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giovedì 4 dicembre 2025
Caro Ficarra: cosa ne dici se alle parole facciamo seguire i fatti?
mercoledì 3 dicembre 2025
Catania: Un primato che brilla, sì... di oscurità!
martedì 2 dicembre 2025
Al Mannar e Leone XIV: disarmare i cuori, prima delle armi.
Da quanto sopra è nata stasera questa mia riflessione: non un trattato, non una presa di posizione, ma solo un tentativo di mettere in fila pensieri che, da troppo tempo bussano alla porta, sì... senza chiedere permesso.
Perché c’è un momento, in cui il pensiero vacilla, non per cattiveria, ma per abitudine, sì... l’abitudine a lasciar parlare prima la paura che la ragione, un fatto di cronaca che influenza negativamente, ed è in quel momento che nasce spontanea la domanda: l’italiano è razzista?
Non è una provocazione, è il grido di chi si sente guardato con diffidenza, non per ciò che ha fatto, ma per ciò che altri hanno fatto al posto suo. E l’Imam Al Mannar, nel suo video - https://www.tiktok.com/@al.manar.official/video/7560042529333333270?_r=1&_t=ZN-91lsSvBtDT4 - non elude la domanda, non la avvolge in formule diplomatiche, né scarica la colpa su chi ora viene visto come un nemico, ma risponde con una lucidità disarmante: non cercate la causa della discriminazione negli italiani, ma guardate prima tra voi. Sembra di riascoltare la frase pronunciata da Gesù, tratta dal Vangelo di Giovanni: "chi è senza peccato, scagli la prima pietra".
Non per giustificare il pregiudizio, ma per riconoscere una verità scomoda: che la dignità di una fede, di una comunità, di un popolo, non si difende con le lamentele, ma con l’esemplarità quotidiana, perché quando qualcuno, pur dicendosi musulmano, cristiano, ebreo, cittadino del mondo, si comporta con arroganza, menzogna o violenza, non sta solo tradendo se stesso, ma tutta l'intera comunità che rappresenta.
E allora viene spontaneo chiedersi: ma davvero è così difficile capire che l’integrazione non comincia con la richiesta di essere accolti, ma con la scelta di meritare l'accoglienza? Che non basta dire io sono per bene se intorno a noi qualcuno, con lo stesso nome, lo stesso libro sacro, lo stesso volto, agisce in modo da rendere sospetto quel nome, quel libro, quel volto?
La coerenza non è un lusso spirituale, è una responsabilità civile. Essere puntuali, lavorare onestamente, rispettare le regole sociali, pagare gli affitti, non occupare gli spazi comuni con prepotenza e soprattutto non vendere stupefacenti, non far parte della criminalità organizzata, non imporre la propria voce quando si discute, salutare sempre chi ci abita accanto, questi non sono gesti secondari: sono i mattoni invisibili di una fiducia che, una volta spezzata, non si ricompone con discorsi, ma solo con anni di pazienza e di condotta irreprensibile.
Eppure, quanti silenzi compiacenti coprono chi offende la convivenza in nome di un’appartenenza che non merita? Quante volte preferiamo difendere un’apparenza piuttosto che un principio?
Ed è proprio da qui - da questa presa di coscienza personale - che risuona altrettanto forte l’appello di questi giorni di Papa Leone XIV rivolto al Libano, ma che va ben oltre i confini di una terra: “Tutti devono unire gli sforzi perché questa terra possa ritornare al suo splendore. E abbiamo un solo modo per farlo: disarmiamo i nostri cuori”. Non parla di trattati, non invoca sanzioni—parla di un gesto interiore, radicale: disarmare. Deporre le armi nascoste—quelle del sospetto sistematico, della chiusura etnica, dell’identità costruita per esclusione. E aggiunge: “facciamo cadere le corazze delle nostre chiusure etniche e politiche, apriamo le nostre confessioni religiose all’incontro reciproco”. Non basta convivere—bisogna incontrarsi, cioè riconoscere nell’altro non una minaccia da contenere, ma una persona da ascoltare, anche quando la sua preghiera ha parole diverse dalle nostre. Perché la vera fede non teme il confronto—al contrario, lo cerca, sapendo che la verità non si possiede, si condivide.
E allora ecco ricordare il sogno di Isaia - il lupo con l’agnello, il leopardo accanto al capretto, smette di essere una metafora lontana per diventare un invito concreto: non perché gli animali perdano la loro natura, ma perché scelgano, ogni giorno, di non usarla per distruggere. Il lupo ha fame, sì... ma decide di non mangiare. Il leopardo è forte, sì... ma usa la forza per proteggere, non per dominare. Così siamo noi: capaci di chiusura, certo...ma anche capaci di aprirci, se qualcuno ci mostra che la porta non è sigillata.
E quando un giovane, in Italia o in Libano, in un quartiere o in un campo profughi, chiede: perché mi guardano con diffidenza? La risposta più onesta non è loro hanno torto, ma noi dobbiamo fare di più. Perché la pace non è l’assenza di guerra, è la presenza ostinata della giustizia, della coerenza, del rispetto vissuto fino all’ultimo dettaglio.
Allora forse la vera rivoluzione non è gridare contro l’ingiustizia, è vivere in modo tale che l’ingiustizia non trovi appigli. È sapere che, ogni volta che scegliamo di essere onesti anche quando nessuno ci vede, precisi anche quando non serve, gentili anche quando siamo stanchi, non stiamo solo facendo il nostro dovere, stiamo disinnescando una bomba, una parola d’odio, un gesto di esclusione.
Ed è proprio in quel momento, senza fanfare, senza telecamere, senza likes, stiamo costruendo quel Libano possibile, quella città possibile, quel mondo possibile, dove tutti, finalmente, possano riconoscersi non come nemici da tollerare, ma come fratelli da custodire.
Trovate la pagina dell'Immam Al Manar (con un'interessante didascalia: aiutateci a far vedere il vero islam) al seguente link: al.manar.official
lunedì 1 dicembre 2025
Il silenzio che fa affari...
È sera e il sole sta scendendo lentamente - sono costretto a una deviazione fastidiosa, sì: lavori in corso sull’autostrada, anticipati poco prima da un ragazzo al distributore, e ora, da lontano, osservo le macchine che stendono l’asfalto, i fari accesi nonostante il crepuscolo non sia ancora buio - e già la mente corre in avanti, a ciò che accadrà tra qualche ora o al massimo domani: le strisce di vernice fresca, i cartelli piantati in tutta fretta, le indicazioni stradali ancora coperte da un telo trasparente - quante volte abbiamo visto quella scena, identica, ripetuta con una precisione quasi teatrale, come se fosse parte di un copione ben collaudato.
E così mentre la macchina procede purtroppo a passo d’uomo a causa della confusione venutasi a creare, ripenso a tutti quei cantieri aperti, chiusi, riaperti, mai davvero conclusi - come se il cantiere non fosse il luogo dove si costruisce qualcosa, ma piuttosto uno spazio sospeso, un palcoscenico mobile in cui il lavoro vero è secondario rispetto alla circolazione di altro: denaro, favori, silenzi.
Eppure nessuno protesta, nessuno chiede, a partire da chi, per incarico istituzionale, dovrebbe farlo per primo - e non lo fa per ignoranza, ma perché sa che porre certe domande, ad alta voce, significherebbe accendere una luce troppo forte in un luogo dove tutti hanno imparato a muoversi al buio e quella luce, invece di illuminare, rischia di bruciare chi la tiene accesa.
Del resto, se così non fosse, non avremmo di continuo quelle inchieste giudiziarie ormai familiari, quelle che parlano chiaro pur usando un linguaggio cauto, quasi smorzato, come se ogni parola dovesse essere pesata non per la sua verità, ma per le conseguenze che potrebbe scatenare - e così, nei documenti, i nomi dei protagonisti veri restano assenti, sostituiti da sigle, ruoli generici, frasi passive - l’appalto è stato aggiudicato, la variante è stata approvata, come se nessuno avesse deciso, nessuno avesse firmato, nessuno avesse guidato la mano di chi ha scritto.
Eppure c’è sempre stato qualcuno, in piedi dietro la scrivania, che ha organizzato, indirizzato, protetto e ora, messo sotto torchio, si ritrae, si fa piccolo, parla poco, non detta più regole con la stessa sicurezza di un tempo, anzi si comporta come se fosse lui la vittima di un equivoco.
Resta in penombra, certo, in attesa che la tempesta passi, convinto, forse non a torto, che passerà davvero, e che alla fine tornerà tutto come prima, perché intorno a lui c’è un sistema che non si limita a proteggerlo: lo alimenta, lo rigenera, lo rende necessario.
I suoi amici - o meglio, i suoi alleati - faranno di tutto pur di non restare impigliati a loro volta: firmeranno pareri, produrranno certificazioni, condivideranno versioni alternative dei fatti, perché la priorità non è la trasparenza, ma la sopravvivenza del meccanismo, e quella struttura ha bisogno di opacità, di silenzi compiacenti, di opportunità che si ripetono con la regolarità di un orologio difettoso ma affidabile.
Mi torna spesso in mente una frase, pronunciata da chi conosce quei meccanismi dall’interno: non è più la corruzione che urla, è quella che sussurra - quella educata, discreta, quasi istituzionalizzata, che avanza con le scarpe pulite e il lessico impeccabile di chi sa usare le procedure come schermo - tecnicismi al posto di scelte, pareri al posto di responsabilità, carte in regola al posto di sostanza.
È una corruzione silenziosa, che non ha più bisogno di bustarelle: le ha rese superflue, sostituendole con tempi che si dilatano oltre ogni plausibilità, con varianti in corso d’opera che nascono non per necessità tecnica, ma per convenienza amministrativa, con gare formalmente regolari in cui, però, nessuno sembra voler gareggiare davvero – come se il risultato fosse già scritto altrove. È una corruzione che si mimetizza tra le pieghe della legalità: ditte che vanno a vincere appalti in regioni dove non hanno sede, non hanno nemmeno una baracca, figuriamoci un addetto, eppure si aggiudicano opere milionarie, per poi affidarle a terzi, spesso piccole imprese locali, pagandole un terzo di quanto incassano loro stesse dal committente pubblico. Il risultato? Un meccanismo virtuoso solo per chi lo pilota: più costi, meno trasparenza, zero controllo e un po' di mazzette che girano di mano in mano.
Eppure qualcuno osserva, sì... qualcuno incrocia quei dati, anche se non presenta denunce, non per rassegnazione, ma per lucida consapevolezza: sa da tempo come un esposto formale, in certi contesti, non è un atto di giustizia, ma un invito a essere neutralizzato. Allora sceglie un’altra strada: verifica chi ha vinto, chi ha perso, chi compare sempre nelle stesse gare, chi firma le relazioni tecniche, chi approva le varianti, chi sta in silenzio quando qualcosa non torna ed usa quegli strumenti per farli emergere attraverso i media, i social e soprattutto quei programmi televisivi che hanno fatto la storia di questo Paese, sì... nell'ambito del giornalismo investigativo.
Non serve gridare nomi, non solo perché sarebbe inutile, ma perché il problema non sono gli individui, sono i meccanismi che li proteggono, li riproducono, li rendono intercambiabili. Basta guardare la "White list" delle imprese ammesse, redatta da chi avrebbe dovuto vigilare e invece ha delegato ogni verifica a una firma in calce: senza chiedersi chi c’è realmente dietro quelle società, quali legami, quali precedenti, quali silenzi comprati in anticipo. Sì... certo, i documenti sono in regola, ma la regolarità formale è spesso la maschera più efficace dell’illegalità sostanziale!
Allora questa terra continua a scivolare, non con un crollo improvviso, ma con una serie infinita di piccole cessioni: un silenzio qui, un compromesso là, un occhio chiuso oggi nella speranza di un favore domani. E qualcuno, incredibilmente, chiama tutto questo buonsenso, realismo, quieto vivere, come se il quieto vivere fosse il diritto di non vedere, di non sapere, di non dover scegliere.
Non vedo, non sento, non parlo e così, dopo anni di osservazione, di domande senza risposta, di segnalazioni cadute nel vuoto, mi chiedo, senza retorica e ancor meno enfasi: verrà mai qualcuno che deciderà, semplicemente, di non voltarsi dall’altra parte?
Non credo proprio...
domenica 30 novembre 2025
Inchieste giudiziarie? Le facce di bronzo degli indagati.
Li vediamo, seduti ai loro posti, mentre i notiziari scandiscono i capi d’imputazione, eppure non un gesto di ritrosia, non un’incertezza nello sguardo. Restano immobili, come se la gravità delle accuse non riuscisse a sfiorarli, come se il tempo si fosse fermato intorno a loro e la realtà non avesse il diritto di bussare troppo forte. È una scena che non sorprende più, eppure ogni volta provoca lo stesso disagio: non per la novità, ma per la sua terribile familiarità.
C’è una logica, in tutto ciò, ma non è la logica del diritto o della responsabilità. È quella del possesso: il potere non è più inteso come mandato revocabile, ma come proprietà acquisita, quasi ereditaria. Non è un compito che ti affidano: è una cosa che si sono presi e non mollano più. E allora l’indagine non è un invito a chiarire, ma un’aggressione personale, un colpo basso da respingere con ogni risorsa, legale o meno. Si attivano difese non per dimostrare la propria innocenza, ma per difendere il posto. Come se la dignità potesse sopravvivere in assenza di ogni pudore.
Ci si potrebbe indignare, eppure l’indignazione si è fatta stanca, logorata da una ripetizione che sembra non avere fine. Non è più lo scandalo a colpire, ma l’assenza di scandalo. Si è normalizzato l’insostenibile, e in questa normalizzazione si annida il vero danno: non tanto l’atto illecito in sé, quanto la sua accettazione silenziosa, come se fosse inevitabile, come se l’Italia non avesse mai conosciuto altro. Eppure basterebbe ricordare, anche solo per un istante, che c’è stato un tempo in cui un solo sospetto bastava a far vacillare una carriera. Non per moralismo, ma per un semplice senso di decoro, ormai smarrito.
Allora viene da chiedersi: perché stupirsi? Non basta guardare con attenzione per capire di quale materia siano fatti certi individui. Non è mancanza di vergogna, è assenza totale di ogni senso di appartenenza a una comunità. Non è resistenza, è pura e semplice adesione a una logica che pone l’interesse personale ben al di sopra del bene comune. Non c’è neppure un briciolo di dignità, perché la dignità presuppone un limite interiore, un confine oltre il quale non si è disposti a scendere, e qui quel confine è stato rimosso da tempo.
Forse servirebbe un patto nuovo, non scritto ma condiviso: la sola ombra di un sospetto grave dovrebbe spingere a un passo indietro, non per punizione, ma per rispetto. Per rispetto verso chi ogni giorno paga le tasse, verso chi crede ancora che le istituzioni possano funzionare, verso il semplice atto di fiducia che ogni cittadino concede ogni volta che si rivolge a un ufficio pubblico.
Invece assistiamo a una commedia stanca, recitata da attori che rifiutano di abbandonare il palco anche quando le luci si sono spente da un pezzo. Restano lì, aggrappati non al ruolo, ma al simbolo del ruolo, come se la legittimità potesse reggersi su un titolo e non sulla credibilità che, giorno dopo giorno, si logora in silenzio, fino a dissolversi del tutto.
E intanto, fuori, il paese continua a camminare in punta di piedi, come se temesse di svegliare qualcosa che, in realtà, non dorme affatto, anzi, aspetta solo il momento giusto per tornare a sedersi, ancora una volta, al suo posto, tanto d’aver già prenotato il catering per la prossima inaugurazione.
sabato 29 novembre 2025
Il condominio tradito: malagestione, collusioni, giustizia che tarda!
Ed è qui che inizia la seconda fase, quella ancora più amara. Quando qualcuno prende coraggio, presenta un esposto, denuncia, chiede l’intervento delle autorità, si scontra con un sistema che sembra progettato per logorare la pazienza, la salute, le risorse. Gli anni passano, le udienze vengono rinviate per motivi futili, gli incartamenti giacciono in attesa di essere letti - e nel frattempo, chi ha commesso gli atti non è sospeso, non è allontanato, i suoi beni (e quelli dei familiari) non vengono sequestrati. Tutto continua a operare, magari con un nuovo nome, un parente, un prestanome, un socio di comodo.
venerdì 28 novembre 2025
Confiscare sì, ma senza dimenticare chi ha pagato per farlo!
Ma, consentitemi di dire che tra quel simbolo e la vita reale c’è una distanza abissale, fatta di scartoffie, di silenzi burocratici, di procedure che avanzano con la lentezza di chi non ha fretta, di chi purtroppo ha paura o teme ritorsioni personali e familiari nel dover gestire quei beni, pur sapendo che non è lui a dover rischiare di non pagare l’affitto, di non poter curare i propri dipendenti, di dover spiegare ai propri cari perché il lavoro che credeva stabile è svanito insieme a tutti i benefici finora ricevuti.
Perché lui è lo "Stato", ed è stato messo lì per gestire gli altrui beni, e poco importa se la procedura sia legittima o meno: saranno i successivi gradi di giudizio a stabilirlo. Il suo unico compito è fare in modo che quei beni vengano gestiti, e poco importa se l’impresa riuscirà ad andare avanti, perché fintanto che esiste qualcosa da prendere, da spartire, da affidare, ben vengano sequestri e confische: sono garanzia di attività per molti professionisti, ciascuno legato a filo diretto con quel Tribunale che si occupa della gestione di quei beni - mi riferisco a figure come magistrati, custodi giudiziari, amministratori nominati e via dicendo.
Abbiamo letto, in questi anni, quanto accaduto a Palermo con l’inchiesta sull’ex Presidente dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati, anche se va detto che l’ultima sentenza, del 19 ottobre scorso, della sesta sezione penale della Cassazione ha cancellato quasi una ventina di capi d’imputazione relativi a quel presunto Sistema, ovvero a quel giro di mazzette e favori legato all’affidamento delle amministrazioni giudiziarie dei beni confiscati alla mafia. Al momento è impossibile dare una risposta definitiva, perché mancano ancora le motivazioni della decisione della Suprema Corte, ma un dato è evidente: dei 74 capi d’imputazione inizialmente contestati all’ormai ex magistrato, ne sono sostanzialmente rimasti in piedi tre, per corruzione e concussione.
Permettetemi, tra l’altro, di aggiungere quanto ho letto stamani su un amministratore giudiziario coinvolto in un’inchiesta nella provincia di Messina, attualmente ai domiciliari con braccialetto elettronico, dopo che la Corte di Cassazione ha rigettato il suo ricorso, confermando il quadro indiziario e mantenendo invariata la misura cautelare.
Da quanto sopra emerge con chiarezza che la gestione da parte dei Tribunali dei beni sequestrati e successivamente confiscati è stata, di fatto, fallimentare sotto tutti i punti di vista: non sto qui a elencarli, sebbene li conosca perfettamente.
Difatti, proprio il sottoscritto - che ha denunciato, che ha insistito, che ha anticipato le spese per una procedura fallimentare che nessuno voleva avviare, perché, a dir di molti, tanto sarebbe finita male comunque - ancora oggi, incredibilmente (ma non sorprendentemente... in un sistema clientelare e mafioso), si ritrova in una posizione grottesca: sono un creditore privilegiato, sì, ma privilegiato solo sulla carta, perché quel riconoscimento non è riuscito finora a farmi ricevere quanto mi è dovuto - seppure è proprio grazie al sottoscritto che si è riusciti a recuperare quasi 500.000 euro tra fatture a suo tempo non pagate e beni venduti nel corso della procedura.
A tal proposito però desidero rendere un doveroso plauso al curatore fallimentare, per il lavoro svolto fin qui: auspicando che porti a termine la sua attività con la stessa professionalità e correttezza dimostrate sino ad ora - tanto che, una volta conclusa la vicenda, farò in modo che il suo operato sia conosciuto, anche attraverso il mio blog, citando espressamente il nome dell’avvocato che sta seguendo la procedura. Mi sento di farlo perché, rispetto a quello che abbiamo purtroppo constatato negli anni - troppi suoi colleghi, infatti, hanno finito per lasciare alle spalle solo vuoti e silenzi, quando non qualcosa di peggio - questa volta la gestione appare diversa, concreta e soprattutto trasparente.
Desidero però riconoscere anche il ruolo che ho avuto personalmente in questa vicenda: senza la mia iniziativa, senza le denunce presentate a mie spese, senza la tenacia - solitaria, ma mai rassegnata - di chi ha scelto, da sempre, di non voltarsi dall’altra parte, è lecito affermare con certezza che molte di quelle confische non sarebbero neppure state avviate, molti di quei patrimoni sarebbero rimasti intoccati, e la maggior parte di quelle condanne non avrebbero avuto neppure un fascicolo d’archivio.
Va detto che la Cassazione, con la sentenza 37200 del 14 novembre scorso, ha provato a correggere un difetto strutturale: non basta che il credito nasca prima del sequestro, serve che sia accertato in tempi utili, e questo accertamento non può dipendere solo dalla rapidità di un avvocato o dalla disponibilità economica di un cittadino.
Ma la sentenza, per quanto importante, non risolve il problema di fondo, che non è giuridico, ma culturale: finché resterà implicito, in molti uffici, in molte stanze dove si decidono le destinazioni dei beni, che chi si espone è un ingenuo, che chi denuncia è un rompiscatole, che chi pretende giustizia è un problema da gestire più che un diritto da tutelare, allora non cambierà nulla, neanche con cento sentenze.
Perché la confisca, quando funziona davvero, non è solo la sottrazione di un bene, ma il riconoscimento di un torto, la restituzione di un’opportunità, la riammissione di una persona alla dignità di chi ha fatto la sua parte e merita di vederne il frutto.
Invece, ancora oggi, chi ha pagato di persona, chi ha rischiato sul serio, chi ha messo in gioco non solo la propria professione ma anche la propria credibilità, si sente dire che deve aspettare, che deve capire, che ci sono procedure, che bisogna rispettare le priorità, come se la priorità non fosse mai stata, fin dall’inizio, la sua voce, il suo coraggio, la sua scelta di non tacere.
E intanto i beni confiscati entrano in circuiti dove, talvolta, si annidano nuove forme di opacità: consulenze vengono affidate non per competenza ma per vicinanza, le liste dei beneficiari assomigliano più a un elenco di fedeltà che a un piano di riuso sociale, e chi ha denunciato si trova ad attendere invano - non perché non abbia diritto, ma perché, pur avendolo per primo, essendo stato l’unico e il solo ad esporsi in prima persona, viene scavalcato da chi ha atteso, da chi faceva parte - e poi si è celato - direttamente o indirettamente, di quell’orticello, e che dunque dovrebbe attendere, o quantomeno trovarsi in fondo alla fila, nell’equa suddivisione che tanto si invoca.
Non si tratta di dover veder riconosciuti meriti, ancor meno riconoscimenti pubblici - finora, per quanto compiuto, non ne ho mai ricevuti, a eccezione di qualche nota di merito che ricorre, quasi a ogni piè sospinto, nelle sentenze - ma si tratta, semplicemente, di essere coerenti: se lo Stato usa lo strumento della confisca per affermare che la legalità ha un valore reale, allora quel valore deve valere anche per chi ne è stato il primo custode, non solo per chi ne gestisce le conseguenze una volta che il rischio è passato.
Altrimenti, e lo sappiamo bene, la confisca resta propaganda, una cerimonia, un’immagine da cartolina, mentre la giustizia resta fuori, in attesa, con le tasche vuote e la pazienza logorata da cinque anni di silenzi che non sono casuali, ma strutturali.
Perché il vero fallimento, oggi - e lo confermano le sentenze del Tribunale - è quello del sistema che continua a premiare chi si muove dentro le sue maglie e a punire chi prova a rammendarle.
E ogni volta che un creditore come me rimane in attesa, non è solo una pratica in sospeso: è un segnale che arriva chiaro a chi vorrebbe fare lo stesso e si ferma un attimo prima, perché sa già come va a finire.
Forse, allora, la prossima riforma non riguarderà solo le tempistiche delle ammissioni al passivo, ma qualcosa di più delicato: la fiducia.
Perché quella che si è persa in cinque anni di attesa - e che nessuna sentenza, per quanto giusta, potrà mai restituire - è la fiducia in questo Stato e nelle sue Istituzioni. Ed è il motivo per cui non mi sento più di dover collaborare con chi richiede al sottoscritto informazioni, documenti protocollati, ma ahimè andati persi all’interno di quei palazzi: gli stessi documenti che, se invece di essere insabbiati nell’ultimo cassetto fossero stati portati alla luce, avrebbero reso inutili molte di quelle inchieste oggi condotte da talune procure nazionali.
Ma chissà… forse lo Stato - soprattutto chi lo rappresenta - non teme le voci, ma il loro contrario: vuole che quei pochi cittadini ancora onesti, col tempo, imparino a tacere. Già... proprio come tutti gli altri!
giovedì 27 novembre 2025
Quel filo che tiene insieme tutta la tela...
In cima, c’è sempre qualcuno che firma, non perché ha scelto, ma perché è stato scelto. Più in basso, ci sono quelli che preparano la penna, regolano la sedia, tengono la porta aperta. Ognuno con un ruolo preciso, ognuno con un prezzo concordato in anticipo, anche se nessuno lo ha mai messo per iscritto. Non serve: basta saperlo.
mercoledì 26 novembre 2025
Non è la mafia che ci definisce, ma quello che tolleriamo in silenzio!
La Sicilia difatti non ha bisogno di essere raccontata: basta guardarla per capire che ogni parola su di lei è già stata scritta, forse da Goethe, forse da un pescatore che, senza alcun bisogno di citare i classici, ci ricorda come il vento di scirocco ha portato con sé non solo la sabbia dell'Africa, ma anche il peso di quelle invasioni, già... di incontri mancati e di promesse mai mantenute.
Qui ogni pietra racconta di un impero caduto, ogni porto... una partenza che non è mai stata un vero addio, ogni tempio un'alleanza tra fede e potere, autorità e consenso.
Migliaia e migliaia di anni in cui qualcuno arriva, costruisce, comanda, poi se ne va... e lascia dietro di sé non solo monumenti, ma anche una consuetudine: quella di tramandare un’attesa, sì... aspettare sempre che giunga qualcuno da fuori per decidere del nostro destino!
E difatti lo stesso accade ai nostri giorni, eppure non è colpa degli invasori, di quelli che vengono e se ne vanno, no... se ci guardiamo intorno vediamo sempre lo stesso vuoto - non di risorse, non di talenti, non di volontà - ma di fiducia, già... fiducia nel fatto che fare la cosa giusta, senza chiedere niente in cambio, possa bastare.
Perché la verità, quella che si tende a non dire a voce alta, è che molti di noi - per come veniamo descritti nel mondo - non sono mafiosi, e neppure complici, ma purtroppo sono molti i miei conterranei a non sentirsi obbligati a contrastare chi lo è!
Non sempre per paura: spesso semplicemente perché non ne vale la pena. Si sa... bloccare un torto non dà vantaggi immediati, segnalare un appalto truccato non garantisce un posto di lavoro, anzi, tutto ciò mette in cattiva luce ed allontana da quel "sistema" in cui tutti sanno come funziona, ma nessuno lo ammette ad alta voce...
Ed è il motivo per cui sanno che, denunciare un abuso edilizio, non riporta indietro il paesaggio perduto, ma li rende scomodi, e così scelgono di abbassare lo sguardo. Si chiama “realismo”, si chiama “prudenza”; a volte si usa una parola che suona quasi nobile: omertà. Ma non è silenzio per proteggere qualcun altro: è silenzio per proteggere se stessi!
Ed è proprio lì, in quel gesto quotidiano — ripetuto decine di volte al giorno — che si annida quel che davvero mina questa terra: non la forza della mafia, ma la debolezza della sua opposizione! Un permesso firmato senza leggerlo. Un visto rilasciato senza controllare. Un appalto assegnato con la giustificazione più insidiosa: “tanto se non lo faccio io lo farà qualcun altro”.
Non serve essere un boss per alimentare questo sistema. Basta essere un professionista che chiude un occhio, un impiegato che fa una copia in più, un sindaco che sceglie di non accorgersi, oppure un cittadino che vota non per un programma, ma per un pacco alimentare distribuito la settimana prima.
Non stiamo parlando di personaggi da film: questi nuovi soggetti, non indossano doppiopetto, non parlano in codice e non hanno soprannomi. Sono i nostri vicini di casa, i nostri colleghi, ahimè... i nostri parenti: hanno figli che studiano in atenei privati, possiedono case dotate di ogni comfort, macchine lussuose e conti in banca (che appaiano) regolari...
Eppure, ogni volta che scelgono il tornaconto anziché ciò che è giusto, non commettono solo un illecito: insegnano qualcosa, sì... ai loro figli, ai loro collaboratori, a chi li osserva e cioè che il rispetto delle regole è un optional, che l’onestà è un difetto di forma, non di sostanza e soprattutto che il sistema non si cambia, si aggira e chi non lo aggira, è semplicemente fesso o quantomeno, meno furbo.
Allora ti domandi: dov’è finita quella Sicilia che si ribellava? Quella dei contadini che nel 1893 fondarono i Fasci, quella dei sindacalisti uccisi in piazza, quella dei magistrati che non esitarono un istante?
La verità è che non è scomparsa: è stata ridotta a monumento. Già... onorata in pubblico, archiviata in privato. Ed ecco che si intitola una strada a Falcone, una piazza a Borsellino, poi si affida la gestione di un bene confiscato di quella impresa che nessuno ha mai controllato, con procedure che, in alcuni casi, abbiamo visto, si sono rivelate persino più opache di quelle messe in pratica dagli stessi indagati.
Già... si celebra la memoria, ma non si pratica il coraggio!
Perché il punto non è se la mafia sia ancora potente, perché lo è... finché qualcuno la alimenta. Il punto è che noi, oggi, non siamo più costretti a subirla. Siamo liberi di scegliere. Eppure, dall’osservazione quotidiana dei comportamenti di molti miei conterranei, vedo una scelta precisa: non scegliere affatto.
Aspettare sempre che sia un altro ad agire, pensare che la corruzione sia un problema del “sistema”, come se il sistema non fossimo noi, come se non fosse fatto di scelte individuali, ripetute, quotidiane.
La Sicilia è bellissima, sì... lo è ancora, nonostante tutto. Ma nessuna bellezza regge a lungo se chi la abita smette di chiedersi cosa significhi curarla: non solo con le parole, non solo con la nostalgia, ma con atti concreti, ripetuti, noiosi, scomodi. Con la fatica di chi rifiuta un favore, con la pazienza di chi legge fino in fondo un progetto, con la dignità di chi, guardando dritto negli occhi, dice: No... non questa volta, e neppure la prossima.
Ecco, forse solo allora smetteremo di essere famosi per ciò che tolleriamo e torneremo a essere riconosciuti per ciò che costruiamo.
martedì 25 novembre 2025
25 Novembre: una data importante che interroga le nostre coscienze...
lunedì 24 novembre 2025
Leggendo i Vangeli, qualche fedele potrebbe credere che Gesù abbia attraversato il mondo, quando in realtà non si è mai allontanato (più di tanto) da casa.
domenica 23 novembre 2025
Disparità giudiziarie e opacità amministrative condominiali: il potere di chi sceglie di non tacere!
Prendete il caso di Palermo: un ex amministratore di condominio, responsabile di oltre trenta stabili, finisce agli arresti domiciliari e il giudice per le indagini preliminari, su richiesta della Procura, dispone immediatamente il sequestro preventivo di quasi duecentomila euro, presunto profitto dei reati contestati: appropriazione indebita e autoriciclaggio.
Le indagini, coordinate dalla sezione di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza e guidate dal colonnello Antonio Campo, nascono da cinque querele presentate da altrettanti rappresentanti di condomini, insospettiti da ammanchi emersi nel passaggio tra vecchio e nuovo amministratore.
Secondo le indagini non si tratta di sviste contabili, ma di un meccanismo organizzato: rendiconti falsificati, surplus creati ad arte, somme convogliate su conti personali, poi suddivise tra carte prepagate intestate all’indagato e alla moglie, infine spese su piattaforme di gioco online - una a Malta, l’altra in Italia. L’analisi dei flussi finanziari ha ricostruito con chiarezza il percorso del denaro, come un filo che non si spezza, ma si attorciglia intorno a scelte precise, calcolate.
Eppure, proprio mentre leggevo il comunicato stampa di questa operazione - tanto esemplare quanto rara nella sua efficienza - non ho potuto fare a meno di confrontarla con quanto accade altrove: inchieste pendenti che sono durate anni, beni mai sequestrati, professionisti coinvolti in condotte amministrative e finanziarie gravissime, eppure mai sottoposti a misure analoghe, nemmeno lontanamente paragonabili.
Alcuni di quei casi hanno visto addirittura il Tribunale competente nominare un amministratore giudiziario - segno inequivocabile del livello di gravità raggiunto - eppure, al di là della forma giuridica, la sostanza si dissolve in una gestione opaca, dove le responsabilità si smorzano, le sanzioni si annacquano, e ciò che dovrebbe apparire intollerabile finisce per essere tollerato, quasi normalizzato.
Ho espresso più volte, anche in esposti ufficiali, il mio profondo disagio di fronte a certe leggerezze operative - a decisioni prese come se stessimo parlando di bollette dimenticate, non di risorse sottratte a comunità, spesso fragili, di persone che pagano regolarmente per vedersi poi private dei servizi essenziali.
Non credo più - per esperienza diretta - che si tratti soltanto di differenze procedurali o di carichi di lavoro diseguali. C’è qualcosa di più profondo: una sorta di geografia morale dei tribunali, dove la pressione politica, le infiltrazioni mafiose, e talvolta anche la presenza discreta ma capillare di logge massoniche, finiscono per piegare l’applicazione della legge verso esiti divergenti.
Lo dico senza enfasi polemica, ma con la lucidità di chi osserva da anni, da una posizione non comoda - quella di delegato in associazioni di legalità - e che ha la responsabilità, giorno dopo giorno, di tenere accesa l’attenzione su quei passaggi silenziosi in cui la giustizia, invece di essere uguale per tutti, diventa un bene distribuito a dosi diseguali.
Questo caso a Palermo, per quanto limitato nella sua dimensione, è importante non perché sia eccezionale, ma perché è coerente: dimostra che quando ci sono volontà, competenza e autonomia, si può intervenire con tempestività, tutelando i cittadini e restituendo dignità a un sistema che spesso sembra averla smarrita.
Mi auguro - lo dico sinceramente, senza alcuna ironia - che non rimanga un’iniziativa isolata, ma diventi, per ciascun Tribunale siciliano (evito di fare nomi - per il momento...), un modello replicabile, anche perché, finché resteremo in questa condizione di duplice standard, sarà difficile chiedere ai cittadini di continuare a credere, non tanto nelle leggi - sì... quelle ci sono - quanto in chi le applica.
Per cui, se leggete queste righe e vi riconoscete in una situazione simile - un rendiconto poco chiaro, spese gonfiate, un cambio di amministratore con ammanchi inspiegabili - non chiudete il post e lasciate che tutto scorra via. Fermatevi, raccogliete i documenti che avete (verbali, estratti conto, fatture, comunicazioni) e confrontatevi con altri condomini e se i dubbi diventano certezze, non abbiate paura di agire.
Basta un esposto scritto, ben argomentato, inviata alla Procura della Repubblica competente per territorio, o alla locale Sezione della Guardia di Finanza. Già... non serve essere esperti: serve essere precisi. Indicate, nomi, date, somme e discrepanze.
Ed ancora, se il vostro condominio ha beneficiato di incentivi statali - bonus facciate, sismabonus, ristrutturazioni con cessione del credito - potete anche verificare se gli interventi risultano tracciati (vedasi il portale di Openpolis che monitora i cantieri finanziati con fondi pubblici) o se le procedure di affidamento sono registrate nel sistema ANAC. Spesso, una semplice incongruenza visibile in rete - un importo dichiarato di 50.000 euro che in banca diventano 80.000 - è già un campanello d'allarme.
Io, come delegato per la legalità, e insieme a chi ogni giorno lavora per rendere trasparente ciò che qualcuno vorrebbe tenere nell’ombra, sono a disposizione per aiutarvi a formulare una segnalazione efficace. Non vi chiedo di fare da soli ciò che il sistema dovrebbe garantirvi per diritto: vi chiedo solo di non tacere. Perché ogni silenzio, anche il più breve, è un segnale di assenso.
Scrivetemi, condividete, verificate: Agite!
Insieme, possiamo trasformare l’amarezza in responsabilità, e la responsabilità in cambiamento.
Resto - come faccio da anni - in ascolto.
sabato 22 novembre 2025
L'altra faccia dei fondi agevolati: "aiuti alle imprese" o "occasione di corruzione"?
Non so voi, ma io sono stanco di leggere di frodi costruite intorno ai fondi della L.R. 38/1976, le cosiddette “Agevolazioni finanziarie alle commesse”. Nate per sostenere le imprese, sono diventate un labirinto di carte e silenzi.
Non sono casi isolati: è il sintomo di un sistema che, ad ogni nuova speranza di rilancio, lascia aperta una porta di servizio per chi sa muoversi nell'ombra.
Quanti altri fondi, concepiti con intenti nobili, sono diventati terreno di caccia? L’articolo 60 della L.R. 32/2000 (Fondo Regionale per il Commercio) e l’articolo 11 della L.R. 51/1957 (Mutuo industriale) sono solo due esempi di un meccanismo perverso. Il solito patto oscuro: funzionari che chiudono un occhio, imprese con progetti fittizi, favori in cambio di vantaggi.
Cosa spinge a rischiare tutto per queste risorse? Non è solo necessità. È una mentalità che ha smesso di vedere la legalità come un confine, trasformandola in un ostacolo da aggirare. Per alcuni, l'obiettivo non è far crescere un’impresa, ma svuotare il sistema. Quando il guadagno immediato diventa l’unica bussola, la corruzione non è più un reato, ma un metodo.
Basta guardarsi intorno: imprese serie faticano per un'autorizzazione, mentre altre, con progetti sospetti, ottengono finanziamenti in tempi record. È un sistema che premia l'opacità. E alla fine, chi paga? I cittadini, le piccole attività, chi crede ancora nella trasparenza.
Ma il problema vero non è solo chi ruba. È chi permette che si rubi. È quella cultura dell’impunità che si nutre di silenzi e complicità. Qui l'impunità nasce dalla lentezza, dalla complessità, dal fatto che denunciare costa più che tacere. Chi dovrebbe vigilare diventa parte del problema.
Questo è il tradimento. Non il singolo furto, ma la sua normalizzazione. Quei fondi non sono più strumenti di sviluppo: sono trofei per chi aggira le regole. Mentre le imprese oneste pagano il prezzo più alto.
Perché finché permetteremo che i fondi diventino bottino, finché lasceremo che la corruzione sia una pratica quotidiana, non ricostruiremo mai la fiducia e senza fiducia, non c’è economia, non c’è progresso, non c’è futuro!
Oggi, mentre scrivo queste righe, penso a quanti hanno smesso da tempo di credere che le cose in questo Paese possano cambiare. Ma come ripeto spesso, la speranza non è nella rassegnazione, ma nel gesto concreto, perché la legalità non è un ideale lontano, ma una semplice scelta quotidiana. Ed ogni volta che la facciamo, anche se nessuno lo vede, è un seme che piantiamo nell'arido terreno dell'indifferenza, è una piccola luce che accendiamo nel buio della rassegnazione.
venerdì 21 novembre 2025
Sistema Sicilia...
Già... proprio come in passato, oggi ritroviamo nuovamente Totò Cuffaro al centro di un nuovo scandalo - interrogato dal Gip con accuse pesanti quali: associazione a delinquere, corruzione e turbativa d'asta. Ho letto che mentre si presentava in Tribunale avrebbe detto ai giornalisti di avere "fiducia nella giustizia".
Una frase che suona come un ritornello familiare, il refrain di un sistema che non ha mai davvero cambiato pelle. Come sapete non condivido nulla di quel sistema che da sempre condanno con tutte le mie forze, ma resto altresì convinto che le sue dimissioni da segretario della Dc e la rimozione degli assessori a lui vicini, siano solo la punta dell'iceberg, sì... le prime onde di uno scandalo che scuote il palazzo, ma non ne mina le fondamenta.
Perché il sistema, quello vero, è molto più grande di un solo uomo. Dietro l'ex Presidente della regione, si nasconde una rete di relazioni che si estende in ogni angolo dell'isola fino a giungere a Roma, coinvolgendo figure istituzionali come ex ministri e attuali deputati.
Ho letto inoltre di consorzi di imprese che esistono più nei documenti che nei cantieri, già... quest'ultimi sono riusciti a ottenere decine di appalti pubblici grazie a quelle relazioni giuste. Come sapete, non entro nel merito dei nomi specifici - non m'interessano né quelli e ancor meno i cognomi dei loro referenti - ma è evidente come queste entità, muovendosi con sorprendente agilità tra commesse milionarie e relazioni politiche di alto livello, abbiano costruito imperi che ora rischiano di sgretolarsi, come molti di quelli che abbiamo visto in questi anni crollare su se stessi, sì... credo che sia solo questione di tempo!
E cosa dire della sanità, di quel settore che dovrebbe essere sacro e invece è diventata la cassaforte della corruzione, il luogo dove si decidono destini e fortune? Gare pilotate, concorsi truccati, punteggi modificati in silenzio, tutto avviene alla luce del sole, senza vergogna, come se fosse la norma. La novità, come riportavo alcuni giorni fa, è che oggi la corruzione non si manifesta più solo attraverso le classiche buste marroni con mazzette di banconote, ma attraverso scambi di utilità più sottili, già... più socialmente accettabili, che creano dipendenze destinate a riproporsi nel tempo.
Non è più solo il denaro, ma la capacità di distribuire opportunità, di creare reti di potere, di controllare la burocrazia. Mentre i cittadini comuni faticano a ottenere un visto, un permesso, un servizio pubblico, chi sa muoversi tra le pieghe dell'opacità ottiene tutto con una semplice telefonata e di queste telefonate, ogni giorno, se solo potessimo ascoltarle, ve ne sono a centinaia...
Già, ciascuna di esse potrebbe realizzare quella storica pubblicità della "SIP" con protagonista l'attore Massimo Lopez e quel celebre slogan: "il telefono allunga la vita", aggiungendo oggi: "non solo quella, ma anche il potere".
Sì, il denaro non conta più nulla, ciò a cui tutti ambiscono è la promessa di un posto di lavoro, l'aggiustamento di un punteggio, la nomina a un incarico prestigioso, quello scambio silenzioso tra un politico e un imprenditore, tra un funzionario e un professionista, tra una personalità istituzionale che ha il potere e chi lo cerca.
E così, mentre la politica regionale cerca di assestarsi dopo questo terremoto, con vertici di maggioranza rinviati e nomine bloccate, ciò che resta è la sensazione amara che alla fine, nulla cambi veramente. La nostra Regione Siciliana è tornata a essere un luogo di mera intermediazione, dove tutto si fa "alla luce del sole, senza vergogna".
Mentre il "sistema" Sicilia continua ad essere un intreccio inestricabile di potere, affari e silenzi, che prospera nell'ombra, resistente a ogni scandalo, a ogni inchiesta, a ogni promessa di cambiamento. La mafia, pur non essendo più il regista, rimane comunque la prima beneficiaria collaterale, sempre pronta a intercettare gli effetti economici di quei flussi illeciti. E sì, perché nonostante tutto, nonostante le inchieste, nonostante gli arresti, quell'infezione continua a diffondersi, silenziosa, implacabile, inevitabile. Perché la corruzione, quando diventa "Sistema", non conosce fine!!!
E forse, proprio per questo, non conoscerà mai fine, perché in questa terra, dove la linea tra legale e illegale è così sottile da diventare invisibile; chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato? Chi decide chi deve restare e chi deve andare? Chi decide chi merita una seconda possibilità e chi no?
Nello scrivere queste parole ho ripensato alla fiction "Il Capo dei capi" interpretata dal bravissimo attore Claudio Gioè, nella parte del boss di "cosa nostra" Toto Riina, mentre discute con l'amico di sempre Binnu (Bernardo Provenzano): "I Corleonesi nunn' hanno bisogno ru stato! Ave trent'anni che mettiamo le leggi senza bisogno di scriverle e siamo noi che le facciamo rispettare, siamo noi che decidiamo qua va a crepare e qua va a vivere, qua va a pigliare gli appalti e chu resta morto de fame, chi se ne deve andare a Roma e chu resta cu u' culo pe' terra... hann'a trattare cu' mia, Binno! Qui lo stato sono io!"
Consentitemi di uscire per un istante dalla serietà di questo post, aggiungendo come a tal proposito - senza togliere meriti all'interpretazione di Gioè - molti miei amici che hanno potuto osservare alcuni anni fa, quella stessa parte realizzata (ovviamente per scherzo) dal sottoscritto, con la collaborazione di una delle mie figlie - un video modificato attraverso un filtro se non ricordo male del social "Tik Tok" - dichiaravano che ero da Oscar...
Riprendendo per concludere: la risposta è semplice... sono sempre loro, quelli che siedono ai tavoli del potere, quelli che controllano le chiavi del sistema. E finché non cambierà questo "sistema", ogni inchiesta, ogni arresto, ogni dimissione, non sarà che l'ennesima goccia nel mare di un male che, come ripeto e scrivo da 15 anni in questo Blog: è diventato "cosa nostra", di conseguenza parte del Dna di questa terra!
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