea: Perché? Perché accettare di diventare complici, quando tra l'altro non si riceve nulla in cambio? Quando l'unica ricompensa è soltanto la possibilità di continuare a lavorare?

È pura follia? O forse no. Forse è l'effetto di quel meccanismo perverso di sottomissione al datore di lavoro, soprattutto nelle aziende private gestite con metodi patriarcali. Ancora peggio quando l'impresa è legata a doppio filo alla criminalità organizzata, quando quei soldi che circolano sono capitali riciclati, quando quel sistema può contare su dirigenti e funzionari pubblici compiacenti, pronti ad aprire le porte ad appalti milionari. E così il cerchio si chiude. La stessa persona che dovrebbe vigilare, che ha responsabilità penali, che potrebbe perdere tutto, tace. Per paura? Per convenienza? Per quel senso distorto di lealtà che trasforma dipendenti in complici? Intanto, il meccanismo continua a macinare vittime e profitti. E la mafia ringrazia.

E quel dipendente o professionista che ha denunciato? Che fine fa? Diventa un sopravvissuto. Un fantasma professionale. Inizialmente, molte di queste imprese, se il soggetto non si è già esposto pubblicamente, non hanno un sistema di selezione abbastanza sofisticato da individuare certi difetti caratteriali. Non cercano coscienze, cercano esecutori. Così, all'inizio, quel professionista viene assunto. Poi, gradualmente, emerge la verità: quel soggetto non è disposto a mediare. Non chiuderà gli occhi davanti a fatture truccate, a materiali scadenti, a norme di sicurezza ignorate, a gestione rifiuti taroccate. Non diventerà complice di quel gioco sporco che l'impresa, o meglio, quel fantoccio amministrativo messo lì dalla criminalità organizzata, considera normalità.

E allora scatta la trappola. Se il dipendente o professionista ha la fortuna, o la sfortuna, di non avere disperato bisogno di quel lavoro, può fare ciò che ho fatto io più volte: guardarli negli occhi e mandarli a fanculo. Ma non prima di aver denunciato tutto. Documenti alla mano. Prove inconfutabili. Peccato che, per quanti non hanno la forza di resistere a quel sistema colluso, si ritrovino, dopo aver provato a compiere il proprio dovere, ad essere neutralizzati. Già... le denunce finiscono in un cassetto, i procedimenti si arenano e intanto, quel professionista scomodo viene marchiato come problematico, poco flessibile, non un team player. La sua carriera si inceppa. Le porte si chiudono...

Già, è così che funziona a chi svolge l'incarico di professionista, un po' meno problemi hanno coloro che svolgono la loro funzione da dipendenti, perché quest'ultimi possono sempre trovare un'impresa, se non nella propria terra, certamente in qualsivoglia altra regione del paese o ancor meglio all'estero. E così tutto prosegue indisturbato. Da una parte, l'impresa criminale che continua a operare, protetta da una rete di connivenze, dall'altra, chi ha provato a rompere il muro dell'omertà e si ritrova solo, con un futuro professionale in frantumi o lontano dove non può dare fastidio...

Eppure, qualcuno continua a denunciare. Non per dignità o per rabbia, ma per quel senso del dovere che neanche questo sistema marcio può riuscire a cancellare. La domanda che in questi anni mi sono chiesto - sia come associato di alcune note associazioni di legalità, ma anche come delegato per la provincia di Catania di una di esse - è: quanto ancora resisteremo prima che l'antimafia smetta di essere uno slogan e torni a essere una battaglia?

E allora veniamo al punto cruciale: cosa succede davvero quando si denuncia? Soprattutto oggi, con la tanto celebrata riforma Cartabia che doveva cambiare le regole del gioco? Perché qui, vedete, il paradosso è atroce. Tu denunci. Metti a repentaglio la tua carriera, la tua tranquillità, a volte la tua sicurezza personale. Lo fai credendo nello Stato, nelle istituzioni, in quella giustizia che dovrebbe premiare chi ha il coraggio di dire basta. E invece ti ritrovi solo. Sempre!

La riforma prometteva tempi più celeri, maggiori tutele per chi denuncia. Ma nella realtà? I processi continuano a durare anni. Le indagini si impantanano. Le prescrizioni fioccano. Intanto, chi ha denunciato viene emarginato professionalmente. Già, non è un team player. Subisce ritorsioni sottili ma devastanti. Mobbing, demansionamento. Attende i tempi di una giustizia in un limbo che logora l'anima.

Mentre tutti gli altri? Quelli che partecipano, che si fanno corrompere, che svendono la loro dignità, o nei migliori casi, si fanno i cazzi loro e girano la testa dall'altra parte. Quei corrotti che continuano a prendere mazzette. Quelle loro amiche imprese opache che continuano ad aggiudicarsi gli appalti, e poi cercano, attraverso subappalti o pseudo noli a caldo o freddo, quelle imprese che eseguono per conto loro i lavori appaltati. E i funzionari collusi che dovrebbero controllare? Lasciamo perdere... non solo restano al loro posto, ma con il tempo vengono pure promossi.

Riassumendo, il sistema ha una perfezione diabolica. E difatti: chi denuncia paga subito. Chi è denunciato paga forse anni dopo, se mai pagherà. E la riforma Cartabia? A parole, un passo avanti. Ma nei fatti i tempi processuali restano biblici. Le tutele per i whistleblower sono più teoriche che pratiche. L'impunità di sistema non viene minimamente scalfita.

Io continuerò a denunciare, lo sapete. Ma ditemi: quando realizzeremo che uno Stato che non protegge davvero chi denuncia è uno Stato che, di fatto, tutela i corrotti? Perché alla fine, il messaggio in ogni territorio è sempre lo stesso: fatti i fatti tuoi, abbassa la testa, tanto non cambia nulla.

E chi non ci sta? Quello paga. Sempre. E il peggio? Che tutti lo sanno, ma fanno finta di non sapere.


domenica 3 agosto 2025

Mafia e antimafia, tra riforme e passi indietro! - Parte terza

Allora, riprendendo nuovamente l'incontro dal punto di vista del nostro Procuratore aggiunto Sebastiano Ardita, mi piace iniziare da quella sua prima dichiarazione: "chi ha pensato a questo tipo di riforma, non ha la lontana idea di come si svolgono le indagini". Già... ascoltando questa sua affermazione, non so se ridere o piangere pensando alle conseguenze nefaste che questa nuova riforma comporterà.

Proseguendo - sottolinea il procuratore Ardita - non ci si deve limitare a indagare 'su', ma è fondamentale avvalersi 'anche' delle intercettazioni telefoniche che, pur non essendo l'unico strumento investigativo, una volta disponibili possono rivelarsi fondamentali. Devono essere usate in modo efficace, altrimenti non ha senso interromperle dopo soli 45 giorni. Significa che se un'indagine preliminare rivela attività sospette in un certo luogo tra determinate persone, e si ha la possibilità legittima di ascoltare cosa si dicono, dopo quei 45 giorni - che passano in un attimo - tutto viene interrotto e il lavoro svolto va perduto.

Ma qui il problema non è tanto il senso della norma, che è abbastanza chiaro a tutti. Il problema è il motivo per cui queste norme vengono fatte. L'idea diffusa è che siano create proprio per ostacolare l'attività giudiziaria. Consentitemi di ribadirlo: queste norme sembrano fatte per creare un argine all'attività giudiziaria! E quanti di voi non hanno pensato la stessa cosa? Già... la verità è che questa è la reale motivazione dietro la riforma.

E allora, il procuratore Ardita chiarisce in modo inequivocabile ciò che io stesso sostenevo ieri su quel "sistema tentacolare e sedimentato". In fondo, dice Ardita, è la stessa idea che ci siamo fatti guardando la riforma sulla separazione delle carriere. Cioè? Premesso che molte riforme penali sembrano avere un'eterogenesi dei fini - ottenendo risultati opposti a quelli dichiarati - non sappiamo ancora quali saranno gli effetti concreti di alcune di queste modifiche.

Sappiamo però che, per quanto riguarda le intercettazioni, il processo penale subirà un grave indebolimento. Ma ciò che fa più riflettere è che queste riforme siano state ideate da chi, in qualche modo, vuole mettersi al riparo dalle indagini. E questo è il grande equivoco. Perché finché esisterà una classe dirigente che pensa solo a scambiare favori, a intascare tangenti per appalti, a ottenere vantaggi personali da atti amministrativi, sarà sempre in una condizione di debolezza strutturale. Nessuna riforma potrà mai proteggerla.

L'unico modo per essere al riparo è svolgere il proprio lavoro con dignità, passione e onore, servendo lo Stato con integrità. A tal proposito, vale la pena ricordare le parole di Papa Leone XIV nel suo discorso ai parlamentari di 68 Paesi: "La politica non è un mestiere, è una missione di verità e di bene!".

Ardita prosegue: solo così si può arginare davvero qualsiasi indagine o processo, non certo creando meccanismi di separazione delle carriere o dipendenze dall'Esecutivo, di cui ancora non conosciamo le reali conseguenze. Lo stesso vale per le intercettazioni. Il punto cruciale è capire perché vengono fatte certe riforme. Se l'obiettivo fosse davvero rendere il processo più efficiente o ottenere risparmi, questa non è la strada giusta. Quando entrammo in magistratura, le intercettazioni erano costose, ma oggi il loro costo è pari a quello di una normale telefonata.

Quella che negli anni '90 era una spesa enorme per intercettare un cellulare, oggi è un costo irrisorio per lo stesso servizio. Quindi è una grande menzogna sostenere che queste riforme servano a risparmiare. Il vero scopo è palesemente quello di limitare l'attività giudiziaria. E questo è un nonsenso, perché ciò che va corretto non sono gli strumenti per contrastare i reati, ma le condotte illecite di chi dovrebbe servire lo Stato.

Purtroppo, dopo questo intervento - come avevo già scritto nel mio primo post - ho dovuto lasciare l'incontro per andare a prendere mia figlia all'aeroporto. Tuttavia, ho potuto seguire il resto della discussione il giorno successivo grazie allo streaming pubblicato a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=JXw2WZ4Bv6Y&t=887s&ab_channel=ANTIMAFIADuemilaTV.

Vi consiglio di ascoltarlo, perché le domande poste ai Procuratori dal giornalista Giuseppe Pipitone de "Il Fatto Quotidiano" sono estremamente rivelatrici. Dimostrano ancora una volta come in questo Paese le leggi non siano fatte per combattere l'illegalità, ma per proteggere quel sistema marcio che, negli ultimi trent'anni, è stato governato da chi ha preso il potere con astuzia e lo ha mantenuto promulgando norme ad personam...

sabato 2 agosto 2025

Mafia e antimafia, tra riforme e passi indietro! - Parte seconda.

E allora, continuando con quanto riportato ieri, entro nel merito per esperienza diretta di ciò che accade a un cittadino che decide di compiere il proprio dovere, senza che quest’ultimo abbia alcuna necessità morale di prendere a esempio gli insegnamenti di quegli uomini coraggiosi dello Stato, ricordati nel discorso del procuratore Di Matteo, non solo come vittime della mafia, ma per la loro dedizione e professionalità.

Osservare quella foto in cui due di quei magistrati sono ritratti sorridenti insieme, già… quanti di voi l’avranno vista esposta in bella mostra, quasi fosse un altarino, appesa alle pareti di quegli uffici istituzionali, come se la loro semplice presenza bastasse a motivare moralmente chi vi lavora. Già, se solo un’immagine potesse trasmettere quei veri valori, quel senso di servizio e devozione per l’incarico ricoperto. Ma se andiamo a scavare, scopriamo come la maggior parte di quei soggetti abbia ottenuto quel ruolo non per merito, non attraverso un concorso pubblico, ma grazie alla solita raccomandazione politica. E allora, ditemi, cosa possiamo aspettarci da chi si è già compromesso in partenza?

Ecco perché ritengo ormai inutile continuare a organizzare incontri per parlare di mafia, collusioni, corruzione, di un “sistema tentacolare e sedimentato”. Già… invece potrei gentilmente invitare i due procuratori, Ardita e Di Matteo, a una giornata al mare, sì, per fare un bel bagno e parlare del nostro Paese, o meglio, della mia meravigliosa isola, la Sicilia, con la sua cultura, la sua cucina, le sue tradizioni, il mare e la montagna, un paradiso per chi cerca relax e bellezza. Peccato che la realtà sia un’altra: viviamo in una terra marcia, da nord a sud, dove la maggior parte dei miei connazionali si è piegata a quel sistema clientelare e tentacolare chiamato politica, e nei casi più gravi si è lasciata foraggiare come pecore dalla criminalità organizzata, con buste e mazzette che arrivavano puntuali ogni mese.

E allora, mi rivolgo a quella parte sana che ancora esiste, esigua ma a cui voglio ancora credere, anche se ancora troppo timida nel compiere il proprio dovere e denunciare ciò che avviene illegalmente intorno a sé. Domani descriverò cosa succede quando qualcuno prova a fare la cosa giusta, sia come cittadino che come professionista.

Ma permettetemi di chiudere con un messaggio che ho ricevuto su WhatsApp dalla mia amica Romj, che ho menzionato nel post di ieri: “Nicola, ti ringrazio per avermi avvisato dell’intervista ai due procuratori. Come sempre, belle parole, ma nessuna risposta per chi, come me o te, si è esposto in prima linea. Oggi, senza entrare nei dettagli, nonostante tre condanne contro un professionista grazie alle nostre denunce, il sistema giudiziario continua a proteggerlo, lasciando in ostaggio lo Stato, l’amministratore giudiziario e 800 famiglie. In questi anni ho subito aggressioni, minacce, danni alla mia casa, costruita con sacrifici. La mia vita è trascorsa tra tribunali e uffici, sono testimone per due Procure, eppure nessuno mi ascolta. Alcuni magistrati sono scappati davanti alle mie richieste. Le associazioni antimafia tacciono, e la stampa d’inchiesta, quella che fa gli eroi quando conviene, ha avuto paura della complessità del caso e delle persone coinvolte. Nicola, nel mio cuore credo ancora nella giustizia, ma il problema è che non c’è nessuno che ascolta…”

Ecco perché scrivo. Perché quando le istituzioni tacciono, quando i magistrati voltano le spalle, quando la stampa ha paura, resta solo la voce di chi, come Romj, continua a lottare nonostante tutto. E questa voce non può rimanere inascoltata.

venerdì 1 agosto 2025

Mafia e antimafia, tra riforme e (aggiunge il sottoscritto: 'troppi') passi indietro! - Parte prima.

Perdonate la franchezza, ma nel trattare quest'argomento non mi limiterò a sfiorare la superficie. 

Ci sono momenti in cui il silenzio diventa complice, ed è proprio quando tutti abbassano lo sguardo che bisogna avere il coraggio di guardare più in profondità.

Affronterò quindi senza reticenze tutte le criticità che, secondo il sottoscritto, colpiscono chi - senza secondi fini o interessi personali - cerca semplicemente di fare il proprio dovere di cittadino o professionista. Persone che provano a portare alla luce verità scomode, denunciando fatti gravi, solo per scontrarsi con un apparato statale che sembra volerli ignorare.

E qui viene il bello: perché spesso non è solo questione di omissione, ma di attiva resistenza!

Già, un sistema che preferisce la retorica alle azioni concrete, mentre dall'altra parte la mafia si evolve, infilandosi con nonchalance in settori apparentemente legali: Appalti, finanziamenti, riciclaggio!

Tutti ambiti dove fioriscono le relazioni pericolose tra chi dovrebbe combattere il crimine e chi invece ci nuota dentro. Il vero cancro non è solo la mafia spudorata, ma quel mondo grigio di professionisti, funzionari e politici che fanno da ponte tra legalità e illegalità, mantenendo sempre le mani apparentemente pulite.

Prima di approfondire, però, un doveroso ringraziamento a due figure che da sempre ammiro: i procuratori Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo. Uomini che hanno messo in campo non solo le loro competenze, ma - ahimè - anche le loro vite.

Ieri sera, come molti miei concittadini, mi sono recato ad Aci Castello per assistere al loro incontro "Mafia e Antimafia, tra riforme e passi indietro". Purtroppo un impegno improrogabile mi ha costretto ad andare via prima del previsto, ma non prima di aver colto alcuni spunti fondamentali.

Tra l'altro, in piazza ho incontrato una cara amica - la stessa con cui in questi anni abbiamo denunciato fatti gravissimi, ottenendo anche importanti condanne - e le ho chiesto gentilmente di intervenire al mio posto, per porgere loro alcune domande che avrei voluto fare personalmente. Mentre preparavamo questo passaggio di testimone, ho potuto comunque ascoltare i primi interventi...

Di Matteo, con quella grande sensibilità che lo caratterizza, ha iniziato innanzitutto rivolgendo un pensiero alla tragedia che sta colpendo la popolazione di Gaza, ma ha anche preso una posizione netta contro i silenzi e le politiche del nostro governo che, non solo continua a vendere armi allo Stato d'Israele, ma evidenzia – a differenza di altri Stati – di non voler riconoscere lo Stato Palestinese.

Riprendendo quindi con l'incontro, il procuratore ha iniziato con lucidità ad affrontare i "passi indietro" compiuti in tema di riforme sulla giustizia, in particolare: la separazione delle carriere, l'approvazione dell'abuso d'ufficio, quella che lede il principio assoluto dell'obbligatorietà dell'azione penale, e infine, la riforma sulle intercettazioni.

Permettetemi di aggiungere una riflessione su quanto occorso in questi lunghi anni, ad esempio, nella lotta alla mafia: l'esclusione di magistrati del calibro di Scarpinato dalla Commissione Antimafia, oppure quanto accaduto con il decesso del boss Messina Denaro ed il suo arresto, che si è dimostrato inconsistente, avendo portato con se nella tomba tutti quei segreti cruciali riferiti alle stragi del '92-'93.

Mi riferisco all'archivio di documenti recuperati sicuramente da questo "prediletto" del boss di cosa nostra, Totò Riina, conservati immagino dentro quella sua cassaforte, stranamente mai recuperata dal gruppo dei Carabinieri del ROS, forse perché qualcuno - molto in alto del nostro Stato  - ha imposto di non intervenire, per evitare che quei documenti e i suoi legami venissero portati alla luce.

Ah... quanto mi pento oggi di non essere entrato da ragazzo nelle forze dell'ordine, già, quando mi era stato richiesto di farne parte; sono certo – conoscendomi – che nessun ordine di un qualsivoglia superiore sarebbe riuscito in quell'occasione a limitare il mio agire!

Ma come sappiamo tutti, si è preferito non intervenire per celare quanto vi era contenuto, evidenziando – e non solo in quell'occasione – una volontaria "sordità selettiva" verso quelle verità scomode.

Quello che emerge chiaramente oggi - secondo il procuratore Di Matteo - con questa nuova riforma è una giustizia a due velocità: una, giustizia che magari può essere a volte rigorosa, veloce, certe volte spietata, nei confronti delle manifestazioni criminali degli "ultimi" della società, e una giustizia, viceversa, con le armi spuntate, nei confronti delle manifestazioni criminali del potere, nei reati commessi da quei cosiddetti "colletti bianchi".

Già... aggiungerei un metodo antimafia distorto, dove la Commissione parlamentari adottano logiche politiche invece di indagare a fondo, ma soprattutto dove, la riforma della giustizia messa in atto, in particolare con la separazione delle carriere, non sposta di un millimetro il reale problema della giustizia in questo paese e cioè la lentezza dei processi; una riforma che può portare, anzi, inevitabilmente porterà, ad una fuoriuscita del Pm dall'ambito della giurisdizione e a un controllo degli uffici del pubblico ministero, da parte dell'esecutivo. 

Basti vedere quello che accade in tutti gli altri stati, quello che è previsto in tutti gli ordinamenti in cui c'è la separazione delle carriere, tra il pubblico ministero e il giudice, e costatare come in tutti quei Paesi, vi è una forma di controllo "penetrante" del potere esecutivo, quindi, del governo, della politica al governo in quel momento, sul pubblico ministero, alla faccia diciamo, del principio della separazione dei poteri e del necessario bilanciamento e controllo dei poteri suddivisi (legislativo, esecutivo e giudiziario).

Facendo sempre riferimento alla separazione delle carriere (paragono questo passaggio subliminale, al tocco magistrale di un grande Direttore d'orchestra, sì... questa nota aggiuntiva, evidenzia qualcosa di finemente "orchestrato"), il procuratore ricorda infatti non solo la vicenda della P2 di Licio Gelli ma di come questo punto, sia stato un vero e proprio - cavallo di battaglia - del governo Berlusconi.

Questa nuova riforma, non ha nulla a che vedere col funzionamento della giustizia, non ha nulla a che vedere nemmeno con la parità delle parti, la parità delle parti è nel processo, la parità delle parti significa che all'avvocato e alle parti private devono essere attribuiti gli stessi strumenti - di poter provare una circostanza - che vengono conferiti al pubblico ministero; ma non ci può mai essere una parità istituzionale tra chi, come il pubblico ministero - per costituzione e per legge - ha l'unico obbligo di ricercare la verità e chi come l'avvocato, ha invece un obbligo deontologico di difendere - a tutti i costi - la posizione del proprio assistito.

Quindi, il concetto della parità delle parti viene oggi rappresentato in maniera strumentale, perché la parità delle parti deve essere all'interno del processo, ma non significa potere, diciamo, parificare una parte istituzionale, qual è quello del pubblico ministero, con la parte privata, all'avvocato, su un piano più generale.
 
Ecco perché questo post, ma soprattutto i prossimi, che sto per scrivere non saranno in alcun modo "leggeri". 

Sì... parlerò di come denunciare significa scontrarsi con un sistema che marginalizza chi prova a fare luce, con un'informazione assente che sempre più dimostra d'essere superficiale e ahimè politicizzata, con istituzioni che mostrano un'indifferenza sconcertante e soprattutto con un mondo sociale e imprenditoriale che mette da parte chi ha dimostrato essere non solo onesto, ma soprattutto coraggioso. 

Ma non solo, significa ahimè fare i conti con quell'esercito di persone "perbene" che, dietro scrivanie linde e colletti inamidati, tengono in piedi proprio quel sistema marcio e corruttivo!

Ed infine, il giudizio finale espresso dal procuratore - facendo leva sui 33 anni di esperienza dedicati in magistratura - e quindi, su quali conseguenze negative questa riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, produrrà nel tempo.

Il procuratore Di Matteo, ha difatti dichiarato d'esser sempre più convinto che: la professionalità di un magistrato viene  arricchita dall'avere svolto entrambe le funzioni; non c'è miglior giudice di quello che sa come si svolgono sul campo le indagini, come altresì non c'è miglior pubblico ministero - che magari per aver fatto anche il giudice  - abbia fin dall'inizio quella cultura della prova, quel senso della necessità di acquisire una prova piena, che può derivare dalla sua precedente funzione di giudice.

In fondo sono stati giudici e pubblici ministeri come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rosario Livativo, Antonino Saetta, soltanto per parlare dei nostri colleghi, dei nostri colleghi uccisi e, non mi pare che fossero magistrati che non hanno dato buona prova di se. 

Separare il Pm, farne una cosa completamente diversa dal giudice, già dall'inizio, significa comunque creare una categoria di funzionari dello Stato - potentissima - che inevitabilmente assumerebbe la caratteristica di un organismo di super-polizia, assumerebbe la caratteristica, il pubblico ministero, di diventare un accusatore a tutti i costi, proprio perché altro rispetto al giudice, altro per mentalità , altro per studi, altro per formazione e questo finirebbe per accrescere a dismisura il suo potere, ma soprattutto per diminuire le garanzie del cittadino, nella fase più delicata che è quella delle indagini preliminari.          

Quindi, a chi mi accuserà nei prossimi giorni di essere troppo duro, rispondo anticipatamente dicendo loro: guardate i fatti. I fatti gridano, anche se molti (già... purtroppo molti, anche tra voi) fingono di non sentirli. 

Nei prossimi giorni, nella seconda e terza parte di questo post, entrerò nel merito delle mie motivazioni personali, perché certe verità - consentitemi - non possono essere racchiuse in poche righe.

giovedì 31 luglio 2025

Il Medio Oriente e l’eterno fallimento americano: già... quando le "nuove strade" portano sempre allo stesso vicolo cieco!

Sono anni che si sussurra di una "nuova strada" americana in Medio Oriente, ma la realtà è che ogni amministrazione ripete lo stesso copione fallimentare, rivestito solo di nuovi slogan.

Quando Trump, a maggio di quest’anno, ha sventolato accordi per 1.400 miliardi di dollari con Arabia Saudita, Emirati e Qatar, promettendo una rivoluzione negli equilibri regionali, ha solo riciclato la retorica di Obama nel 2009: grandi proclami, pochi fatti.

Qual è oggi la differenza? Nessuna. Sì, mentre Obama annunciava il disimpegno con un linguaggio conciliante, Trump ha imballato quelle vecchie promesse in un nuovo pacchetto regalo, con un involucro più aggressivo, ma alla fine la sostanza è rimasta immutata.

Eppure tutti i media – sottomessi e pilotati dalla politica Usa (basti osservare quanto accade oggi attraverso le decisioni messe in atto dal nostro governo...) – hanno celebrato il discorso tenuto a Riad come una svolta epocale, dimenticando (o volendo ignorare) che la storia in Medio Oriente si ripete ormai con imbarazzante regolarità.

E infatti, riprendendo il nervo pulsante di questa "nuova strategia" americana, si scopre quanto essa rappresenti di fatto un paradosso: attirare capitali dal Golfo mentre quei stessi Paesi cercano disperatamente di diversificare le proprie economie.

I numeri proposti sono astronomici, ma in fondo privi di sostanza!

Il Qatar, ad esempio, promette investimenti quintuplicati rispetto al suo PIL, mentre l’Arabia Saudita raddoppia magicamente il budget militare per acquistare armi USA, e infine gli Emirati annunciano il più grande campus di intelligenza artificiale al mondo fuori dagli Stati Uniti.

Peccato però che nel 2017 questi stessi protagonisti abbiano portato a termine soltanto il 20% degli accordi prefissati. Difatti, con il petrolio a prezzi più bassi e il Fondo Sovrano Saudita (PIF) che riduce le esposizioni negli asset americani, anche gli investitori arabi, pieni di petrodollari, sembrano meno entusiasti di questa pseudo-partnership.

E così, mentre Washington e i Paesi ricchi del Golfo giocano a poker, rilanciandosi con cifre da capogiro, una parte di quel Medio Oriente continua, ahimè, a bruciare e a perdere vite umane.

Lo stesso presunto accordo nucleare con l'Iran, che avrebbe dovuto portare stabilità in quell'area, ha di fatto riacceso la guerra per procura tra Teheran e Riyadh, cui si sono aggiunte Siria, Yemen, Libano e la striscia di Gaza.

E così l'Iran, dopo essersi liberato delle sanzioni, ha cercato di rafforzare la propria leadership con i gruppi militari di Hezbollah, Houthi e Hamas, mentre l’Arabia Saudita ha risposto stringendo ancor più il legame con gli Usa e finanziando i tanti gruppi sunniti.

Nessun Paese arabo sembra volersi muovere. Restano tutti a guardare, senza prendere posizione o intervenire, per non restare coinvolti in conflitti che non vogliono. E così, quelle note "primavere arabe", nate per portare democrazia, alla fine si sono trasformate in un incubo.

Difatti, la Tunisia, un tempo modello di transizione pacifica, oggi vede fuggire migliaia di giovani verso le nostre coste. L'Egitto è tornato a essere una dittatura militare. La Libia e lo Yemen sono inghiottiti da guerre civili. E per finire, la Siria e il territorio palestinese sono ormai un mosaico di macerie e distruzione.

Nessuna rivolta è stata capace di stravolgere gli equilibri, e soprattutto, la mancata presenza di una classe dirigente capace ha impedito di ribaltare i governi in atto, i quali hanno immediatamente represso nel sangue quei tentativi di cambiamento.

E l'Occidente, nel frattempo, sta a guardare. Sì, promuove di voler sostenere il cambiamento, ma alla fine ha preferito allearsi con chi garantiva una stabilità almeno illusoria, ben sapendo che, il più delle volte, alimentava gruppi terroristici.

Ecco, forse è qui il fallimento più grande: nell’incapacità di imparare dal passato. Gli Stati Uniti e il loro attuale Presidente sono convinti che basti sostituire un alleato scomodo con un altro, come se il problema fossero i singoli attori e non il sistema stesso.

Già, Trump punta tutto sui dazi, sugli investimenti miliardari obbligatori per il suo Paese, ma anche sull'acquisto di armi prodotte dai suoi amici industriali. Parliamo di società tra le più ricche del mondo, come Lockheed Martin, RTX (Raytheon Technologies), Northrop Grumman, Boeing e General Dynamics, tutte aziende che prosperano grazie alla vendita di tecnologia militare.

E infine, per foraggiare quei suoi amici miliardari, utilizza le loro imprese per vendere ai Paesi arabi software, intelligenza artificiale e microchip, presentati come necessari per aggiornare la "sicurezza" contro le nuove minacce, il tutto in cambio di petrolio.

E così, mentre l'Arabia Saudita potenzia le sue difese missilistiche con sistemi come il THAAD e il Patriot, altri Paesi del Golfo ampliano la cooperazione militare con gli Stati Uniti. Nel frattempo, Abu Dhabi costruisce data center, Israele e Iran si scambiano missili, e la Palestina cerca di non scomparire del tutto dai radar.

Ecco perché ritengo che, senza una visione che vada oltre gli interessi immediati, ogni "nuova strada" proposta sarà soltanto l'ennesimo vicolo cieco imboccato in quel labirinto mediorientale.

mercoledì 30 luglio 2025

Uomini, non dei...

Certo che ha senso, eppure non lo si può negare: leggere la Bibbia sapendo che essa non è altro che un libro, un’opera umana, scritta da uomini per uomini, non toglie affatto valore a ciò che racconta, anzi, lo restituisce alla sua vera dimensione. 

Non è una rivelazione divina, non è la parola di Dio trascritta da mani tremanti di profeti, ma è qualcosa di molto più terreno, e forse proprio per questo più vicino a noi. 

Quella domanda, però, continua a tornare, a tormentare chi cresce con quel libro tra le mani, convinto per anni che ogni parola fosse sacra, immutabile, venuta dall’alto.

E invece no. È solo un libro, scritto da uomini che vivevano in un tempo preciso, con paure, speranze, ambizioni, e soprattutto con una visione del mondo che oggi ci appare spesso lontana, se non addirittura incomprensibile. Eppure, dentro quelle pagine, si respira ancora qualcosa di vero, qualcosa che parla di noi, dei nostri limiti, delle nostre contraddizioni. .

Non c’è miracolo, non c’è voce divina, e nemmeno una verità assoluta. Ma c’è umanità, tanta, a volte crudele, altre volte tenera, e sempre imperfetta. E forse è proprio questa imperfezione a renderla così potente, così capace di parlare ancora oggi a chiunque, credente o meno. Perché non è il messaggio a essere divino, ma il modo in cui quel messaggio si intreccia con la nostra esistenza, con le nostre domande senza risposta, con i nostri tentativi di dare un senso a tutto questo. .

La Bibbia non è mai stata un manuale di istruzioni per la vita, e nemmeno una guida morale impeccabile. È un riflesso, distorto eppure sincero, di ciò che l’uomo ha sempre cercato: giustizia, amore, redenzione, senso. E lo ha fatto attraverso storie, miti, leggende, parabole. Ha costruito simboli, ha dato forma all’invisibile, ha tentato di rispondere a domande che nessuno sapeva come porre. .

E allora sì, forse ha senso leggerla, non per trovarvi la verità assoluta, ma per ritrovarsi dentro, per riconoscere in quelle storie un po’ di noi stessi. Non è Dio che parla, è l’uomo che cerca Dio, che lo immagina, lo disegna, lo placa o lo teme. È l’uomo che cerca se stesso, attraverso le sue paure, i suoi sogni, le sue colpe. .

Non ho bisogno di quei precetti per vivere, né di quelle regole per capire cosa sia giusto o sbagliato. Lo so già, da solo, ogni giorno, nelle scelte piccole e grandi. Eppure, ogni tanto, mi capita di sfogliare quelle pagine, non per cercare Dio, ma per ritrovare me stesso in quel groviglio di storie, di passioni, di errori. .

E forse è questo il vero valore di quel libro: non convincerci di nulla, ma interrogarci su tutto. Non dirci come vivere, ma ricordarci che la vita va vissuta, con tutte le sue ombre e le sue luci. Non parlare per Dio, ma parlare di noi, sempre, un eterno romanzo umano...

Dio che parla, ma solo per dire quello che vogliamo sentire. Miracoli che sembrano effetti speciali, comandamenti che pieghiamo come cartone, e un paradiso fatto su misura per giustificare i nostri porci comodi...

Già... ci si inginocchia davanti allo specchio e si chiama tutto ‘divino’. Geniale, no? L’unico libro dove l’autore è Dio, ma i protagonisti siamo sempre e solo noi; e sì... vaffanculo al dubbio!


martedì 29 luglio 2025

Se il direttore dei trasporti c’è solo sulla carta, chi risponde davvero?

Negli ultimi anni, c’è una figura professionale che più di altre mi fa riflettere, e non in senso positivo...

Parliamo del "direttore dei trasporti", un ruolo che dovrebbe essere svolto con massima cura e competenza, ma che troppo spesso viene trattato come una formalità, una semplice voce da inserire in un organigramma. Eppure, le responsabilità legate a questo incarico sono enormi, sia dal punto di vista penale che in termini di sicurezza e rispetto delle normative.

Alcuni dei miei lettori – quelli per i cui uffici passano quotidianamente dossier ben più corposi di questo – mi perdoneranno se sorvolo su certe dinamiche, del resto, se fossero davvero un mistero, non ci sarebbe nemmeno bisogno di parlarne, come d'altronde mi spiace dover deludere chi magari vorrebbe un discorso edulcorato, ma stasera non ho intenzione di girare attorno al problema. 

La realtà è che molti di coloro che ricoprono questo ruolo lo fanno in modo superficiale, senza alcun reale interesse o competenza. Spesso vengono nominati solo per rispettare un obbligo di legge, senza possedere un contratto regolare e ancor meno una retribuzione adeguata, ma soprattutto senza la consapevolezza di ciò che quell'incarico comporta.

È come se quella figura del direttore dei trasporti fosse ridotta a un mero timbro, una firma su un documento, mentre tutto il resto viene gestito in modo approssimativo, quando non del tutto negligente.

E qui si aprirebbe un capitolo infinito sulle mancanze, sulle omissioni, sulle pratiche scorrette che si ripetono giorno dopo giorno. Ma non servono pagine e pagine di esempi per capire che il problema esiste ed in taluni casi è sistemico. 

Chi dovrebbe vigilare, chi dovrebbe garantire che tutto funzioni come previsto, spesso chiude un occhio, o peggio, contribuisce a questo circolo vizioso, eppure, basterebbe un minimo di serietà, di controllo, di rispetto per le regole, per evitare conseguenze disastrose.

Per questo mi rivolgo a chi, più o meno consapevolmente, si trova a ricoprire questo ruolo senza averne piena cognizione. Le conseguenze di una gestione negligente possono essere gravissime: da sanzioni amministrative a veri e propri reati penali, a seconda della gravità delle violazioni. 

E non si tratta di ipotesi remote. Pensate a un incidente mortale causato da un veicolo mal mantenuto, a uno sversamento di materiali pericolosi che inquina l’ambiente, a frodi fiscali legate alla gestione dei trasporti. In tutti questi casi, il direttore dei trasporti potrebbe finire nel mirino della giustizia, accusato di omicidio colposo, reati ambientali o evasione fiscale.

E non è tutto. La responsabilità non si limita alle proprie azioni, ma si estende anche a quelle di chi lavora sotto la sua supervisione. Se un dipendente commette un illecito, il direttore potrebbe essere chiamato a risponderne, soprattutto se non ha adottato le necessarie misure preventive. Insomma, un ruolo che dovrebbe essere sinonimo di garanzia e sicurezza, troppo spesso viene svuotato di significato, con il rischio - di trasformarsi in un boomerang - che ritorna su se stesso.

Alla fine, ciò che emerge è un quadro desolante. Il direttore dei trasporti dovrebbe essere una figura chiave, un garante della legalità e della sicurezza. Invece, troppo spesso è solo un nome riportato su un foglio, un incarico svolto con sufficienza, senza alcun minimo processo di qualità, anche se non obbligatoriamente certificato. E il risultato? Un sistema che funziona male, che mette a rischio vite umane, che alimenta illegalità e inefficienza. 

La domanda è: per quanto ancora si potrà andare avanti così?

lunedì 28 luglio 2025

Se la Bibbia non è sacra, perché leggerla ancora?

Che senso ha leggere la Bibbia sapendo che essa non rappresenti altro che un libro e che in esso non vi sia contenuta alcuna parola di Dio? 

Perdonate oggi l'argomento affrontato, ma questa domanda, così diretta, scuote da tempo le fondamenta a cui sin da bambino ero stato erroneamente plagiato, in quanto - se pur parliamo di un testo che nei millenni è stato considerato sacro - esso in se non rappresenta altro che una successione di eventi più o meno fantasiosi, certamente anche storici, ed è forse proprio per quest'ultimo punto che merita da parte del sottoscritto una pensiero sincero. 

Tuttavia, sappiamo bene come la Bibbia, di fatto, sia un libro scritto da uomini, e come nei secoli sia stato modificato, alterato, a seconda delle circostanze storiche, dei poteri dominanti, delle interpretazioni umane, eppure, anche ammettendo questo, rimane nella buona o cattiva sorte, un testo che ha plasmato civiltà, ispirato arte, guidato filosofie, e continua a farlo ancora oggi.

Certo, nessuno toglie che essa offra spunti di riflessione e significato, che le storie raccontate, le parabole, se pur frutto di fantasia o di una rielaborazione culturale, rappresentino insegnamenti morali e riflessioni sull'esistenza umana che possono arricchire la vita di chi la legge, indipendentemente dalle proprie convinzioni religiose.

Forse quindi il valore non sta nell’origine divina del testo, ma nella sua capacità di parlare all’uomo, di interrogarlo, di metterlo di fronte a domande scomode e universali: cos’è il bene? Cos’è il male? Come dovremmo vivere?

Già... in questo forse la Bibbia può trovare un senso, non tanto per diventare specchio di Dio, ma bensì per noi stessi, per superare le nostre paure, le avversità della vita, dare un senso alle nostre speranze, e forse chissà, anche ai nostri errori.

E allora, forse, leggerla - per molti - può avere un senso, proprio perché conserva in se quel sentimento umano, sì... aggiungerei troppo umano... 

Già...  ricorda ai suoi lettori che la ricerca di significato, di giustizia, di redenzione, non è un'esclusiva della fede, ma un’esigenza profonda dell’animo umano.

Ecco quindi che alla fine poco importa se essa rappresenti storia, mito, o simbolo: già... ciò che conta è ciò che lascia ai suoi lettori, le domande che pone e soprattutto le risposte che costringe a cercare.

Il sottoscritto resta in fondo legato ai suoi concetti e cioè che - pur avendola letto tutte quelle pagine sia da fanciullo e da adulto - alla fine, ho raggiunto quella necessaria convinzione di non aver alcun bisogno della Bibbia e ancor meso di quei suoi precetti o insegnamenti, che d'altronde già di mio, metto ogni giorno in evidenza, sì...  attraverso le mie azioni quotidiane. 

Ecco... forse, il vero miracolo che manca (a quella parte di umanità che crede in quel libro in quanto fedele...) alla Bibbia, non è tanto quello di parlare con Dio, ma di riuscire a trasmettere in concreto qualcosa di positivo a quegli uomini o a quelle donne, che - per come vedo - continuano ahimè a  comportarsi come sempre e cioè in maniera ignobile!

Ma, a ben pensarci, la Bibbia cos’altro fa se non parlare di noi, già... come al solito. 

Perfetta metafora dell’arroganza umana: persino Dio, nella nostra fantasia, non può fare a meno di raccontare le nostre meschine storie, i nostri drammi da quattro soldi, le nostre ipocrisie placcate d’oro. 

E noi, invece di vergognarci, ci specchiamo in quelle pagine come se fossero un’assoluzione divina. Comodo, no? La santità in copertina e il marcio nel cuore. Amen.

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