C’è qualcosa di positivo, in questa maledetta emergenza. Forse l’unica cosa buona che ha fatto quel dannato virus è stata far sparire dalla televisione tutti quei programmi insopportabili, quelli vuoti, volgari, fatti male – eppure sempre in prima serata.
Ma soprattutto, mi ha dato modo di tornare a concentrarmi su ciò che amo davvero: la lettura, il silenzio, i pensieri veri. E mi ha tolto dagli occhi lo spettacolo triste di tanta gente comune che sembra vivere solo per apparire, per farsi notare. Non certo per mostrare ciò che sa fare o per raccontare qualcosa di utile, no... solo per mettersi in mostra, per ottenere qualche click in più. Una gara quotidiana a chi urla più forte, a chi dice la cazzata più grossa, a chi si veste peggio ma crede di essere trendy.
Una volta, se facevi una figura ridicola, ti ci portavi dietro la vergogna per anni. Oggi? Diventi famoso. Ti iscrivi a Instagram, carichi un video idiota, e sei subito un influencer. Ma di che? Di ignoranza?
E allora via con le stories, i live, i commenti a vanvera. Non è vita sociale, è esibizionismo puro. Non è passione, è bisogno disperato di attenzione. Quasi fosse una malattia. E sai qual è il peggio? Che molti di loro non sono neanche consapevoli di quanto siano banali, superficiali, fuori luogo.
E purtroppo, questa deriva non riguarda solo i social. È arrivata anche in televisione. Anzi, forse è partita proprio da lì.

Guarda un po’ certi programmi “trash”, tanto per capirci. Basta cambiare canale e fermarsi su uno di quei reality dove gente sconosciuta si rinchiude in un appartamento, si litiga addosso, si fa le foto in mutande e noi dobbiamo guardarli come se fosse una novità. Ma non c’è niente di nuovo, è solo noia vestita da spettacolo.
E poi quei dibattiti... chiamiamoli così. Un casino totale. Oche giulive che starnazzano, personaggi che urlano uno sull’altro, nessuno ascolta, nessuno ragiona. Le pseudo conduttrici, tanto per non sfigurare, ridono, annuiscono, alimentano il caos. Tanto l’importante è fare audience, non informare.
Se poi aggiungi quelle trasmissioni che raccontano la vita quotidiana di attività commerciali improbabili – alberghi decadenti, bar di periferia, parrucchieri improvvisati – beh, allora puoi dire che siamo arrivati al capolinea.
Un tempo erano anonimi, sconosciuti, quasi invisibili. Oggi, grazie a questi format trash, diventano protagonisti. E i loro clienti, persone normalissime – anzi, a volte decisamente improbabili – vengono riprese come se fossero VIP. E tu guardi e ti chiedi: ma che ci faccio io a guardare ‘sta roba?
Tutto nasce da un meccanismo preciso: gli ideatori dei programmi prendono gente che conoscono, che hanno già usato per altre cose, e li rimettono in gioco. Attricette finite, pornostar mascherate da velina, politici falliti, imprenditori improvvisati. Li spacciano per normali, per autentici. E loro, felici, si atteggiano a star.

Solo in Italia può succedere una cosa del genere. Solo qui la mediocrità viene premiata, mentre chi ha talento, merito, capacità, va via. Se ne va all’estero, si nasconde, si arrende.
E allora ecco che tanti telespettatori, illusi, credono che andando in quegli stessi locali potranno sentirsi importanti, quasi famosi. Come se bastasse sedersi allo stesso tavolo per diventare parte dello show.
Ma diamoci un taglio. Guarda bene quelle persone. Non sto a parlare dell’aspetto fisico – quello è questione della natura – ma del modo in cui si comportano. Si presentano davanti alle telecamere come fossero a casa loro, nel cortile condominiale, tra panni stesi e urla varie. Alcuni sembrano usciti da un film horror.
E non parliamo delle donne. Chiamarle così è quasi un eufemismo. Alcune di loro pensano che basta un abito elegante – spesso volgare – o un taglio di capelli ben fatto per trasformarle in icone di stile. Invece non fanno altro che evidenziare la loro mancanza di gusto, di classe, di personalità.
Quindi sì, ammetto di essermi sentito sollevato quando il virus ha costretto la televisione a fermarsi. Finalmente via tutti quei programmi cafoni, rozzi, volgari. Quasi quasi, ringrazio il virus. Peccato che qualcuno resista ancora. Spero solo per poco.
Io, intanto, pago il canone ogni anno e guardo la Rai sì e no per un notiziario. Qualche serie decente, ogni tanto. Ma ormai è un furto legale. Mi sento derubato. E per le reti private, be’, posso solo dire: migliorate. Però so bene che non sarà facile, visto chi le ha create e gestite.
Sì, perché uno dei fondatori di quelle televisioni è stato anche uno dei padri del nostro declino nazionale. Ha governato il Paese, ha messo i suoi uomini ovunque, ha creato un sistema di potere che ha fatto regredire la scuola, la sanità, la ricerca, la cultura. Ricordo bene quanti politici del suo partito sono finiti sotto processo, o peggio, condannati. Eppure, nonostante tutto, continua a detenere un ruolo centrale nella comunicazione italiana.
Se dovessi paragonare quella politica ignobile ai programmi che ancora oggi vanno in onda sui suoi canali, non avrei dubbi: userei lo stesso termine per entrambi. Censura. Sì, perché non è servizio pubblico, non è informazione. È controllo, è manipolazione, è menzogna.

E allora io proseguo per la mia strada. In questi giorni di limitazioni, di distanziamenti, di obblighi vari, non mi lamenterò certo per la mancanza di intrattenimento televisivo. Anzi, lo vedo come un momento prezioso. Tempo finalmente ritrovato. Tempo per leggere, per pensare, per non abbassare mai più la guardia.
Perché il vero servizio pubblico non è questo. Il vero servizio pubblico deve tornare a raccontare il reale, a dare voce ai liberi pensatori, a ospitare dibattiti seri, inchieste vere, contenuti utili. Deve smettere di essere il palcoscenico di raccomandati, di pornostar travestite da opinionisti, di imprenditori improvvisati.
Deve tornare a essere nostro. Di tutti. Non di pochi.
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