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domenica 23 marzo 2025

Ferrovie dello Stato - 'LAVORA CON NOI': Sì, ma solo se sei raccomandato!

Alcuni giorni fa ho ricevuto un link per candidarmi a una posizione presso Ferrovie dello Stato. 

Quanto sopra mi ha riportato alla mente un avvenimento che ho vissuto anni fa, esempio lampante di come, spesso, il sistema delle raccomandazioni prevalga sul merito. 

Oggi quindi voglio raccontare quell’esperienza, alla quale purtroppo ho partecipato in prima persona, ma di cui ho sempre avuto forti sospetti. Sin dall’inizio, ho pensato che quanto accaduto fosse stato architettato in modo preciso, quasi “chirurgico”, da qualcuno che voleva evitare la mia presenza a un processo penale in cui ero chiamato come testimone dell’accusa.

E ora vi racconto cosa è successo.

Mi fissano l’appuntamento alle 14:30, ben sapendo che da Catania a Palermo ci vogliono tre ore di auto. Questo orario, ovviamente, mi ha impedito di presenziare al processo.

Avevo già il sospetto che si trattasse di una “stronzata”, e infatti ho chiesto a mia moglie di accompagnarmi. Sì... almeno avrei potuto trascorrere la giornata andando a pranzo insieme, cosa che abbiamo fatto, recandoci al ristorante “Lo Strascino” in Via della Regione (un mio caro amico palermitano mi ha detto l’anno scorso che purtroppo ha chiuso…). La mattinata è quindi passata tra pasta con i ricci, pesce freschissimo e dolci deliziosi.

Comunque, all’orario prestabilito, mi presento. Il "Vigilantes" posto in portineria ahimé non sapeva nulla della convocazione, ma soprattutto non sapeva dove indirizzarmi. Allora ha chiesto in giro ad alcuni impiegati che stavano rientrando dalla pausa pranzo, ma nemmeno loro hanno saputo aiutarlo. Avendo comunque il nominativo dell’ufficio, ho chiesto gentilmente di poter entrare, richiesta che mi è stata concessa.

Inizio a girovagare all’interno di quegli enormi palazzi, quando finalmente trovo una persona che mi indirizza verso l’ufficio riportato nella nota. Raggiungo lo stabile, ma l'ingresso è chiuso e in portineria non c’era nessuno. Suono il citofono e, dopo alcuni minuti, mi risponde una signora che mi apre. Appena salgo le scale, spiego il motivo per cui sono lì, e lei mi chiede di attendere perché non sapeva nulla di quell’appuntamento.

Nel frattempo, sento aprire il portone da cui ero entrato e vedo salire due persone, anch’esse senza sapere dove andare. Spiego loro perché sono in attesa, e mi confermano di essere lì per lo stesso motivo.

Finalmente ritorna la signora di prima, che ci accompagna al quarto piano, dove (forse) un ingegnere – non ricordo il nome – ci riceve. Passa circa mezz’ora, sono quasi le 14:30, e nel frattempo si uniscono al gruppo altre tre persone: due donne e un uomo.

Si inizia a parlare, e alcuni di loro non capiscono perché siano stati chiamati. Ascoltando le loro storie e le mansioni che avevano svolto fino a quel momento, anche io mi sono chiesto: “Nicola, ma cosa cazzo ci fai qui?”.

Erano tutti di Palermo, e l’ingegnere che ci aveva ricevuto sembrava piuttosto sorpreso di vedermi lì. Avevo l’impressione che non si aspettasse la mia presenza, quasi fossi un intruso. Una cosa, però, la sapeva bene: che ero di Catania e che, di conseguenza, avrei dovuto affrontare il rientro in auto. Mi aspettavo, almeno, di essere ricevuto per primo, considerando che ero arrivato prima degli altri. In fondo, sarebbe stato logico, soprattutto per permettermi di ripartire con la luce del giorno e non dover guidare al buio. Invece, con mia grande sorpresa, mi fecero aspettare e fui l’ultimo a essere ricevuto. Una scelta che trovai strana, quasi inspiegabile, e che mi lasciò con un senso di frustrazione.

Nell’attesa, avevo iniziato a chiacchierare con gli altri candidati, scoprendo un po’ delle loro storie. Uno di loro si occupava di cucina, un altro faceva le pulizie, c’era chi era stato disoccupato fino a quel momento e una ragazza che lavorava come badante. Degli altri due, invece, non ricordo nulla di particolare. Mentre ascoltavo le loro esperienze, mi sono ritrovato a pensare: “Nicola, ma cosa cazzo ci fai qui?”. Era una domanda che mi ronzava in testa, un misto di incredulità e disagio, come se fossi finito in un posto che non mi apparteneva.

Finalmente, verso le 18:00, arrivò il mio turno. Durante l’attesa, però, una cosa in particolare aveva catturato la mia attenzione. Tra le 16:00 e le 16:30, mentre aspettavo nella saletta con la porta aperta, notai un continuo viavai di dipendenti che entravano e uscivano da una stanza accanto. Ogni volta che mi vedevano, mi salutavano con educazione, e io ricambiavo con un cenno del capo. Tra tutti, ricordo vividamente una signora che si avvicinò con gentilezza e mi chiese chi stessi aspettando. Le spiegai il motivo della mia presenza, e lei, con un sorriso caloroso, mi disse: “Spero che entri a far parte del Gruppo FS, così potremo collaborare”. Quelle parole, così semplici ma sincere, mi colpirono profondamente. In una giornata che fino a quel momento era stata piuttosto grigia, quella frase fu come un raggio di luce, un momento di calore umano che ancora oggi porto con me.

Sì, dopo tanti anni, di tutto quell’ambiente, ricordo ancora quella sua frase. Perché, per il resto, avevo cancellato dalla mia mente tutto di quella giornata. Ma in qualche modo, la sua gentilezza ha rappresentato l’unica nota positiva di quel contesto arido.

Ah, dimenticavo (parlando della misteriosa stanza): finalmente un impiegato si avvicina e mi conferma che a breve verrò chiamato. D’altronde, ero rimasto l’unico candidato. Alzandomi, gli chiesi se prima di entrare potevo approfittare della stanza accanto per prendermi un caffè. Ed ecco che improvvisamente quell’impiegato – sorridendo – mi apre quella porta, rivelando che all’interno non c’era alcun distributore automatico, ma solo un lettore di badge per convalidare l’orario di lavoro, in entrata e in uscita.

Ah… ora capisco quel viavai di persone intorno alle 16:00: erano lì in fila indiana perché avevano finito il proprio turno!

Mentre attendevo di entrare, ripensavo a quel malinteso, ma soprattutto riflettevo su quanto fosse realmente accaduto. E il mio pensiero non poteva che andare a me stesso, all’incarico che svolgevo in quel periodo come responsabile della Sicurezza, Qualità e Ambiente per un’affidataria di un appalto all’interno del gruppo We Build. Già… Iniziavo in cantiere alle 6:30 e finivo solitamente in ufficio la mia giornata non prima delle 20:00 o 21:00.

E allora, ancora prima di entrare al colloquio, mi sono nuovamente ripetuto: “Nicola, ma cosa cazzo ci fai qui? Lo sai che non è posto per te!”.

Comunque, alla fine, entro, faccio il colloquio, presento il mio CV con le mie qualifiche, referenze ed esperienze nei lavori ferroviari, tra cui alcuni progetti svolti anni prima proprio a Palermo. L’ingegnere con cui colloquio è estremamente sorpreso e, forse per mettermi alla prova, mi chiede con chi avessi collaborato. Gli faccio alcuni nomi, e lui, nel dubbio, mi dice che sono suoi amici intimi. Allora prende il telefono e li chiama. Ovviamente, dall’altra parte del ricevitore, gli interlocutori (di cui non faccio i nomi, ma che ringrazio per le belle parole espresse) non solo confermano quanto dichiarato nel mio CV, ma esprimono sorpresa nel sapere che io fossi lì. Uno di loro scherza persino: “Non credo proprio che verrà… costa troppo!”.

Alla fine, tra saluti e convenevoli di circostanza, qualcuno mi dice che forse sono troppo qualificato per la posizione che avrei dovuto ricoprire e che certamente non era quello che desideravo o che rientrava nelle mie aspettative. In particolare, secondo la persona a cui avrei dovuto eventualmente sottostare, il rischio di affidare a me quel ruolo poteva rivelarsi un boomerang, perché probabilmente avrei potuto dare improvvisamente le dimissioni, costringendo così tutto lo staff a riattivarsi nella ricerca di un nuovo candidato.

Ritorno a casa e, come mi aspettavo, nei giorni seguenti nessuno – a dimostrazione dell’alta professionalità organizzativa – mi ha più fatto sapere nulla: né per iscritto, né tantomeno attraverso vie informali.

La verità? Nessuno voleva che io fossi lì quel giorno! Né chi aveva inviato la convocazione, né quei soggetti che hanno visto in me un potenziale collega difficile da sottomettere e poco disposto a mediare. Soprattutto, non volevano qualcuno disposto a dare a quella società ciò che loro, fino a quel momento, non avevano dato o quantomeno apportato. Del resto, come ripeto spesso, cosa si può chiedere a chi è stato sicuramente "raccomandato"?

Concludo dicendo che questa esperienza mi ha fatto riflettere profondamente su un problema che affligge non solo il mondo del lavoro, ma l’intera nostra società: il sistema delle raccomandazioni. Non è solo un problema per chi cerca lavoro, ma è un cancro che corrode la fiducia nelle istituzioni e nel futuro. Come ha detto qualcuno: “Quando il merito muore, muore anche la speranza di un futuro migliore.

Ci sono individui che godono nell’essere raccomandati, senza rendersi conto del danno che causano. Non solo apportano un basso livello di competenza e professionalità, ma tolgono anche il giusto merito a chi, invece, ha dimostrato di essere migliore attraverso anni di studio, sacrifici e dedizione.

Il raccomandato spesso non ha nulla da offrire se non la propria “impreparazione” e “incompetenza”, e questo crea un circolo vizioso in cui il merito viene messo in secondo piano. È un problema grave che danneggia non solo le aziende private, ma anche gli enti pubblici e quindi l’intera società, perché premia l’ingiustizia e scoraggia chi, viceversa, potrebbe davvero fare la differenza.

E allora, mi chiedo: quando smetteremo di accettare questo sistema infetto? Quando capiremo che il merito deve essere l’unico criterio per accedere a un lavoro o a una posizione?

Perché fintanto che continueremo a tollerare le raccomandazioni, non faremo altro che perpetuare un sistema che premia la mediocrità e penalizza l’eccellenza. E questo, purtroppo, è un problema che va ben oltre Ferrovie dello Stato.

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