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sabato 17 maggio 2025

La criminalità che abita in noi (Parte 2).

Come riportavo ieri, se la criminalità fosse solo violenza, sarebbe più facile da combattere. 

Ma il suo vero potere non sta nelle armi o nei boss con la coppola: sta nella capacità di normalizzarsi, di diventare un pezzo accettato – o quantomeno tollerato – del sistema.

Ecco perché oggi la mafia non spara, ma si siede al tavolo delle trattative. Non minaccia, ma convince e purtroppo, ci riesce benissimo, perché trova una società che, in molti casi, le tende la mano senza nemmeno rendersene conto.

Ma c'è anche un altro grave problema da affrontare: l’ambiguità delle istituzioni, già... perchè Stato e criminalità si sfiorano e non parlo solo di funzionari corrotti o di politici collusi. 

Il problema è più sottile, più radicato: cosa succede quando chi amministra condivide, anche solo in parte, la stessa mentalità di chi delinque?

Pensiamo agli appalti “puliti” ma pilotati: già... un’impresa vicina alla criminalità vince una gara senza infrangere alcuna regola! Semplicemente, gli altri competitor sanno che non conviene partecipare. Nessuno viene arrestato, nessun documento è falso. Eppure, qualcosa non va...

O pensiamo ai politici condannati ma mai dimissionari. Un tempo, un semplice sospetto bastava a mettere fine a una carriera pubblica. Oggi, persino una sentenza definitiva non sempre induce all’esclusione. È un segnale chiaro: il successo – elettorale, economico, sociale – giustifica tutto.

In questo contesto, la criminalità non deve nemmeno faticare per infiltrarsi: basta aspettare che il sistema si adatti ai suoi valori.

Perché la violenza è solo l’ultima ratio; le sparatorie, i cadaveri per strada, i clan che si combattono fanno notizia, fanno paura, fanno scandalo, ma alla fine rappresentano solo la punta dell’iceberg.

Prima di arrivare alle armi, la criminalità organizzata preferisce lavorare nell’ombra, con metodi meno visibili ma infinitamente più efficaci: il consenso, offrire lavoro dove lo Stato manca, distribuire favori, creare dipendenze economiche, entrare nel tessuto sociale attraverso cooperative, fondazioni, attività commerciali.

Ecco quindi l’omertà culturale: non serve minacciare se basta uno sguardo, un silenzio, una frase sussurrata per far capire che “chi fa domande è un problema”. La paura si diffonde senza urla, senza colpi di pistola.

Ecco perché i periodi di “pace” sono spesso ingannevoli: la mafia  non è in crisi, sta semplicemente lavorando meglio che mai, in silenzio.

Come contrastarla? Meno crociate, più competenza!

La lotta alla criminalità organizzata non può affidarsi a slanci emotivi, indignazione a scaglie o commemorazioni retoriche. Serve altro. Serve di più.

Studiare il fenomeno senza pregiudizi: smettiamola di pensare alla mafia come a un gruppo di analfabeti arretrati. È un’organizzazione complessa, flessibile, imprenditoriale. Va studiata con metodo scientifico, con analisi serie e dati reali.

Servono osservatori permanenti, non solo indagini spot  non basta intervenire dopo il danno. Bisogna monitorare in anticipo, intercettare i segnali deboli, formare figure professionali capaci di leggere i territori.

Colpire i valori, non solo i comportamenti: se la società ammira il furbo, il “vincente” a tutti i costi, il “capace di arrangiarsi”, ogni arresto sarà vano. Dobbiamo cambiare linguaggio, cultura, modelli di riferimento. A cominciare dalla scuola, dai media, dal modo in cui raccontiamo il successo.

Ridare dignità alle istituzioni: se lo Stato non è credibile, la criminalità offre alternative. Servono uomini e donne che non siano solo onesti, ma culturalmente immuni alla mentalità mafiosa. Funzionari, dirigenti, politici che non solo rispettino le regole, ma ne siano convinti custodi.

Ecco perché la criminalità siamo noi!!!

Certo, non siamo tutti complici, ma viviamo in una società che, spesso inconsapevolmente, produce mafiosità, accettando quotidianamente piccole illegalità, idolatrando il denaro facile e giustificando chi “ce l’ha fatta a tutti i costi”.

Sì... c'è comunque una buona notizia, perché se il problema è culturale, allora la soluzione può esserlo altrettanto, ma serve una grande rabbia per vedere un cambiamento, ma soprattutto una rabbia quotidiana fatta di scelte concrete e di esempi autorevoli.

Perché non esistono dei mostri da abbattere, ma cè necessità di ricostruire una società: sì... dal basso, dall'alto, dentro ognuno di noi!

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