Non si tratta più di semplici correnti di pensiero che si alternano nel dibattito pubblico, bensì di un flusso ininterrotto, un rumore di fondo che plasma percezioni, orienta scelte e, soprattutto, indebolisce la capacità di discernere tra ciò che è essenziale e ciò che è costruito.
Potremmo definirlo l’era del “potere dell’eco”, una dittatura dell’opinione che non si limita a influenzare, ma determina la realtà stessa, spesso al servizio di chi detiene il controllo mediatico, economico o politico.
Ci si sveglia ogni mattina immersi in un clima già definito, in una narrazione preconfezionata, come se il pensiero collettivo fosse stato deciso prima ancora che noi ci svegliassimo...
Le notizie non vengono solo raccontate, vengono incorniciate, selezionate, accompagnate da commenti che ne fissano in anticipo l’interpretazione. E così, anche quando crediamo di formarci un’opinione, in realtà stiamo solo scegliendo tra quelle che ci vengono offerte, magari illudendoci di averle scelte liberamente.
Il potere, oggi, non agisce tanto imponendo verità, quanto creando confusione, moltiplicando le fonti e i punti di vista fino a rendere impossibile ogni certezza, ogni confronto sincero.
Il problema difatti non è rappresentato dalla sola manipolazione in sé, ma dall’accelerazione con cui avviene, la mancanza di pause, di silenzi in cui fermarsi a riflettere. Siamo costantemente immersi in narrazioni contrapposte, ognuna presentata come l’unica verità, mentre il terreno comune, lo spazio del dialogo autentico, si sgretola.
Ogni argomento viene ridotto a battaglia, ogni discussione a schieramento, e alla fine non resta che la fatica di capire davvero, la frustrazione di non riuscire a distinguere il fondato dal sensazionale, il serio dal rumoroso. Così, molti rinunciano. Preferiscono seguire la corrente, affidarsi a chi sembra parlare più forte, più chiaro, più sicuro, anche quando quel linguaggio nasconde solo semplificazioni pericolose.
E in questo caos, la democrazia rischia di diventare un simulacro, un gioco di apparenze in cui ciò che conta non è più il bene collettivo, ma la capacità di dominare il racconto. I cittadini, invece di essere protagonisti di un processo partecipativo, si trasformano in destinatari passivi di messaggi, oggetti di sondaggi e statistiche, mai soggetti di una vera rappresentanza.
E la politica, che dovrebbe guidare il cambiamento, spesso lo subisce, inseguendo gli umori del momento, piegandosi all’urgenza delle notifiche, abbandonando qualsiasi prospettiva lunga o visione complessiva.
Comprenderete come la posta in gioco sia alta, perché il futuro della democrazia dipende dalla nostra capacità di ristabilire un equilibrio tra due forze che dovrebbero completarsi, ma che troppo spesso si contrappongono: la politica e i media.
La politica, se vuole sopravvivere, deve tornare a essere qualcosa di più di un’elaborazione di sondaggi e tweet. Deve riscoprire il contatto diretto, la fatica dell’ascolto, il coraggio di sporcarsi le mani con le paure e i bisogni reali delle persone. Deve smettere di inseguire l’onda emotiva del momento e ritrovare la sua funzione più nobile: mediare, rappresentare, costruire, ma soprattutto deve ricominciare a parlare ai cittadini come adulti, non come utenti da monetizzare o follower da conquistare.
Altrimenti, al momento opportuno, sarà travolta. Perché la rete, i social, i media amplificano tutto, ma risolvono poco. Trasformano il malcontento in hashtag, le proteste in le proteste in fenomeni mediatici, ma raramente restituiscono complessità o soluzioni. E se la politica abdica al suo ruolo, se si riduce a mera reazione al clamore mediatico, allora non ci sarà più spazio per una vera rappresentanza. Ci sarà solo un eterno presente di opinioni contrastanti, dove chi urla più forte o ha più mezzi a disposizione decide cosa pensare e come farlo.
Eppure, una via d’uscita esiste. Passa dalla ricostruzione di un legame autentico tra istituzioni e cittadini, da un’informazione che torni a fare il suo mestiere anziché inseguire click, da una politica che smetta di avere paura della complessità e riparta dalle strade, dalle piazze, dalle storie concrete. Serve ritrovare il valore dello sguardo diretto, del confronto faccia a faccia, del tempo necessario per ascoltare davvero chi la pensa in modo diverso. Serve una cultura della responsabilità, una consapevolezza diffusa che ogni opinione, per essere tale, debba poggiare su basi solide, su fatti, su esperienze condivise.
Perché la democrazia non è un algoritmo che reagisce in tempo reale agli umori del pubblico, ma un patto che richiede tempo, ascolto e, soprattutto, coraggio. Coraggio di resistere alla tentazione di semplificare tutto, di ridurre la realtà a like e condivisioni.
Coraggio di ricordare che, prima di ogni narrazione, ci sono persone, bisogni, speranze, e che senza di esse, qualsiasi opinione, per quanto urlata, è solo un vuoto esercizio di potere!
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