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giovedì 4 dicembre 2025
Caro Ficarra: cosa ne dici se alle parole facciamo seguire i fatti?
mercoledì 3 dicembre 2025
Catania: Un primato che brilla, sì... di oscurità!
martedì 2 dicembre 2025
Al Mannar e Leone XIV: disarmare i cuori, prima delle armi.
Da quanto sopra è nata stasera questa mia riflessione: non un trattato, non una presa di posizione, ma solo un tentativo di mettere in fila pensieri che, da troppo tempo bussano alla porta, sì... senza chiedere permesso.
Perché c’è un momento, in cui il pensiero vacilla, non per cattiveria, ma per abitudine, sì... l’abitudine a lasciar parlare prima la paura che la ragione, un fatto di cronaca che influenza negativamente, ed è in quel momento che nasce spontanea la domanda: l’italiano è razzista?
Non è una provocazione, è il grido di chi si sente guardato con diffidenza, non per ciò che ha fatto, ma per ciò che altri hanno fatto al posto suo. E l’Imam Al Mannar, nel suo video - https://www.tiktok.com/@al.manar.official/video/7560042529333333270?_r=1&_t=ZN-91lsSvBtDT4 - non elude la domanda, non la avvolge in formule diplomatiche, né scarica la colpa su chi ora viene visto come un nemico, ma risponde con una lucidità disarmante: non cercate la causa della discriminazione negli italiani, ma guardate prima tra voi. Sembra di riascoltare la frase pronunciata da Gesù, tratta dal Vangelo di Giovanni: "chi è senza peccato, scagli la prima pietra".
Non per giustificare il pregiudizio, ma per riconoscere una verità scomoda: che la dignità di una fede, di una comunità, di un popolo, non si difende con le lamentele, ma con l’esemplarità quotidiana, perché quando qualcuno, pur dicendosi musulmano, cristiano, ebreo, cittadino del mondo, si comporta con arroganza, menzogna o violenza, non sta solo tradendo se stesso, ma tutta l'intera comunità che rappresenta.
E allora viene spontaneo chiedersi: ma davvero è così difficile capire che l’integrazione non comincia con la richiesta di essere accolti, ma con la scelta di meritare l'accoglienza? Che non basta dire io sono per bene se intorno a noi qualcuno, con lo stesso nome, lo stesso libro sacro, lo stesso volto, agisce in modo da rendere sospetto quel nome, quel libro, quel volto?
La coerenza non è un lusso spirituale, è una responsabilità civile. Essere puntuali, lavorare onestamente, rispettare le regole sociali, pagare gli affitti, non occupare gli spazi comuni con prepotenza e soprattutto non vendere stupefacenti, non far parte della criminalità organizzata, non imporre la propria voce quando si discute, salutare sempre chi ci abita accanto, questi non sono gesti secondari: sono i mattoni invisibili di una fiducia che, una volta spezzata, non si ricompone con discorsi, ma solo con anni di pazienza e di condotta irreprensibile.
Eppure, quanti silenzi compiacenti coprono chi offende la convivenza in nome di un’appartenenza che non merita? Quante volte preferiamo difendere un’apparenza piuttosto che un principio?
Ed è proprio da qui - da questa presa di coscienza personale - che risuona altrettanto forte l’appello di questi giorni di Papa Leone XIV rivolto al Libano, ma che va ben oltre i confini di una terra: “Tutti devono unire gli sforzi perché questa terra possa ritornare al suo splendore. E abbiamo un solo modo per farlo: disarmiamo i nostri cuori”. Non parla di trattati, non invoca sanzioni—parla di un gesto interiore, radicale: disarmare. Deporre le armi nascoste—quelle del sospetto sistematico, della chiusura etnica, dell’identità costruita per esclusione. E aggiunge: “facciamo cadere le corazze delle nostre chiusure etniche e politiche, apriamo le nostre confessioni religiose all’incontro reciproco”. Non basta convivere—bisogna incontrarsi, cioè riconoscere nell’altro non una minaccia da contenere, ma una persona da ascoltare, anche quando la sua preghiera ha parole diverse dalle nostre. Perché la vera fede non teme il confronto—al contrario, lo cerca, sapendo che la verità non si possiede, si condivide.
E allora ecco ricordare il sogno di Isaia - il lupo con l’agnello, il leopardo accanto al capretto, smette di essere una metafora lontana per diventare un invito concreto: non perché gli animali perdano la loro natura, ma perché scelgano, ogni giorno, di non usarla per distruggere. Il lupo ha fame, sì... ma decide di non mangiare. Il leopardo è forte, sì... ma usa la forza per proteggere, non per dominare. Così siamo noi: capaci di chiusura, certo...ma anche capaci di aprirci, se qualcuno ci mostra che la porta non è sigillata.
E quando un giovane, in Italia o in Libano, in un quartiere o in un campo profughi, chiede: perché mi guardano con diffidenza? La risposta più onesta non è loro hanno torto, ma noi dobbiamo fare di più. Perché la pace non è l’assenza di guerra, è la presenza ostinata della giustizia, della coerenza, del rispetto vissuto fino all’ultimo dettaglio.
Allora forse la vera rivoluzione non è gridare contro l’ingiustizia, è vivere in modo tale che l’ingiustizia non trovi appigli. È sapere che, ogni volta che scegliamo di essere onesti anche quando nessuno ci vede, precisi anche quando non serve, gentili anche quando siamo stanchi, non stiamo solo facendo il nostro dovere, stiamo disinnescando una bomba, una parola d’odio, un gesto di esclusione.
Ed è proprio in quel momento, senza fanfare, senza telecamere, senza likes, stiamo costruendo quel Libano possibile, quella città possibile, quel mondo possibile, dove tutti, finalmente, possano riconoscersi non come nemici da tollerare, ma come fratelli da custodire.
Trovate la pagina dell'Immam Al Manar (con un'interessante didascalia: aiutateci a far vedere il vero islam) al seguente link: al.manar.official
lunedì 1 dicembre 2025
Il silenzio che fa affari...
È sera e il sole sta scendendo lentamente - sono costretto a una deviazione fastidiosa, sì: lavori in corso sull’autostrada, anticipati poco prima da un ragazzo al distributore, e ora, da lontano, osservo le macchine che stendono l’asfalto, i fari accesi nonostante il crepuscolo non sia ancora buio - e già la mente corre in avanti, a ciò che accadrà tra qualche ora o al massimo domani: le strisce di vernice fresca, i cartelli piantati in tutta fretta, le indicazioni stradali ancora coperte da un telo trasparente - quante volte abbiamo visto quella scena, identica, ripetuta con una precisione quasi teatrale, come se fosse parte di un copione ben collaudato.
E così mentre la macchina procede purtroppo a passo d’uomo a causa della confusione venutasi a creare, ripenso a tutti quei cantieri aperti, chiusi, riaperti, mai davvero conclusi - come se il cantiere non fosse il luogo dove si costruisce qualcosa, ma piuttosto uno spazio sospeso, un palcoscenico mobile in cui il lavoro vero è secondario rispetto alla circolazione di altro: denaro, favori, silenzi.
Eppure nessuno protesta, nessuno chiede, a partire da chi, per incarico istituzionale, dovrebbe farlo per primo - e non lo fa per ignoranza, ma perché sa che porre certe domande, ad alta voce, significherebbe accendere una luce troppo forte in un luogo dove tutti hanno imparato a muoversi al buio e quella luce, invece di illuminare, rischia di bruciare chi la tiene accesa.
Del resto, se così non fosse, non avremmo di continuo quelle inchieste giudiziarie ormai familiari, quelle che parlano chiaro pur usando un linguaggio cauto, quasi smorzato, come se ogni parola dovesse essere pesata non per la sua verità, ma per le conseguenze che potrebbe scatenare - e così, nei documenti, i nomi dei protagonisti veri restano assenti, sostituiti da sigle, ruoli generici, frasi passive - l’appalto è stato aggiudicato, la variante è stata approvata, come se nessuno avesse deciso, nessuno avesse firmato, nessuno avesse guidato la mano di chi ha scritto.
Eppure c’è sempre stato qualcuno, in piedi dietro la scrivania, che ha organizzato, indirizzato, protetto e ora, messo sotto torchio, si ritrae, si fa piccolo, parla poco, non detta più regole con la stessa sicurezza di un tempo, anzi si comporta come se fosse lui la vittima di un equivoco.
Resta in penombra, certo, in attesa che la tempesta passi, convinto, forse non a torto, che passerà davvero, e che alla fine tornerà tutto come prima, perché intorno a lui c’è un sistema che non si limita a proteggerlo: lo alimenta, lo rigenera, lo rende necessario.
I suoi amici - o meglio, i suoi alleati - faranno di tutto pur di non restare impigliati a loro volta: firmeranno pareri, produrranno certificazioni, condivideranno versioni alternative dei fatti, perché la priorità non è la trasparenza, ma la sopravvivenza del meccanismo, e quella struttura ha bisogno di opacità, di silenzi compiacenti, di opportunità che si ripetono con la regolarità di un orologio difettoso ma affidabile.
Mi torna spesso in mente una frase, pronunciata da chi conosce quei meccanismi dall’interno: non è più la corruzione che urla, è quella che sussurra - quella educata, discreta, quasi istituzionalizzata, che avanza con le scarpe pulite e il lessico impeccabile di chi sa usare le procedure come schermo - tecnicismi al posto di scelte, pareri al posto di responsabilità, carte in regola al posto di sostanza.
È una corruzione silenziosa, che non ha più bisogno di bustarelle: le ha rese superflue, sostituendole con tempi che si dilatano oltre ogni plausibilità, con varianti in corso d’opera che nascono non per necessità tecnica, ma per convenienza amministrativa, con gare formalmente regolari in cui, però, nessuno sembra voler gareggiare davvero – come se il risultato fosse già scritto altrove. È una corruzione che si mimetizza tra le pieghe della legalità: ditte che vanno a vincere appalti in regioni dove non hanno sede, non hanno nemmeno una baracca, figuriamoci un addetto, eppure si aggiudicano opere milionarie, per poi affidarle a terzi, spesso piccole imprese locali, pagandole un terzo di quanto incassano loro stesse dal committente pubblico. Il risultato? Un meccanismo virtuoso solo per chi lo pilota: più costi, meno trasparenza, zero controllo e un po' di mazzette che girano di mano in mano.
Eppure qualcuno osserva, sì... qualcuno incrocia quei dati, anche se non presenta denunce, non per rassegnazione, ma per lucida consapevolezza: sa da tempo come un esposto formale, in certi contesti, non è un atto di giustizia, ma un invito a essere neutralizzato. Allora sceglie un’altra strada: verifica chi ha vinto, chi ha perso, chi compare sempre nelle stesse gare, chi firma le relazioni tecniche, chi approva le varianti, chi sta in silenzio quando qualcosa non torna ed usa quegli strumenti per farli emergere attraverso i media, i social e soprattutto quei programmi televisivi che hanno fatto la storia di questo Paese, sì... nell'ambito del giornalismo investigativo.
Non serve gridare nomi, non solo perché sarebbe inutile, ma perché il problema non sono gli individui, sono i meccanismi che li proteggono, li riproducono, li rendono intercambiabili. Basta guardare la "White list" delle imprese ammesse, redatta da chi avrebbe dovuto vigilare e invece ha delegato ogni verifica a una firma in calce: senza chiedersi chi c’è realmente dietro quelle società, quali legami, quali precedenti, quali silenzi comprati in anticipo. Sì... certo, i documenti sono in regola, ma la regolarità formale è spesso la maschera più efficace dell’illegalità sostanziale!
Allora questa terra continua a scivolare, non con un crollo improvviso, ma con una serie infinita di piccole cessioni: un silenzio qui, un compromesso là, un occhio chiuso oggi nella speranza di un favore domani. E qualcuno, incredibilmente, chiama tutto questo buonsenso, realismo, quieto vivere, come se il quieto vivere fosse il diritto di non vedere, di non sapere, di non dover scegliere.
Non vedo, non sento, non parlo e così, dopo anni di osservazione, di domande senza risposta, di segnalazioni cadute nel vuoto, mi chiedo, senza retorica e ancor meno enfasi: verrà mai qualcuno che deciderà, semplicemente, di non voltarsi dall’altra parte?
Non credo proprio...
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