Non era solo un incontro ufficiale, né una semplice celebrazione diplomatica. Era qualcosa di più profondo: un momento carico di significati spirituali, culturali e umani.
Davanti a lui, un autentico mosaico dell’umanità – 156 delegazioni internazionali, 39 rappresentanze ecumeniche, leader religiosi provenienti da ogni parte del mondo: dal Patriarca Bartolomeo di Costantinopoli al metropolita Nestor per il Patriarcato di Mosca, dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ai massimi esponenti delle fedi musulmane, buddiste, induiste, sikh, zoroastriane e giainiste.
E accanto a loro, volti noti della scena politica internazionale: il presidente Mattarella, il presidente israeliano Herzog, il vicepresidente americano Vance, il presidente ucraino Zelensky. Un crocevia di culture, credenze e visioni del mondo, riunito non per negoziare interessi o stabilire accordi temporanei, ma per ascoltare un messaggio urgente, diretto a tutti, senza distinzioni: la pace non è più una scelta, ma l’unica via possibile.
«Il nostro tempo è segnato da troppe ferite», ha esordito il Papa con voce forte ma pacata. «L’odio, la violenza, i pregiudizi, un sistema economico che sfrutta il pianeta e abbandona i poveri nel silenzio». Parole che non accusano singoli individui, ma denunciano una cultura diffusa, radicata, che sta divorando la società. Una cultura dell’esclusione, dello sfruttamento, della guerra come soluzione facile e immediata. Ed è proprio in questo contesto così fragile e frammentato che la Chiesa sente il dovere di parlare. Non per imporre verità, ma per ricordare all’umanità il suo destino comune: essere una sola famiglia.
«Guardate a Cristo!», ha proseguito il Pontefice. «Accogliete la sua Parola, che non divide ma unisce. In Lui, siamo chiamati a formarci come un’unica famiglia, dove l’autorità non è dominio, ma servizio». Questo è il cuore del messaggio cristiano: non un potere che schiaccia, ma un amore che eleva; non un comando che separa, ma un invito che avvicina. La Chiesa, dunque, non può rimanere muta davanti alle ingiustizie. Deve essere lievito nell’impasto, fermento di fraternità, luce nel buio. Deve diventare, con coraggio e umiltà, il volto visibile dell’amore di Dio per il mondo.
Papa Leone XIV ha poi affrontato uno dei temi centrali del suo magistero: il ruolo del Successore di Pietro. «Pietro non è un condottiero solitario, né un capo che domina dall’alto», ha detto con chiarezza disarmante. «È chiamato a camminare accanto ai fratelli, perché tutti, battezzati, siamo pietre vive di un unico edificio». E qui, con commovente semplicità, ha aggiunto: «Io sono qui senza meriti, con timore e tremore, come un fratello che vuole servire la vostra fede e la vostra gioia». Questo è il nuovo volto del papato: non un trono, ma un servizio; non un palazzo, ma una strada percorsa insieme; non un monologo, ma un dialogo aperto a tutti.
Ma il nucleo più intenso del suo intervento è stato l’appello a un’alleanza globale per la pace. «Questa strada va percorsa insieme», ha dichiarato il Papa, guardando idealmente oltre le mura vaticane, verso un orizzonte ampio e inclusivo. «Con le Chiese sorelle, con le altre religioni, con ogni uomo e donna di buona volontà». Nessuno è escluso da questa chiamata universale, perché la pace non è un privilegio di pochi, ma un diritto fondamentale di tutti. Non c’è pace vera se qualcuno ne è escluso; non c’è speranza se non è condivisa.
E qui il Pontefice ha lanciato una sfida precisa a tutti: superare la tentazione dell’autoreferenzialità. «Non siamo chiamati a chiuderci in noi stessi, né a sentirci superiori», ha ammonito. «Dobbiamo offrire al mondo l’amore di Dio, perché fiorisca un’unità che non omologa, ma valorizza ogni differenza». La pace non è uniformità, ma armonia tra diversità. Non è il livellamento delle identità, ma il rispetto reciproco che permette a ciascuno di donare il proprio talento unico per il bene comune.
La conclusione del discorso è stata una sorta di invocazione profetica: «Con lo Spirito Santo, costruiamo una Chiesa che abbraccia il mondo, annuncia la Parola senza paura, si lascia interrogare dalla storia e diventa lievito di concordia». Parole che indicano una rotta precisa: la Chiesa non può restare immobile, né isolata nei suoi recinti. Deve uscire, andare incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo, accompagnandoli con compassione e verità. Deve farsi spazio di incontro, laboratorio di fraternità, segno visibile di una speranza che non delude.
In un’epoca in cui conflitti antichi e nuovi dilaniano il mondo, in cui divisioni sociali, culturali e religiose sembrano impossibili da colmare, le parole di Papa Leone XIV risuonano come un faro di speranza. Il Papa non parla da un pulpito distaccato, ma da un cuore che palpita per l’umanità intera. La pace, ci dice, non è un sogno irrealizzabile, ma una responsabilità concreta. È qualcosa che si costruisce quotidianamente, con gesti piccoli e grandi, con scelte coraggiose e quotidiane aperture all’altro.
Perché, in fondo, siamo una sola famiglia. E solo uniti potremo cambiare il mondo.
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