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giovedì 4 dicembre 2025

Caro Ficarra: cosa ne dici se alle parole facciamo seguire i fatti?

Caro Salvo… scusami se ti do del “tu”, e non è solo per familiarità, ma per una sorta di disperazione affettiva. 

Sì… non credo ci siamo mai incontrati di persona, e sono quasi certo che nessuno ci abbia mai presentato ufficialmente. Ma sai com’è… quando due siciliani come noi della stessa generazione hanno respirato lo stesso clima morale di un'epoca, un po’ di confidenza non guasta, anzi, ritengo sia quasi un dovere civico.

E poi, diciamocelo: se non fosse stato per quella tua intervista realizzata da Irene Carmina, forse non avrei mai sentito il bisogno di scriverti nuovamente – vedasi link: http://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/11/caro-salvo-ficarra-la-piazza-e-vuota-ma.html, ma quella tua frase, lì da sola… “ma un limite non dovrebbe esserci?” mi ha fatto pensare in questi giorni ad un cliente che si accorge che qualcosa, in quel conto ricevuto al ristorante, non torna. Eppure, stranamente, tutti allo stesso tavolo fingono di niente, come se andasse tutto bene, tanto che lui stesso rimane perplesso e pensa forse di essere in errore. Finché qualcun altro, a un tavolo accanto, inizia ad alzare la voce dicendo: “Eh, scusate… ma un limite non dovrebbe esserci?”. E allora, in quel preciso momento, lui capisce di non essere pazzo e, soprattutto… di non essere più solo.

Tuttavia – scusami se divago un attimo – mentre scrivevo queste righe mi è tornata in mente una cosa. Forse mi sbaglio, ma sì… potremmo esserci già incrociati, molti anni fa, in quei tempi in cui il mondo sembrava più leggero e io facevo il “PR” nei villaggi turistici, discoteche, alberghi… insomma, tra animazione, balli improvvisati e chissà qualche concerto ben organizzato. Immagino che fossimo entrambi più in forma, sicuramente più belli (quantomeno parlo per me…), con più capelli, un orecchino e qualche cerchietto in testa, ma diciamocelo… più speranzosi.

Già… penso che potremmo esserci incrociati senza vederci. Chissà, magari a Mondello, mentre io uscivo dall’Hotel “Tre Torri” con quei miei occhiali da sole modello “Ray-Ban”, la mia cabrio e quell’espressione che mi si leggeva in viso: “Palermo ai miei piedi” (e meno male che chi, da anni, l’aveva di fatto posta sotto ai suoi piedi non aveva la capacità di leggermi il pensiero…). Oppure chissà in centro a Palermo, sì… mentre ero diretto a cena in Via Notarbartolo – dove il cameriere ormai mi chiamava per nome – e forse tu eri lì accanto, assorto in qualche battuta che avresti scritto l’indomani…

E sì, forse ci siamo incrociati. Ma voglio confidarti che da ragazzo peccavo di narcisismo. Forse sarà stata colpa del mio aspetto certamente gradevole, che qualcuno dice io abbia migliorato trasmettendolo – solo in parte, al 50% – alle mie figlie (auspico che non leggano questo post, perché, a differenza mia, sono la riservatezza fatta persona e non vogliono essere – neppure per scherzo – menzionate…), oppure chissà, sarà stata forse colpa del mio “savoir-faire”, già, di quel saper fare che tanto contraddistingue noi siciliani, ma che il sottoscritto utilizzava “abilmente” nei modi e soprattutto nelle tecniche, abitualmente espresse con educazione e momenti di romanticismo. Ma parliamo di anni in cui brillavo talmente di luce propria da non vedere nessuno sopra me, ancor meno coloro che potevano rappresentare una possibile concorrenza…

Ma ora quel tempo è andato via e ciò che resta è quanto vediamo. Siamo come quei due clienti, e ci chiediamo, da siciliani che amano la loro terra: come mai non siamo ancora scesi in piazza a dire basta, a pretendere che qualcosa, finalmente, cambi? Come mai i nostri conterranei non fanno nulla per mutare questo stato di cose?

Stasera osservavo il Tg nazionale e mentre si parlava di politica, scorrevano alcune immagini di due  ministri che, passeggiando, venivano fermati da parecchi cittadini con volti sorridenti che si avvicinavano per porgere loro la mano o anche un semplice abbraccio…

Ora, se chi dovrebbe far valere le proprie ragioni si genuflette a quel sistema, lo stesso che evidenzia da troppi anni un meccanismo iniquo, ben oliato grazie a un sistema clientelare, corrotto e soprattutto illegale, cosa possiamo fare noi due per fare in modo che questa condizione cambi?

Lo so… sembra una partita persa ancor prima di giocarla, eppure – caro Salvo – vorrei raccontarti una circostanza che nel suo piccolo è stata per alcuni anni d'impulso per cambiare questo stato di cose: mi trovavo a Genova, era un giorno di settembre del 2005, durante la festa dell’Unità. Vidi Beppe Grillo che parlava, mi avvicinai e gli chiesi – seppur il contesto non fosse quello giusto – se potevo discutere con lui un’idea che avevo avuto: la possibilità di realizzare un movimento politico chiamato “Uno vale Uno”. Gli chiesi inoltre di poter essere proprio lui il promotore, insieme ad altre persone certamente più preparate del sottoscritto (sotto l’aspetto normativo/amministrativo), pregandolo altresì di riflettere a questa mia proposta e di non tralasciarla, anche se forse poteva sembrare un po’ troppo “idealista”, ma che rappresentava – in quel periodo – lo stato d’animo di molti miei connazionali. Ricordo ancora la sua risposta, dopo avermi chiesto come mi chiamassi; sorridendo mi disse: “Nicola… mi manca soltanto questo passo in politica, per farmi odiare definitivamente da tutti”. E a quella affermazione, tutti i presenti scoppiarono a ridere!

Di lì a pochi anni, come ben sai, nacque il “M5Stelle” e oggi sappiamo cosa ne è restato di quel movimento che aveva riunto ben il 42% degli italiani, per poi dissolversi a causa di una serie di decisioni errate adottate per lo più da quei suoi dirigenti e da alcuni referenti, molti dei quali, abbiamo visto, hanno evidenziato preferire la poltrona alla morale…

Oggi, sono certo che una parte consistente del paese, quasi il 40%, provi disgusto per la politica e ancor di più per i suoi referenti; d’altronde non sono io a dirlo, basti rivedere i dati più recenti delle elezioni politiche nazionali del 2022, quando il tasso di astensione ha raggiunto un record storico del 36,1%.

Questo significa che su dieci elettori, quasi quattro non si sono recati alle urne. Comprenderai che basterebbe quel solo numero per ribaltare oggi qualsivoglia schieramento politico.

Ecco perché è importante pensare di riconsiderare quell’idea di movimento “culturale”, quella scintilla di equità sociale che vede attualmente il 5% degli italiani padrone di quasi il 50% del patrimonio del Paese, per cui il ricco diventa sempre più ricco e il povero sempre più povero. È come essere all’interno di un palazzo condominiale dove l’ascensore non va mai su o giù, ma resta sempre lì dov’è, sospeso, senza permettere a chiunque non appartenga a quella casta di poterci salire.

E così, la restante parte di quel condominio luccicante, pieno di vetri che assomiglia a un cristallo, resta sempre sotto, con la testa rivolta in alto per ammirare quei personaggi che tanto desidera incontrare, sperando un giorno di potergli stringere la mano, farsi un selfie, immaginare di poter trascorrere in quel luogo qualche ora…

Ma forse è venuto il tempo di abbattere quel tempio, di passare alle azioni, di rifiutare qualsivoglia contatto e di entrare nuovamente in quell’urna per fare la cosa giusta, l’unica scelta coraggiosa, che ti ricorda che possiedi ancora una dignità e che nessuno può toglierti e, soprattutto, comprare!

Ecco, caro Salvo, forse è tempo di passare ai fatti, quantomeno di provarci. Contiamoci, vediamo quanto siamo, vediamo dove possiamo arrivare e a quel punto si deciderà cosa fare. Altrimenti tutto resterà – come quell’ascensore – immobile, e le mie, le tue, resteranno certamente delle belle parole, che tutti ascolteranno, ma che nessuno vorrà poi mettere in pratica…

E allora, se tutto dovrà andare così, non mi resta che invitarti a Catania. E chissà se forse, tra una portata e l’altra, troveremo finalmente quel punto di contatto in cui, tanti anni fa, ci siamo casualmente ritrovati.

mercoledì 3 dicembre 2025

Catania: Un primato che brilla, sì... di oscurità!

Ed ecco che la conferma arriva puntuale e inesorabile come un tramonto sull’Etna: non resta che sedersi, come quel signore disteso sul tavolo del mio quadro, a contemplare un paesaggio dietro di sé, bellissimo, incandescente e inesorabilmente immobile, mentre intorno tutto precipita…

Il dato sulla "qualità delle amministrazioni locali" ci ha regalato un balzo degno di un’atleta specialista in fuga all’indietro: ultimo posto nazionale.

Non un passo falso, non un infortunio momentaneo, no… un vero traguardo. Il risultato di un anno in cui sguardi alti e maniche basse hanno lavorato in perfetta sincronia, come due ingranaggi oliati dalla rassegnazione, per produrre quel piccolo miracolo che solo l’incuria, coltivata con metodo, può portare a compimento.

Nella classifica generale sulla qualità della vita, siamo scivolati al 96° posto, tredici gradini verso il basso, con la grazia di chi scende una scala mobile rotta senza neanche accorgersene. E mentre sprofondiamo, a brillare beffardamente c’è solo la nostra illuminazione pubblica sostenibile, premiata come faro nel buio.

Peccato che quel faro, per chi percorre la tangenziale davanti all’aeroporto Fontanarossa - vedasi quanto ho scritto a suo tempo al link: http://nicola-costanzo.blogspot.com/2024/07/sindaco-e-assessorato-alla-viabilita.html - sia ancora un’ipotesi astratta. Forse chi ha redatto il report non ha mai guidato di notte da quelle nostre parti, o forse semplicemente ha scelto l’illuminazione metaforica, quella che si accende un attimo prima di chiudere il documento.

Alla voce ambiente e servizi il crollo è stato “solo” di sette posizioni - una sorta di applauso di consolazione da parte del destino, ma la vera opera d’arte - quella che meriterebbe un allestimento in una galleria di performance tragicomiche - è il tracollo in demografia e società: trentacinque posizioni in meno, un record da Guinness dell’apatia collettiva.

Sì… moriamo di più di tumori, usciamo prima da scuola, come se il sapere fosse un bagaglio troppo pesante da portare oltre la terza media. Eppure, per un paradosso degno di Pirandello, continuiamo a fare figli e abbiamo pochi anziani a carico. La nostra gioventù, così, ha tutto il tempo del mondo per assistere in diretta al declino… con comodo, seduta in prima fila, magari sgranocchiando popcorn forniti dalla rassegnazione generazionale.

E il lavoro? Siamo al 98° posto! Le imprese qui falliscono più che altrove, ma almeno le pensioni di vecchiaia scarseggiano, forse perché qui si invecchia più in fretta, forse perché la pensione arriva solo dopo aver superato l’esame di realtà…

E la giustizia? La sicurezza? Be’, quelle sono le colonne portanti della stabilità: stabili nella mediocrità, solide nella precarietà, un esempio raro di coerenza amministrativa.

Insomma, una cosa sola possiamo dire con certezza, in mezzo a questo mare di oscillazioni: la nostra capacità di confermare il peggio è straordinariamente affidabile. Una costante, in un universo di variabili.

Naturalmente, a commentare il disastro ci pensa la politica - in particolare l’opposizione, che declama con la solita litania: “destra”, “scelte miopi”, “mancanza di visione”. Hanno ragione, certo… ma viene da chiedersi, mentre snocciolano dati con la solennità di chi fa finta di meravigliarsi, di non sapere, quando a quei loro stessi discorsi non è mai seguita un'azione chiara (con il rischio di dover perdere la propria poltrona...) se non ribadire ciò che oggi suona, come un déjà vu, le solite chiacchiere in salsa catanese.

Perché il problema, vedete, non è solo di chi oggi amministra - no… non sto parlando della criminalità organizzata, quella è un’altra storia, troppo nota per essere rievocata qui come se fosse un colpo di scena in una serie già vista - il vero dramma è quel coro muto di assenze: di responsabilità scaricate, di competenze dimenticate, di promesse che evaporano come la pioggia sulla lava rovente.

Da quando sono arrivato in questa città, i problemi sono rimasti sempre gli stessi, come vecchi mobili impolverati che nessuno butta via perché “tanto, prima o poi serviranno”. Sì… son cambiati i volti - quasi mai i cognomi - a volte le sigle di partito, ma la musica no… quella è sempre la stessa, un valzer lento e stonato, dove chi non balla viene guardato come un intruso. Del resto, come recita una delle massime più sagge di questa terra: se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.

E i cittadini? Niente… loro semplicemente ballano. Cambiano casacca con la disinvoltura di chi sa che il vero potere non è nelle idee, ma nelle file. Si rivolgono a chi è appena salito sul carro dei vincitori, non per convinzione, ma per sopravvivenza, per ottenere un posto, per sbloccare una pratica, per comprare un silenzio. E intanto, passo dopo passo, accompagnano quotidianamente con le proprie azioni quel carro, con la tranquilla consapevolezza che, “sì… così è più comodo”… per tutti!

Tranne, forse, per quel signore disteso sul tavolo. Lui sembra aver capito che comodo non vuol dire giusto, ma solo più lento. E che, prima o poi, anche il tramonto sull’Etna finisce. Poi - ahimè - viene il buio. Già… quello vero.

martedì 2 dicembre 2025

Al Mannar e Leone XIV: disarmare i cuori, prima delle armi.

Ho ascoltato alcuni giorni fa un video dell’Imam Al Mannar, sì... mentre stavo facendo colazione, con la luce dell'alba che iniziava a filtrare tra le persiane di casa.

Non era programmato, mi è comparso così, già... come capita ormai a tanti tra voi, mentre scorriamo un video su Tik Tok, eppure quel messaggio, quelle parole mi hanno colpito, non per la forza del tono, anzi era pacato, quasi sussurrato, ma esplicitamente chiaro: una chiarezza che non accusa, non assolve, ma chiama.

E poi, di lì a poco, ecco giungere dal Libano le parole di Papa Leone XIV che - in un qualche modo - hanno fatto eco all'Imam, come se due voci così distanti e in contesti diversi, stessero leggendo dalla stessa pagina, quella dove si parla non di nemici da sconfiggere, ma di cuori da disarmare. 

Da quanto sopra è nata stasera questa mia riflessione: non un trattato, non una presa di posizione, ma solo un tentativo di mettere in fila pensieri che, da troppo tempo bussano alla porta, sì... senza chiedere permesso.

Perché c’è un momento, in cui il pensiero vacilla, non per cattiveria, ma per abitudine, sì... l’abitudine a lasciar parlare prima la paura che la ragione, un fatto di cronaca che influenza negativamente, ed è in quel momento che nasce spontanea la domanda: l’italiano è razzista?

Non è una provocazione, è il grido di chi si sente guardato con diffidenza, non per ciò che ha fatto, ma per ciò che altri hanno fatto al posto suo. E l’Imam Al Mannar, nel suo video - https://www.tiktok.com/@al.manar.official/video/7560042529333333270?_r=1&_t=ZN-91lsSvBtDT4 - non elude la domanda, non la avvolge in formule diplomatiche, né scarica la colpa su chi ora viene visto come un nemico, ma risponde con una lucidità disarmante: non cercate la causa della discriminazione negli italiani, ma guardate prima tra voi. Sembra di riascoltare la frase pronunciata da Gesù, tratta dal Vangelo di Giovanni: "chi è senza peccato, scagli la prima pietra".

Non per giustificare il pregiudizio, ma per riconoscere una verità scomoda: che la dignità di una fede, di una comunità, di un popolo, non si difende con le lamentele, ma con l’esemplarità quotidiana, perché quando qualcuno, pur dicendosi musulmano, cristiano, ebreo, cittadino del mondo, si comporta con arroganza, menzogna o violenza, non sta solo tradendo se stesso, ma tutta l'intera comunità che rappresenta. 

E allora viene spontaneo chiedersi: ma davvero è così difficile capire che l’integrazione non comincia con la richiesta di essere accolti, ma con la scelta di meritare l'accoglienza? Che non basta dire io sono per bene se intorno a noi qualcuno, con lo stesso nome, lo stesso libro sacro, lo stesso volto, agisce in modo da rendere sospetto quel nome, quel libro, quel volto? 

La coerenza non è un lusso spirituale, è una responsabilità civile. Essere puntuali, lavorare onestamente, rispettare le regole sociali, pagare gli affitti, non occupare gli spazi comuni con prepotenza e soprattutto non vendere stupefacenti, non far parte della criminalità organizzata, non imporre la propria voce quando si discute, salutare sempre chi ci abita accanto, questi non sono gesti secondari: sono i mattoni invisibili di una fiducia che, una volta spezzata, non si ricompone con discorsi, ma solo con anni di pazienza e di condotta irreprensibile.

Eppure, quanti silenzi compiacenti coprono chi offende la convivenza in nome di un’appartenenza che non merita? Quante volte preferiamo difendere un’apparenza piuttosto che un principio?

Ed è proprio da qui - da questa presa di coscienza personale - che risuona altrettanto forte l’appello di questi giorni di Papa Leone XIV rivolto al Libano, ma che va ben oltre i confini di una terra: “Tutti devono unire gli sforzi perché questa terra possa ritornare al suo splendore. E abbiamo un solo modo per farlo: disarmiamo i nostri cuori”. Non parla di trattati, non invoca sanzioni—parla di un gesto interiore, radicale: disarmare. Deporre le armi nascoste—quelle del sospetto sistematico, della chiusura etnica, dell’identità costruita per esclusione. E aggiunge: “facciamo cadere le corazze delle nostre chiusure etniche e politiche, apriamo le nostre confessioni religiose all’incontro reciproco”. Non basta convivere—bisogna incontrarsi, cioè riconoscere nell’altro non una minaccia da contenere, ma una persona da ascoltare, anche quando la sua preghiera ha parole diverse dalle nostre. Perché la vera fede non teme il confronto—al contrario, lo cerca, sapendo che la verità non si possiede, si condivide.

E allora ecco ricordare il sogno di Isaia - il lupo con l’agnello, il leopardo accanto al capretto, smette di essere una metafora lontana per diventare un invito concreto: non perché gli animali perdano la loro natura, ma perché scelgano, ogni giorno, di non usarla per distruggere. Il lupo ha fame, sì... ma decide di non mangiare. Il leopardo è forte, sì... ma usa la forza per proteggere, non per dominare. Così siamo noi: capaci di chiusura, certo...ma anche capaci di aprirci, se qualcuno ci mostra che la porta non è sigillata. 

E quando un giovane, in Italia o in Libano, in un quartiere o in un campo profughi, chiede: perché mi guardano con diffidenza? La risposta più onesta non è loro hanno torto, ma noi dobbiamo fare di più. Perché la pace non è l’assenza di guerra, è la presenza ostinata della giustizia, della coerenza, del rispetto vissuto fino all’ultimo dettaglio.

Allora forse la vera rivoluzione non è gridare contro l’ingiustizia, è vivere in modo tale che l’ingiustizia non trovi appigli. È sapere che, ogni volta che scegliamo di essere onesti anche quando nessuno ci vede, precisi anche quando non serve, gentili anche quando siamo stanchi, non stiamo solo facendo il nostro dovere, stiamo disinnescando una bomba, una parola d’odio, un gesto di esclusione.

Ed è proprio in quel momento, senza fanfare, senza telecamere, senza likes, stiamo costruendo quel Libano possibile, quella città possibile, quel mondo possibile, dove tutti, finalmente, possano riconoscersi non come nemici da tollerare, ma come fratelli da custodire.

Trovate la pagina dell'Immam Al Manar (con un'interessante didascalia: aiutateci a far vedere il vero islam) al seguente link: al.manar.official

lunedì 1 dicembre 2025

Il silenzio che fa affari...

È sera e il sole sta scendendo lentamente - sono costretto a una deviazione fastidiosa, sì: lavori in corso sull’autostrada, anticipati poco prima da un ragazzo al distributore, e ora, da lontano, osservo le macchine che stendono l’asfalto, i fari accesi nonostante il crepuscolo non sia ancora buio - e già la mente corre in avanti, a ciò che accadrà tra qualche ora o al massimo domani: le strisce di vernice fresca, i cartelli piantati in tutta fretta, le indicazioni stradali ancora coperte da un telo trasparente - quante volte abbiamo visto quella scena, identica, ripetuta con una precisione quasi teatrale, come se fosse parte di un copione ben collaudato.

E così mentre la macchina procede purtroppo a passo d’uomo a causa della confusione venutasi a creare, ripenso a tutti quei cantieri aperti, chiusi, riaperti, mai davvero conclusi - come se il cantiere non fosse il luogo dove si costruisce qualcosa, ma piuttosto uno spazio sospeso, un palcoscenico mobile in cui il lavoro vero è secondario rispetto alla circolazione di altro: denaro, favori, silenzi. 

Eppure nessuno protesta, nessuno chiede, a partire da chi, per incarico istituzionale, dovrebbe farlo per primo - e non lo fa per ignoranza, ma perché sa che porre certe domande, ad alta voce, significherebbe accendere una luce troppo forte in un luogo dove tutti hanno imparato a muoversi al buio e quella luce, invece di illuminare, rischia di bruciare chi la tiene accesa.

Del resto, se così non fosse, non avremmo di continuo quelle inchieste giudiziarie ormai familiari, quelle che parlano chiaro pur usando un linguaggio cauto, quasi smorzato, come se ogni parola dovesse essere pesata non per la sua verità, ma per le conseguenze che potrebbe scatenare - e così, nei documenti, i nomi dei protagonisti veri restano assenti, sostituiti da sigle, ruoli generici, frasi passive - l’appalto è stato aggiudicato, la variante è stata approvata, come se nessuno avesse deciso, nessuno avesse firmato, nessuno avesse guidato la mano di chi ha scritto. 

Eppure c’è sempre stato qualcuno, in piedi dietro la scrivania, che ha organizzato, indirizzato, protetto e ora, messo sotto torchio, si ritrae, si fa piccolo, parla poco, non detta più regole con la stessa sicurezza di un tempo, anzi si comporta come se fosse lui la vittima di un equivoco.

Resta in penombra, certo, in attesa che la tempesta passi, convinto, forse non a torto, che passerà davvero, e che alla fine tornerà tutto come prima, perché intorno a lui c’è un sistema che non si limita a proteggerlo: lo alimenta, lo rigenera, lo rende necessario. 

I suoi amici - o meglio, i suoi alleati - faranno di tutto pur di non restare impigliati a loro volta: firmeranno pareri, produrranno certificazioni, condivideranno versioni alternative dei fatti, perché la priorità non è la trasparenza, ma la sopravvivenza del meccanismo, e quella struttura ha bisogno di opacità, di silenzi compiacenti, di opportunità che si ripetono con la regolarità di un orologio difettoso ma affidabile.

Mi torna spesso in mente una frase, pronunciata da chi conosce quei meccanismi dall’interno: non è più la corruzione che urla, è quella che sussurra - quella educata, discreta, quasi istituzionalizzata, che avanza con le scarpe pulite e il lessico impeccabile di chi sa usare le procedure come schermo - tecnicismi al posto di scelte, pareri al posto di responsabilità, carte in regola al posto di sostanza.

È una corruzione silenziosa, che non ha più bisogno di bustarelle: le ha rese superflue, sostituendole con tempi che si dilatano oltre ogni plausibilità, con varianti in corso d’opera che nascono non per necessità tecnica, ma per convenienza amministrativa, con gare formalmente regolari in cui, però, nessuno sembra voler gareggiare davvero – come se il risultato fosse già scritto altrove. È una corruzione che si mimetizza tra le pieghe della legalità: ditte che vanno a vincere appalti in regioni dove non hanno sede, non hanno nemmeno una baracca, figuriamoci un addetto, eppure si aggiudicano opere milionarie, per poi affidarle a terzi, spesso piccole imprese locali, pagandole un terzo di quanto incassano loro stesse dal committente pubblico. Il risultato? Un meccanismo virtuoso solo per chi lo pilota: più costi, meno trasparenza, zero controllo e un po' di mazzette che girano di mano in mano. 

Eppure qualcuno osserva, sì... qualcuno incrocia quei dati, anche se non presenta denunce, non per rassegnazione, ma per lucida consapevolezza: sa da tempo come un esposto formale, in certi contesti, non è un atto di giustizia, ma un invito a essere neutralizzato. Allora sceglie un’altra strada: verifica chi ha vinto, chi ha perso, chi compare sempre nelle stesse gare, chi firma le relazioni tecniche, chi approva le varianti, chi sta in silenzio quando qualcosa non torna ed usa quegli strumenti per farli emergere attraverso i media, i social e soprattutto quei programmi televisivi che hanno fatto la storia di questo Paese, sì... nell'ambito del giornalismo investigativo.  

Non serve gridare nomi, non solo perché sarebbe inutile, ma perché il problema non sono gli individui, sono i meccanismi che li proteggono, li riproducono, li rendono intercambiabili. Basta guardare la "White list" delle imprese ammesse, redatta da chi avrebbe dovuto vigilare e invece ha delegato ogni verifica a una firma in calce: senza chiedersi chi c’è realmente dietro quelle società, quali legami, quali precedenti, quali silenzi comprati in anticipo. Sì... certo, i documenti sono in regola, ma la regolarità formale è spesso la maschera più efficace dell’illegalità sostanziale!

Allora questa terra continua a scivolare, non con un crollo improvviso, ma con una serie infinita di piccole cessioni: un silenzio qui, un compromesso là, un occhio chiuso oggi nella speranza di un favore domani. E qualcuno, incredibilmente, chiama tutto questo buonsenso, realismo, quieto vivere, come se il quieto vivere fosse il diritto di non vedere, di non sapere, di non dover scegliere.

Non vedo, non sento, non parlo e così, dopo anni di osservazione, di domande senza risposta, di segnalazioni cadute nel vuoto, mi chiedo, senza retorica e ancor meno enfasi: verrà mai qualcuno che deciderà, semplicemente, di non voltarsi dall’altra parte?

Non credo proprio...

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