Buongiorno. Questa mattina su un social mi sono imbattuto in un’immagine che, con amara ironia, trasformava il mondo in un tabellone di calcio.
Un calendario come quelli della FIFA, ma invece delle squadre nazionali c’erano interi Paesi, alcuni già in guerra, altri in attesa del proprio turno sul campo di battaglia. Un gioco macabro dove il pallone era sostituito da bombe e i tifosi da popoli in fuga.
Quella rappresentazione grottesca mi ha fatto riflettere su come abbiamo normalizzato il conflitto, riducendolo a partita da seguire tra un caffè e un titolo di giornale.
Eppure, dietro ogni "incontro" di quel tabellone maledetto, non ci sono risultati provvisori, ma ferite che non smetteranno di sanguinare. Perché la guerra non è uno sport: quando finisce, non ci sono promozioni o retrocessioni, solo vincitori che presto scopriranno di aver perso qualcosa, e vinti che non dimenticheranno.
Forse il lato più tragico di tutto questo è la rassegnazione con cui accettiamo quel tabellone come fosse inevitabile. Come se l’umanità avesse scelto di giocare a scaricabarile con la propria storia, dove l’unica regola è che prima o laterale, tutti perdiamo.
Quell’immagine ironica, in fondo, non è una caricatura. E' uno specchio, sì... riflette un mondo che ha smesso di chiedersi se vi siano alternative al conflitto, limitandosi a scommettere su quando scoppierà il prossimo.
Già... perché dietro ogni conflitto vi sono ferite mai rimarginate, confini tracciati con il sangue, identità che si definiscono per opposizione. Quello che oggi chiamiamo "crisi" è spesso il risultato di decenni, a volte secoli, di silenzi carichi di rancore, eppure, il mondo sembra aver dimenticato che nessuna guerra finisce davvero con un trattato.
Prendiamo il Nagorno-Karabakh, ad esempio. Per alcuni è solo una striscia di terra contesa, per altri è il simbolo di un’identità negata. Baku e Yerevan continuano a giocare una partita dove ogni mossa è calcolata, ogni ritirata è temporanea, e ogni tregua nasconde la preparazione del prossimo round. Le vittime? Numeri su un bilancio, finché non diventano fantasmi che aleggiano tra le macerie, ricordando a tutti che la pace firmata su una carta non placa gli spiriti di chi ha perso tutto.
E poi c’è lo scontro silenzioso, ma non per questo meno pericoloso, tra Cina e Taiwan. Pechino gioca una partita di pazienza, convinta che il tempo lavori per lei, mentre Taipei resiste, consapevole che un solo passo falso potrebbe significare la fine. I cieli si riempiono di aerei, il mare di navi, e le dichiarazioni ufficiali suonano sempre più come ultimatum. Ma in questa partita, non ci sono spettatori neutrali: il mondo intero è costretto a schierarsi, e ogni mossa avvicina l’intero pianeta a un baratro.
E allora, tornando a quel tabellone ironico, viene da chiedersi: chi vincerà questo torneo? La risposta è semplice: nessuno. Perché nelle guerre non esistono vincitori, solo perdenti che impiegano più tempo a rendersene conto.
Osserviamo quanto accade altresì tra Cambogia e Thailandia che, potrebbe apparire ai più, come un episodio marginale, quasi invisibile rispetto alle cronache quotidiane, eppure racchiude in sé il peso di una storia millenaria, di popoli che hanno condiviso e diviso lo stesso territorio, di sacralità dei luoghi e di identità che si scontrano senza mai davvero incontrarsi.
E proprio quando ci si illude che questi attriti possano restare localizzati, ecco che emergono legami inaspettati: il rapporto tra India e Pakistan, un nodo gordiano che da decenni tiene in scacco l’Asia meridionale e con essa gran parte del sistema internazionale.
Lì, nel cuore del subcontinente, si incrociano religione, identità, acqua, energia e armi nucleari. Un singolo gesto sbagliato, un attentato imprevisto o un errore di comunicazione possono far precipitare due nazioni intere verso un baratro dal quale nessuno uscirebbe indenne.
Le loro dispute territoriali, in particolare per il Kashmir, non sono solo una ferita aperta, ma uno specchio distorto di quel che succede in altre aree del globo, dove il diritto all’autodeterminazione si scontra con la logica della sicurezza nazionale. Così, mentre New Delhi e Islamabad si sfidano a distanza con test missilistici e movimenti militari, altrove si consumano altri drammi simili, sebbene meno visibili.
La Turchia e la Siria, ad esempio, vivono un rapporto complicato, fatto di confini porosi, ingerenze reciproche e visioni opposte sul futuro del Medio Oriente. Ankara cerca di espandere la propria influenza, nonostante le criticità interne, mentre Damasco, ridotta a un frammento di sé stessa dopo anni di guerra civile, tenta di riprendere il controllo del proprio destino, appoggiata da chi vede nella resistenza siriana una forma di legittimità politica.
Nel frattempo, nel Caucaso, Azerbaigian e Armenia continuano a girare attorno allo stesso punto nevralgico: il Nagorno-Karabakh. Dopo il breve conflitto del 2020, che ha visto Baku prevalere grazie a nuove tecnologie belliche e supporto esterno, l’apparente pace è fragile come il vetro.
Le popolazioni locali non dimenticano, né perdonano e ogni volta che un soldato viene ucciso lungo il confine, o un villaggio viene bombardato, si riapre una ferita che nessun accordo diplomatico riesce davvero a rimarginare.
E ancora, nel cuore dell’Asia orientale, il contrasto tra Nord Corea e Sud Corea non accenna a placarsi. Seoul continua a cercare dialogo e aperture, pur mantenendo una rete difensiva poderosa, mentre Pyongyang, isolata ma determinata, insiste nel mostrare la propria forza con lanci di missili sempre più avanzati e minacce dirette.
L’intera penisola coreana è un campo magnetico di tensioni, dove gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e la Russia giocano partite parallele, usando Seul e Pyongyang come pedine in un gioco di potere globale.
Ma forse il fronte più delicato, quello che potrebbe innescare una reazione a catena impossibile da controllare, è rappresentato dalla situazione tra Cina e Taiwan. Pechino non ha mai nascosto la sua volontà di riunificare l’isola sotto il proprio controllo, considerandola parte integrante del proprio territorio, mentre Taipei, forte del sostegno di alcuni Paesi occidentali, resiste con orgoglio e determinazione.
Gli ultimi mesi hanno visto aumentare significativamente le incursioni aeree cinesi nello spazio taiwanese, accompagnate da manovre navali e dichiarazioni sempre più aggressive da entrambe le parti.
Questa non è più una semplice disputa bilaterale: è un punto di incontro tra interessi geopolitici globali, dove Washington e Pechino si misurano quotidianamente, consapevoli che un passo falso potrebbe cambiare il corso della storia.
Persino in Africa, dove i conflitti spesso passano inosservati, le tensioni si accumulano come nubi prima di un temporale. Vedasi il brutale conflitto in Sudan che ha costretto quasi 13 milioni di persone a fuggire dalle proprie case e mentre la violenza continua ad intensificarsi, i civili in fuga cercano disperatamente sicurezza e protezione nei Paesi vicini.
E poi c'è il Sahel, il Corno d’Africa, la regione dei Grandi Laghi: territori dove le frontiere sono state disegnate a tavolino, ignorando tribù, lingue, legami antichi. E quando scoppia la violenza, nessuno riesce più a distinguere tra cause e pretesti. Si combatte per il potere, per le risorse, per la sopravvivenza, ma soprattutto, si combatte perché ormai non si ricorda più come fare altrimenti.
Tutti questi conflitti, apparentemente distanti, sono invece profondamente connessi. Quando uno si accende, gli altri tremano.
E mentre leader e governi parlano di cooperazione e multilateralismo, i fatti raccontano di schieramenti crescenti, di basi militari che si espandono, di alleanze che si rafforzano e di una fiducia reciproca che si assottiglia sempre di più.
Non è detto che tutto questo debba necessariamente sfociare in un conflitto generalizzato, ma non possiamo permetterci di ignorare i segnali che il mondo sta lanciando.
La diplomazia deve tornare a essere strumento prioritario, non solo un discorso da summit annuale.
Perché il vento dell’incertezza soffia sempre più forte e il filo su cui cammina la stabilità globale si fa sempre più sottile.
Ogni bomba che esplode, ogni confine che viene spostato, ogni trattato stracciato, non fa che seminare i semi del prossimo conflitto. E mentre i leader parlano di "vittoria" o "pace duratura", da qualche parte, un bambino cresce con l’immagine di una casa distrutta, e impara che la giustizia si ottiene solo con la forza.
Come dicevo sopra, invece di un tabellone, avremmo bisogno di uno specchio, per ricordarci che dietro ogni bandiera, ogni strategia, ogni discorso politico, ci sono persone che chiedono solo una cosa: vivere senza paura. Ma finché continueremo a vedere il mondo come un campo di battaglia, anziché come una casa comune, quel desiderio resterà ahimè un’utopia.
E il torneo continuerà, senza vincitori, ma con milioni di sconfitti!
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