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venerdì 30 maggio 2025

Altro che James Bond: la mafia non ha bisogno di "auto subacquee", quando ha il porto di Catania!

Altro che James Bond, 007, auto trasformabili in sottomarini, la droga entrava nell’isola dal Porto di Catania!

Secondo le indagini e quanto rivelato da alcuni affiliati dei clan mafiosi, e a conferma di quanto avevo riportato quest’anno nel mio post intitolato "Droga a quintali in Sicilia: il controllo del territorio che non c’è!" al link https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/04/droga-quintali-in-sicilia-il-controllo.html a cui faceva seguito un altro post dello scorso anno intitolato "Controllo del territorio in Sicilia??? Manca - secondo il sottoscritto - un serio coordinamento!!!" al link https://nicola-costanzo.blogspot.com/2024/01/controllo-del-territorio-in-sicilia.html ecco che arriva - ahimè - l’ennesima dimostrazione, sì... di quanto i controlli siano spesso un’illusione, una fragile cortina dietro cui si muovono interessi ben più concreti e soprattutto più sporchi.

Perché la mafia non ha bisogno di gadget fantasiosi o di operazioni degne di uno spy movie quando può contare sulla complicità di chi quelle strutture le gestisce davvero, sui silenzi di chi sa e non parla, sulle porte lasciate aperte da chi avrebbe il dovere di vigilare, e allora viene in mente quella frase di Falcone, "dove c’è la natura umana c’è rischio di corruzione"!

Perché è proprio questo il punto, non servono minacce o intimidazioni quando basta un vantaggio, una raccomandazione, un tornaconto personale per far sì che tutto scorra liscio, come l’acqua tra le fessure di un molo, come la cocaina che arriva dal Sud America e passa indisturbata tra container e documenti falsificati, con la regia di chi lavora dentro quel porto e sa esattamente come evitare i controlli...

Già... come cambiare telefono prima che qualcuno possa intercettare, come usare auto intestate ad altri per non lasciare tracce, perché il vero potere della mafia non sta nella violenza ma nella capacità di infiltrarsi nel quotidiano, di normalizzare l’illecito, di far sembrare inevitabile quello che invece è solo il frutto marcio di una società che troppo spesso abbassa la testa e accetta!

Non importa che si tratti di un impiegato che chiude un occhio, di un professionista che sistema le carte, di un cittadino che preferisce non vedere, l'importante è che il sistema regga ai controlli, non grazie alla paura ma grazie alla connivenza, alla rassegnazione, a quella mentalità per cui "tanto è sempre stato così"...

E così, mentre le indagini della Guardia di Finanza portano alla luce arresti e sequestri, milioni di euro e chili di droga, la domanda vera che dovremmo porci è: quanti altri porti funzionano così? Quanti altri traffici scorrono indisturbati? Quanta altra cocaina arriverà prima che qualcuno decida davvero di cambiare le cose? 

Perché la mafia non è un mostro lontano, è qui, tra noi, nelle piccole cose che accettiamo, nelle complicità che non denunciamo, nell’indifferenza che ci rende complici, e forse è proprio questo il vero male, più della droga, più dei soldi sporchi, più delle pistole, quel silenzio che uccide ogni speranza di giustizia.

giovedì 29 maggio 2025

"Donne che odiano le donne"!

Ero rimasto ai romanzi della serie Millennium dello scomparso Stieg Larsson, in particolare a quel suo primo, potente titolo: "Uomini che odiano le donne".

Eppure, incredibilmente, la realtà che osservo oggi è capovolta. Perché ciò che accade non è solo assurdo, ma tragicamente emblematico: il sesso femminile, invece di proteggere il proprio genere, spesso lo ostacola. Sì, avete letto bene. E la politica, quella siciliana in particolare, ne è la prova più grottesca.

Non è un caso isolato. I numeri parlano chiaro, e ciò che dicono è spietato. Prendiamo il tema della rappresentanza di genere: la Commissione Affari Istituzionali ha inserito norme che impongono il 40% di presenza femminile nelle Giunte delle Città Metropolitane e dei Liberi Consorzi. Una misura lodevole, in teoria. Ma quando si scava nei dati, emerge una verità scomoda: le donne non votano le donne.

Prendiamo come esempio le ultime Elezioni provinciali di Catania, svoltesi con un sistema di voto riservato ai consiglieri comunali e ai sindaci. Nonostante un’elevata partecipazione femminile tra gli elettori – il corpo elettorale era composto da 760 unità, pari al 94,64% degli aventi diritto – il risultato è stato sorprendentemente squilibrato: su 18 eletti, solo 3 sono donne.

Questo dato evidenzia una clamorosa discrepanza tra la rappresentanza femminile nell’elettorato attivo e quella negli eletti, sollevando interrogativi sulle dinamiche che hanno portato a questo esito.

Ma d'altronde, come dimenticare le elezioni regionali siciliane di qualche anno fa? Su 4.606.564 elettori – con una maggioranza femminile di oltre 132.000 unità, solo 15 donne sono riuscite a farsi eleggere in Consiglio Regionale. Gli uomini? Ben 55.... e la disparità non si ferma lì: sindaci, assessori, consiglieri, dirigenti di partito... le donne sono una goccia in un oceano di potere maschile.

La colpa? Certamente del sistema, di quella casta politica che da generazioni si tramanda le poltrone come eredità di famiglia, lasciando poco spazio a chi cerca di entrarci, figuriamoci se è una donna.

Hanno provato a correggere la rotta con il voto di trascinamento, un meccanismo che dovrebbe favorire le candidate. Ma è solo un palliativo, un trucco per far credere che qualcosa cambi. Intanto, il vero problema rimane: un sistema elettorale marcio, che svuota di senso il voto dei cittadini. Non è un caso se l’astensionismo cresce.

E a chi sta seduto su quelle poltrone da decenni, cosa importa? Nulla. Assolutamente nulla. Lo dimostrano ogni giorno, gestendo questo Paese con lo stesso vecchio copione: clientelismo, malaffare, corruzione, voto di scambio. Abusi di potere che distruggono ogni fiducia nella politica.

E le donne? Purtroppo, molte di loro, invece di rompere questo circolo vizioso, lo alimentano. E il paradosso diventa tragedia.

mercoledì 28 maggio 2025

Sicilia: quando la burocrazia diventa una tassa sul futuro!

Qualche giorno fa vi ho raccontato dei numeri che gridano ingiustizia. 

Lo stesso ho visto che ha fatto Il Sole 24 Ore che ha messo nero su bianco quanto avevo riportato: la Sicilia non è solo un’eccezione, è un autogol annunciato. 

E così, mentre il resto d’Italia semplifica, qui moltiplichiamo ostacoli. Già... mentre altrove si incentiva, qui si tassa persino l’intenzione di investire.

Ed allora analizziamo i conti che non tornano (o dovrei aggiungere: che uccidono le imprese).

Difatti, la LR 1/2025 non è un aggiornamento, è un salasso mascherato da progresso:

+1.900% per una "valutazione preliminare" (da 300 a 6.000 €).
  • Fino a 20 volte il costo di altre regioni per la stessa procedura.
  • 12.000 € solo per dimostrare di aver rispettato le regole (le famigerate verifiche di ottemperanza a 4.000 € a fase).

Ma almeno i controlli sono migliori"

No. Come ha denunciato il Dott. Alfio Grassi, Presidente del Consorzio Pietra Lavica, questi oneri sono solo un bancomat per l’autofinanziamento della burocrazia. Il paradosso? In Lombardia un’impresa virtuosa paga meno. In Sicilia, più rispetti l’ambiente, più ti puniscono.

C'è poi la beffa delle "nuove voci"...

Nove nuove tasse nate dal nulla. Come il "supplemento Sicilia" per il recupero ambientale: paghi per estrarre, poi paghi per riparare, e infine paghi per dimostrare che hai riparato. Un circolo vizioso che trasforma il ripristino ecologico in un lusso per pochi.

Il confronto che brucia:

- Via/Paur: 30.000 € in Sicilia, 2.000-9.000 € in Piemonte o Campania.

- Verifica di assoggettabilità: da noi il 2‰ del valore dell’opera, in Toscana lo 0,25‰, in Lombardia addirittura lo 0,05‰.

- Ottemperanza: qui 4.000 € a fase; altrove, gratis.

E poi qualcunio dei nostri governanti regionali e aggiungerei nazionali si chiede: "perché le imprese siciliane scappano?".

Ahimè... la verità è nota a tutti, soprattutto ai miei connazionali, che purtroppo continuano a sostenere (per proteggere i propri interessi...) chi, invece, meriterebbe ben altro trattamento.

Perché non è (soltanto) una questione di soldi, è un segnale politico chiaro: la Sicilia preferisce dissuadere anziché attrarre. Mentre le altre regioni concorrenti usano tariffe ragionevoli come leva per lo sviluppo, qui da noi viceversa, alziamo muri. 

Il risultato? Semplice,  400 imprese da 400 milioni di fatturato, rischiano di diventare un ricordo...

C'è sempre una domanda comunque che resta sospesa: Perché accettiamo di essere il fanalino di coda delle politiche ambientali? Perché trasformiamo l’ecologia in un privilegio per ricchi invece che in un’opportunità per tutti?

Sì...  mi fa piacere aver letto che anche il "Sole 24 Ore" mi dà ragione. Ma puntroppo non basta...

Serve una revisione immediata di questa legge, prima che il danno diventi irreparabile, perché il vero "costo ambientale" è quello di uccidere il futuro della Sicilia!



martedì 27 maggio 2025

SCANDALO: Fondi rubati alla Sicilia per finire al Nord! E il Governo Regionale? MUTO davanti alle promesse tradite!

Ho ascoltato ieri l'ennesimo notiziario pubblicato su una pagina social di "Tik Tok" al link: https://vm.tiktok.com/ZNdkdLWDj/  dove si faceva riferimento agli ennesimi tagli dei fondi destinati alla Sicilia che ahimè sono stati destinati verso il nord Italia!!!

Nel leggere notizie come queste mi chiedo come sia possibile che molti di quei lacchè, tra i miei conterranei, votino ancora per quei partiti attualmente posti al governo nazionale che dimostrano in maniera chiara che ci stanno derubando!

Ma d'altronde li ho visti, qualche anno fa, sì... quando posti in fila chiedevano (sembrava di essere ai tempi di Maria Antonietta, regina di Francia, quando - si dice - pronunciò quella sua famosa frase"se non hanno pane, dategli le brioches"; sappiamo come nuovi studi abbiano affermato che la frase sia stata originariamente utilizzata in un romanzo di Rousseau per rappresentare il disprezzo dell'aristocrazia e quindi di quell'allora governanti nei confronti del popolo, molto prima della nota "Rivoluzione"...) e come adulatori in maniera servile, aspettavano che quegli individui porgessero loro un saluto, una stretta di mano o ancor peggio, firmassero (quelle fotografie stampate, consegnate a modello "santino") loro... l'autografo!!! 

Ma di chi poi? Ditemi... ma chi caz... sono questi soggetti per desiderare un loro autografo? Credetemi sulla parola, a vedere ciascuno di loro mi è venuto il vomito, ero presente casualmente in una Hall d'Albergo quando, appoggiato a un pilastro, osservavo la servile meschinità umana, sì di tutti quei soggetti, "leccapiedi"... per non voler esser più scurrile!

E questo è il ringraziamento per le preferenze concesse a quei soggetti, le stesse che hanno permesso loro di sedere in quelle poltrone a Roma per governarci!!! Ed allora, rivolgendomi a quei miei conterranei: mi raccomando, la prossima volta mettetevi in fila, fate le corse in quelle urne per consegnare a loro la vostra preferenza!!!

Minc.... ho sempre pensato sin da ragazzo con orgoglio di essere siciliano, di poter dire, io mio sento come un Leone, una Tigre, aggiungerei un Gattopardo! Ma crescendo e osservando il mondo che mi circonda, mi sono accorto come negli anni, quelli che erano come il sottoscritto, si sono piegati al sistema, ai compromessi, alle regole, alle bustarelle, già... al malaffare, ed oggi, ecco che mi ritrovo circondato da sciacalletti, iene, e da questi nuovi politici nazionali, imitazioni di quelli che furono i gattopardi, insieme a tutti questi sciacalli e pecore, che - per una congiuntura terribile - si sentono di essere il sale della terra!     

E così i nostri miliardi se ne vanno in silenzio, sì come nella mia immagine di sopra, insieme alla cenere dell'etna,  (già... perché quanti avrebbero docuto ribellarsi da Palazzo D'Orleans, sono gli stessi a cui è stata data loro quella poltrona...) e così le opere che dovevano essere compiute con quel nostro denaro, se ne vanno in fumo...

Parliamo ad esempio del collegamento ferroviario veloce tra Palermo e Catania che non è solo fermo, ma ormai sembra cancellato ancora prima di partire. La notizia del ritardo nella consegna - inizialmente prevista per giugno 2026 - è stata bruciata da un colpo ancora più duro: i fondi del Pnrr destinati al progetto sono stati dirottati verso altre regioni. Lo annuncia con forza Anthony Barbagallo, segretario regionale del Pd Sicilia: "Un treno che non parte neanche sulla carta".

Ma a chi dare la colpa? Per Barbagallo, il presidente della Regione Schifani si muove sempre troppo tardi, e quando lo fa, preferisce scaricare le responsabilità sui dirigenti regionali piuttosto che ammettere il fallimento di una gestione politica inefficiente: "Schifani – accusa – anziché convocare tardivamente i direttori generali, dovrebbe iniziare ad assumersi le sue responsabilità. I fondi vengono spostati perché altre Regioni si sono dimostrate più pronte, efficienti e capaci di programmare. Noi no". 

Non ha tutti i torti il segretario regionale del Pd Sicilia, Anthony Barbagallo, nel ricordare che i vertici della burocrazia siciliana non nascono da scelte meritocratiche: Sono spesso espressione di logiche clientelari, dove contano più gli equilibri interni alle coalizioni che la competenza. Basti pensare al caso del capo della Pianificazione strategica, legato allo scandalo dei referti falsificati a Trapani e tuttora in carica, nonostante le richieste di rimozione. Mentre Schifani improvvisamente si sveglia dal torpore per criticare i suoi stessi collaboratori, non ha esitato a espandere l’organico dell'Ufficio Cerimoniale da 24 a oltre 100 unità. Una scelta paradossale, che dice molto su priorità e visione.

A denunciare il caos è anche Roberta Schillaci, vicecapogruppo M5S all’Ars: “Questa settimana niente lavori in Aula, il governo manca all’appello mentre la Sicilia affonda. Sanità in crisi, lavoro precario, infrastrutture abbandonate. L’ultimo colpo arriva proprio dalla decisione di sfilare i fondi Pnrr alla tratta Palermo-Catania per destinarli altrove. È indecente, ma forse ‘indecente’ non basta. Chiediamo da mesi un confronto sullo sfascio della sanità, ma il governo continua a occuparsi d’altro. Dopo quattro mesi, non c’è nemmeno il direttore generale dell’Asp di Palermo. Quando finalmente Schifani smetterà di litigare con la sua maggioranza e tornerà in aula"?

Ketty Damante, senatrice M5S e membro della commissione Bilancio, aggiunge: “Se sognate un treno veloce tra Palermo e Catania, dimenticatevelo. La scure del ministro Foti si abbatte sulle già fragili infrastrutture siciliane. Mentre si illude con il Ponte sullo Stretto, qui tagliano 37 chilometri di alta velocità. I fondi Pnrr non saranno spesi in tempo, quindi tanto vale spostarli. Peccato che così dovranno essere presi da altri progetti, magari già programmati. Il risultato? Nulla si salva”.

Per Pino Gesmundo della Cgil, il problema è strutturale: “Salvini, più che 'quello del fare', sembra 'quello del non fare'. Se avesse investito energie nel Pnrr invece che su un’opera simbolo come il Ponte, oggi staremmo meglio. Al Consiglio dei Ministri si è discusso della revisione del Piano, evidenziando i numerosi ritardi nelle opere strategiche: Palermo-Catania, Salerno-Reggio Calabria, Terzo Valico... ovunque, solo ritardi”.

E Jose Marano, deputata M5S e vicepresidente della commissione Territorio all’Ars, conclude amaramente: “Dall’alta velocità all’alta incapacità il passo è stato breve. Due lotti fermi, promesse svanite. Ora i cittadini pagheranno il prezzo di una gestione pasticciata. Le motivazioni ufficiali? Siccità e mancanza di operai specializzati. Ma questa è una beffa. Non ci sarà nessun treno veloce entro il 2026 e bisognerà trovare nuovi fondi, sottraendoli ad altri interventi. Qualcuno dovrà rispondere di questo danno enorme per la comunità”.

E la Sicilia aspetta, ancora una volta. Mentre le promesse si trasformano in cenere, proprio come quella che sale dal nostro Etna e si disperde nel vento, mentre i treni, ahimè, restano fermi in stazione.

lunedì 26 maggio 2025

Sicilia: perché gli oneri di istruttoria sono così più alti che nel resto d’Italia?

Scusate, ma qualcuno può spiegarmi perché in Sicilia paghiamo oneri di istruttoria così sproporzionati rispetto alle altre Regioni? Partiamo dai fatti, perché i numeri parlano chiaro e purtroppo gridano ingiustizia.

Con la L.R. 09/01/25, n. 1, la Regione Siciliana ha aggiornato (o dovremmo dire "gonfiato"?) gli oneri per le autorizzazioni ambientali, superando persino le già pesanti tariffe introdotte nel 2022. 

Non solo: ha aggiunto nuove voci di costo per sub-procedure che, di fatto, strangolano le piccole e medie imprese. Risultato? Investire in Sicilia diventa un lusso, mentre nel resto d’Italia è una pratica sostenibile.

E qui viene il bello: mentre un’impresa con certificazione ambientale in Lombardia o in Veneto ottiene sconti consistenti, in Sicilia paga fino a 20 volte di più per la stessa procedura. E non è tutto: qui si pagano persino voci assenti altrove. Come se la burocrazia regionale avesse inventato un "supplemento Sicilia" per scoraggiare chi vuole fare impresa.

Ne ho parlato con il Dott. Alfio Grassi, Presidente del Consorzio della Pietra Lavica, e la sua risposta è stata netta: "La CTS ha usato gli oneri di istruttoria non per garantire controlli migliori, ma come bancomat per autofinanziarsi, ignorando l’impatto sulle imprese." Il risultato? Aziende costrette a rinunciare o a diventare meno competitive".

E il danno non è solo economico. Nei siti di cava dismessi, i progetti di ripristino - già vincolati da garanzie finanziarie - rischiano di arenarsi per i costi aggiuntivi. Senza contare le verifiche di ottemperanza: 4.000€ a istanza, moltiplicati per tre fasi (ante-operam, corso d’opera, post-operam), diventano 12.000€ solo per dire "sì, abbiamo rispettato le regole".

Una domanda sorge spontanea: perché la Sicilia deve essere un’eccezione… ma nel peggiore dei modi? Se altrove si punta a semplificare e incentivare, qui si alzano muri di costi. E mentre le imprese nazionali beneficiano di tariffe ragionevoli, quelle siciliane vengono dissuase a investire nel proprio territorio.

È ora di chiedere una revisione immediata di questo tariffario. Prima che l’unico messaggio che passa sia: "Fate impresa altrove".

domenica 25 maggio 2025

Delitto Garlasco: quante anomalie hanno davvero segnato le indagini?

Ascoltare in TV, dopo tutti questi anni, della riapertura delle indagini lascia più che basiti...

Si parla di nuove prove scientifiche, di "anomalie investigative", di richieste per annullare l’archiviazione e riesaminare altri indagati. Tutto questo, ovviamente, contrastato dai legali delle due parti che, da un lato, invocano "l'oggettività dei fatti" e dall'altro mettono in guardia da "narrazioni diffamatorie" verso chi firmò quella sentenza.

Eppure, nonostante i 16 anni inflitti ad Alberto Stasi, eccoci ancora qui a discutere di tracce biologiche riesaminate dal RIS. Secondo le nuove indagini, qualcosa non ha funzionato. Prendiamo il materiale del 2007: la traccia n. 10 (quella del "complice" mai approfondita), l’impronta n. 33 (sangue o non sangue?), o la scandalosa negligenza del carabiniere senza guanti - un dettaglio da fiction poliziesca - ma tragicamente reale.

Caz... basti osservare qualsivoglia serie crime televisiva per vedere che non bisogna mai entrare nella scena del crimine, ma solo adoperarsi a limitare l'ingresso, sì… a chiunque, fintanto non giunga la Polizia Scientifica e poi, tutti sanno, anche i bambini, che - seppur sbagliato - nel caso in cui si decida arbitrariamente di inquinare la scena, quantomeno, ci si deve adoperare con guanti alle mani e se possibile, sacchi in PVC alle scarpe!

Basterebbe osservare un episodio di CSI per capire che non si tocca una scena del crimine, men che meno senza protezioni. E invece, nella villetta di Garlasco, qualcuno ha lasciato impronte nitide (le n. 37, 44, 46) proprio sulla scala.

Riprendendo le altre impronte presenti: ma voi pensate davvero che un assassino sarebbe così stupido da marcare il muro a mani nude? O forse - e qui la mia mente da "profiler" autoproclamato (grazie alle mie figlie, Emanuela e Alessia...) s’incupisce; sì... ritengo alquanto ambigua la circostanza che un assassino lasci un'impronta così evidente, in maniera palesemente chiara sulla parete di quell'unica scala; mi sembra qualcosa d'illogico o meglio ancora, quanto accaduto dimostra che l’omicidio è da considerarsi non premeditato, e che forse l'esito letale ha superato l'intenzione.

Ma al di là delle condanne, c’è un nodo che mi tormenta: il movente!

Perché uccidere Chiara Poggi? Cosa aveva scoperto? Se in quella casa non vi sono impronte di estranei, allora l’assassino era qualcuno che la frequentava? Gli investigatori hanno verificato chi, nel mese prima, era sceso da quella scala? Hanno confrontato il DNA di tutti i possibili frequentatori con le tracce rinvenute? Se il numero degli "autorizzati" era esiguo, allora forse la verità è più vicina di quanto sembri...

Non so cosa, ma qualcosa non torna. E mentre i media ripropongono la solita narrazione, io continuo a chiedermi: e se avessero guardato nella direzione sbagliata fin dall’inizio?

Il sottoscritto difatti un’idea se l’è fatta ( e potrei anche - perdonate la presunzione - aver indovinato il movente...), ma purtroppo – per ragioni che, in questo paese, finiscono troppo spesso in tribunale – preferisco tenermela per me.

Dopotutto, quando la verità fa più paura della finzione, persino un’ipotesi diventa… un capo d’accusa.

sabato 24 maggio 2025

"La mafia avrà una fine"? Forse, ma non grazie a Voi!

Sì... lo so... la frase corretta avrebbe dovuto essere: "La mafia avrà una fine"? Forse, ma non grazie a noi!

Ho ascoltato le parole pronunciate durante le commemorazioni della strage di Capaci, l’eccidio che costò la vita al magistrato Giovanni Falcone, alla sua collega e compagna Francesca Morvillo, e agli agenti della scorta.

E come accade ogni anno – siamo giunti al 33° anniversario – risuona la solita frase del giudice Falcone: "La mafia, come ogni fatto umano, ha avuto un inizio e avrà anche una fine!".

Già... lo ripeteva spesso, il giudice. Sollecitando coerenza, impegno educativo, spronando la società a fare la propria parte. Soprattutto gli uomini e le donne delle istituzioni, a ogni livello.

E così, anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto ricordare l’importanza di "tenere sempre alta la vigilanza, coinvolgendo le nuove generazioni nella responsabilità di costruire un futuro libero da costrizioni criminali". Ha aggiunto: "La mafia ha subìto colpi pesantissimi, ma all’opera di sradicamento va data continuità, cogliendo le sue trasformazioni, i nuovi legami con attività economiche e finanziarie, le zone grigie che si formano dove l’impegno civico cede il passo all’indifferenza".

Sì... belle parole...

Ma quando osserviamo le riforme approvate dai vari governi, le norme che di fatto tutelano il malaffare invece di contrastarlo...

Quando scopriamo l’assenza di provvedimenti contro funzionari collusi, pubblici ufficiali infedeli, corrotti che lavorano indisturbati a libro paga...

Quando la politica protegge i propri referenti anziché consegnarli alla giustizia...

Quando si mercanteggiano poltrone (parlare di dignità, qui, sarebbe grottesco) in cambio di voti pilotati dalla stessa criminalità che si dice di voler combattere..."

Beh, a sentire tutta questa retorica sterile, capisco perché chi ha davvero combattuto la mafia ne ha pagato il prezzo, mentre chi si è limitato a parlarne è ancora lì, a recitare proclami.

La mafia? È ovunque, e lo sappiamo!

La verità è che la mafia – contrariamente a quanto ci raccontano – è presente in ogni piega della società!

Comincia piazzando i suoi uomini nei consigli comunali, provinciali, regionali, per poi spingerli a livello nazionale. Dirigenti nominati negli enti pubblici, ospedalieri, universitari, ordini, etc... Persino nella magistratura, dove il sistema massonico-clientelare decide chi sale e chi scende.

Ai cittadini restano le briciole. Se stanno zitti, ubbidienti, se rispettano le regole del gioco, se sanno a chi rivolgersi per risolvere i problemi, allora anche quel sistema "parallelo allo Stato" si prende cura di loro.

Il meccanismo è semplice...

Cerchi un lavoro? Non servono curriculum. Ci pensano loro a raccomandarti. Che tu sia competente o totalmente incapace (ormai la norma) non importa. L’importante è che obbedisci, chiudi un occhio (o due), ti sporchi le mani. E se ti comporti bene, arriverà anche la tua bustarella.

Negli appalti aggiudicati ci sono sempre loro, con le loro società "limpide". Ah, già: quelle società sono controllatissime, figurano persino nella whitelist!

Hai un’urgenza ospedaliera? La fila è per i fessi – come me, te e pochi altri. Gli altri cercano l’amico dell’amico che bypassa il triage, perché le liste d’attesa prioritarie sono solo per chi non ha santi in paradiso.

E lo stesso vale per una pratica protocollata, un nulla osta, un’autorizzazione, una richiesta ufficiale, un parere favorevole, una verifica di documento. Per ogni "pratica in lavorazione", "approvazione pendente", "documentazione respinta per motivi formali", "pratica archiviata".

Finiamola quindi con i teatrini.

Tutti questi individui – proprio quelli che Falcone esortava a "fare la propria parte" – invece si mettono al servizio del sistema marcio. Sono gli uomini e le donne delle istituzioni, a ogni livello, che permettono tutto questo.

Quindi, basta commemorazioni ipocrite: portiamo vero rispetto ai caduti della lotta alla mafia, ai testimoni di una giustizia che pochi oggi ricordano - e ancora meno hanno il coraggio di praticare!"

venerdì 23 maggio 2025

Tutto come al solito: un altro sindaco con le mani nel sacco!

C’è qualcosa di marcio, come sempre, dietro la facciata pulita della politica.

L’ennesima prova arriva da un’operazione che ha scoperchiato un sistema fatto di mazzette, favori e giochi sporchi, dove il confine tra istituzioni e malaffare diventa sempre più sottile, quasi invisibile. 

Un sindaco, un tempo considerato una promessa, colto in flagrante mentre intascava denaro in un ristorante. Soldi che - secondo l’inchiesta - rappresentavano solo l’ultima tranche di un accordo più grande, una tangente pattuita per garantire appalti, per assicurarsi che tutto girasse come doveva girare.

E non è solo lui. Intorno, una rete di collaboratori, imprenditori, faccendieri, ognuno con il suo ruolo in questa macchina ben oliata. Soldi nascosti ovunque: nelle tasche, dentro un panettone, persino dentro un tavolo da biliardo! 

Come se il denaro sporco potesse davvero sparire, svanire nel nulla, invece di lasciare tracce ovunque. Eppure, stranamente, questi soggetti continuano a farlo, come se fossero immuni, come se la legge non li riguardasse, come se il rischio di essere scoperti fosse solo un dettaglio trascurabile rispetto al guadagno, al potere, alla certezza di poter comprare tutto, anche la giustizia.

Poi c’è il fiduciario, quello che fa da tramite, quello che sa muoversi nell’ombra, quello che forse credeva davvero di poter sfuggire al controllo, di poter nascondere l’evidenza in un mobile, in un gesto, in un silenzio. Ma i soldi hanno un odore, lasciano una scia. E quando il sistema decide di far crollare il castello, tutto viene fuori, anche ciò che sembrava sepolto.

E intanto, mentre qualcuno finisce in carcere e qualcun altro trema nell’ombra, la domanda rimane sospesa nell’aria: quanti altri sono ancora lì, nascosti, intoccabili, pronti a ripetere le stesse trame, gli stessi abusi, le stesse manovre che avvelenano la politica?

Perché alla fine, come ho sempre detto, il problema resta lo stesso: quando la politica si piega al denaro, smette di servire il pubblico e comincia a servire solo se stessa. E quel male, quello vero, che divora le comunità, che legittima la corruzione e alimenta la criminalità, continua a crescere indisturbato, silenzioso ma implacabile.

Io, da parte mia, resto in attesa della prossima inchiesta che porterà alla luce altri nomi, altre verità, altri sindaci. Non ci vorrà molto, ne sono certo. Perché il cerchio… si sta per chiudere. E quando accadrà, spero che saremo pronti a guardare in faccia la realtà e a chiederci: cosa abbiamo fatto per cambiarla? Cosa faremo per impedire che accada ancora? 

giovedì 22 maggio 2025

Il sistema che non tace: dimissioni, appalti e verità nascoste...

Giorni fa avevo pubblicato un post intitolato: Il vento della giustizia: perché molti politici stanno abbandonando in queste ore?

Lo trovi qui: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/03/dimissioni-in-massa-giustizia-alle-porte.html

Successivamente, il 21 marzo scorso, avevo scritto un altro intervento dal titolo: Dimissioni in massa: giustizia alle porte?

Puoi leggerlo a questo link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/03/dimissioni-in-massa-giustizia-alle-porte.html

In quel secondo contributo, chiudevo con una domanda aperta: E tu, cosa ne pensi? Credi che sia solo coincidenza o che ci sia qualcosa di più sotto la superficie?

Oggi, però, una notizia firmata da Saul Caia, pubblicata su "Il Fatto Quotidiano", sembra dare una risposta tangibile a quel dubbio. L’inchiesta della Procura di Agrigento sta facendo emergere dettagli inquietanti su presunte tangenti legate a pubbliche forniture, coinvolgendo figure di spicco del panorama politico siciliano.

L'articolo è disponibile qui: https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/05/21/agrigento-

Riprendendo quindi quanto espresso nei miei precedenti post, non posso fare a meno di collegare quelle riflessioni all’attualità dei fatti. Il sospetto che dietro le dimissioni di tanti esponenti politici si celassero avvisaglie di inchieste in corso, oggi appare sempre più fondato.

Già... il vento della giustizia, forse, sta iniziando a soffiare forte!

In queste settimane, da nord a sud del Paese, assistiamo a un fenomeno che lascia molti cittadini perplessi, scettici e talvolta persino indifferenti. Politici, dirigenti di assessorati, funzionari pubblici e figure di spicco delle istituzioni stanno rinunciando ai propri incarichi, spesso senza fornire spiegazioni convincenti o addirittura con comunicazioni fredde e formali. Dimissioni improvvise, apparentemente sincronizzate, che sembrano suggerire che qualcosa di significativo stia accadendo dietro le quinte del potere. Ma cosa si nasconde davvero dietro queste uscite? È possibile che si tratti solo di coincidenze, o c’è qualcosa di più profondo?

C’è chi parla di un semplice ricambio generazionale, chi di scelte personali dettate da motivazioni private, e chi invece vede in queste dimissioni un segnale di cambiamento, forse perfino l’inizio di un’epurazione silenziosa. Indagini giudiziarie, inchieste giornalistiche e pressioni esterne potrebbero aver costretto alcune figure a fare un passo indietro prima di essere travolte da scandali. Si fa strada l’ipotesi che qualcuno o qualcosa stia portando alla luce scheletri nell’armadio, notizie compromettenti che spingono questi personaggi a farsi da parte prima che sia troppo tardi. Ma è davvero così semplice?

Prendiamo ad esempio quanto emerso di recente a proposito di un ex assessore all’energia e industria della Sicilia, ora indagato nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Agrigento. L’accusa è pesante: associazione per delinquere finalizzata al reperimento e alla distrazione di risorse pubbliche, attraverso meccanismi spartitori di appalti, progettazioni e incarichi amministrativi. Secondo gli inquirenti, egli avrebbe agito in concorso con pubblici funzionari e imprenditori compiacenti, orchestrando un sistema che ha permesso di aggiudicarsi lavori milionari. 

Un sistema che, secondo l’accusa, non solo ha favorito interessi privati, ma ha anche contribuito a creare un intreccio di corruzione e condizionamento che coinvolgeva dirigenti, progettisti e funzionari pubblici. Non si tratta solo di un caso isolato, ma di un esempio lampante di come la politica possa diventare terreno fertile per interessi malsani, che vanno ben oltre il semplice clientelismo.

È difficile non vedere in tutto questo un meccanismo perverso, un circolo vizioso che lega politica e imprenditoria in un abbraccio mortale. Da una parte, ci sono imprenditori che foraggiano la politica per ottenere favori, appalti e privilegi; dall’altra, ci sono politici che utilizzano il proprio potere per alimentare questo sistema, garantendo vantaggi a pochi a discapito di molti. 

E non parliamo solo di criminalità organizzata, anche se quella gioca certamente un ruolo importante. Parliamo di un sistema che permea una parte dell’apparato istituzionale, dalla classe politica fino alla struttura pubblica, dove funzionari e dirigenti possono essere coinvolti in pratiche che compromettono la trasparenza e la correttezza dell’amministrazione. Un sistema che, purtroppo, sembra resistere nel tempo, adattandosi alle circostanze e mutando forma, ma sempre pronto a riemergere quando le condizioni lo permettono.

Ma allora, queste dimissioni rappresentano davvero un passo verso la giustizia? O sono solo un tentativo di salvare la faccia, lasciando intatti i meccanismi di potere che hanno permesso certi comportamenti? È una domanda difficile, e la risposta non è scontata. Da un lato, c’è chi spera che queste uscite siano il segno di un cambiamento in atto, un segnale che la magistratura e l’opinione pubblica stanno mettendo sotto pressione chi, fino a ieri, sembrava intoccabile. Dall’altro, c’è il timore che si tratti solo di una manovra per evitare il peggio, un modo per far tacere scandali senza affrontare le vere cause del problema.

Una cosa è certa: il cittadino osserva, aspetta e pretende risposte. Perché ogni dimissione non è solo un addio, ma un’opportunità per riflettere su come vogliamo che siano gestiti i nostri interessi e su chi merita davvero di rappresentarci. 

Dietro ogni politico che si dimette, c’è una storia che va oltre la persona stessa. C’è un sistema che spesso premia chi sa navigare tra interessi privati e pubblici, chi riesce a muoversi in quel confine grigio dove le regole sembrano elastiche e i principi negoziabili. Ma c’è anche una società che, forse lentamente, sta iniziando a chiedere conto di tutto questo. Una società che vuole trasparenza, giustizia e responsabilità.

E tu ora, in virtù anche di quanto emerso,cosa ne pensi? Credi che queste dimissioni siano solo coincidenze, o che nascondano qualcosa di più profondo? Rifletti su questo: fino a quando non cambieremo il modo in cui guardiamo alla politica e al potere, sarà difficile spezzare quel meccanismo perverso che continua a favorire pochi a discapito di molti. 

Forse è arrivato il momento di pretendere di più, di chiedere verità e di non accontentarci di risposte superficiali, perché solo così possiamo sperare di costruire un futuro migliore, per noi e per le generazioni che verranno.

mercoledì 21 maggio 2025

Riflessione sull’imprenditoria opaca e il sistema che alimenta crimine e potere!

C'è qualcosa di profondamente perverso in quel meccanismo che, sotto una facciata di legalità e operosità, nasconde invece un ingranaggio ben oliato di connivenze, complicità, favori e silenzi.

Già... dietro un’imprenditoria che a prima vista sembra limpida (con le sue partite Iva in regola, i bilanci apparentemente perfetti e quelle loro sedi luccicanti), si muove un sistema parallelo che non solo nutre la criminalità organizzata, ma tiene in piedi un’intera struttura di potere, fatta di politica compiacente, burocrazia venduta e istituzioni che, troppo spesso, fingono di non vedere.

Gli imprenditori "affiliati", quelli che potremmo definire i veri pilastri di questo sistema, agiscono come in un gioco di specchi: formalmente estranei l’uno all’altro, senza apparenti legami diretti, eppure perfettamente coordinati. 

È un'illusione costruita ad arte, una scenografia che serve a depistare, a far sì che nessun controllo -per quanto poi quest'ultimo risulti realmente approfondito - riesca mai a ricostruire il filo che li unisce; eppure, quel filo esiste, ed è robusto quanto quello che tiene insieme un clan mafioso! 

Non serve quindi che si conoscano personalmente, non serve che si siedano allo stesso tavolo: ciò che conta è che ognuno, nel proprio ruolo, faccia girare il sistema.

Prendiamo, ad esempio, quell'imprenditore che paga puntualmente il suo "contributo", assume chi gli viene indicato, garantisce voti e sostegno economico a un certo candidato. Ecco, questo soggetto non è necessariamente un mafioso - nel senso classico del termine - ma è parte di una rete in cui il confine tra lecito e illecito si sfuma volutamente. 

Lui ad esempio non ha mai visto in faccia il capo, non conosce i dettagli di quelle cosiddette operazioni sporche, eppure sa - quantomeno è certo che egli debba sapere - che quel denaro liquido che improvvisamente riempie le casse della sua azienda non viene da un miracolo contabile o da una sua strategia imprenditoriale innovativa, ma da una "famiglia", già... da un'organizzazione che seppur stando dietro le quinte, si aspetta in cambio silenzio, lealtà, ma soprattutto continuità.

E qui entra in gioco l’architettura più subdola del sistema: la gerarchia! 

Proprio come nella criminalità organizzata, vi sono livelli, intermediari, figure che fanno da scudo. Gli imprenditori di alto rango - quelli con le giuste amicizie, quelli che possono permettersi di non sporcarsi direttamente le mani - sono di fatto intoccabili, protetti non solo dall’ombra della mafia, ma anche dal loro status, dalla rispettabilità che li avvolge. Sono quest'ultimi a godere dei contratti pubblici, delle gare truccate, delle agevolazioni che sembrano cadere dal cielo, e se qualcosa va storto, ci sarà sempre qualcuno più in basso a prendersi la colpa, un prestanome, un fallito, un anello debole sacrificabile.

Intanto, la politica - quella che dovrebbe vigilare, quella che dovrebbe essere garante della trasparenza - spesso è complice! Non sempre in modo eclatante, non necessariamente con bustarelle che passano di mano. A volte basta un’omertà, un favore, un occhio chiuso su un appalto sospetto. 

Perché il vero potere di questo sistema sta nella sua capacità di normalizzare l’illegalità, di farla sembrare una prassi accettabile, quasi inevitabile. "È così che funziona", si dice. E così, mentre l’imprenditore "pulisce" il denaro sporco con fatture false o investimenti fasulli, lo Stato, sì... attraverso i suoi rappresentanti corrotti o semplicemente indifferenti, offre una copertura perfetta: l’apparenza della legalità!

Eppure, la cosa più agghiacciante è quanto tutto questo sia ordinario, quasi banale. 

Basti leggere quotidianamente quanto accade, già... nulla. Il tutto estramente diverso da quanto accadeva (ahimè) alcuni anni fa: nessuna violenza, nessuna sparatoria, nessuna faida eclatante: solo pratiche commerciali, strette di mano in uffici eleganti, scartoffie firmate con sorrisi di circostanza. 

È questa la forza del sistema: la sua capacità di mimetizzarsi, di far sembrare normale ciò che normale non è. E mentre tutto questo accade, la società - quella che dovrebbe indignarsi, quella che dovrebbe pretendere trasparenza e conti chiari - rimane spesso immobile, incastrata tra il salvaguardare il proprio orticello, la rassegnazione di chi pensa che, tanto, nulla cambierà mai, ed in alcuni casi (certamente esigui...), la paura di denunciare! 

Ma è proprio questa rassegnazione che tiene in vita il meccanismo, perché finché ci sarà chi accetta le regole del gioco, finché ci sarà chi crede che "l'unico modo per fare affari sia così", il sistema continuerà a prosperare. 

E allora la domanda è: dove finisce la connivenza e inizia la complicità? E soprattutto, quanta parte di questo gioco siamo disposti ad accettare prima di dire basta?

martedì 20 maggio 2025

C'era un tempo in cui la gente scendeva in piazza, alzava la voce, lottava per qualcosa in cui credeva...

Già... ora si preferisce pubblicare un commento anonimo lasciato nel buio di un social network.

Una società che di fronte agli scandali più vergognosi, politici corrotti, istituzioni infiltrate dalla criminalità, fondi pubblici svenduti agli amici degli amici, reagisce con un sospiro e poi cambia canale. 

Non è più nemmeno rassegnazione, è peggio: è normalità!

Ci siamo abituati a vivere in un sistema che funziona solo se accetti le sue regole perverse: il clientelismo che ti fa ottenere un posto, l’evasione che ti tiene aperta l’attività, il silenzio che ti protegge. 

E così, mentre i potenti si spartiscono tutto, il cittadino comune rimane inchiodato alla sua paura o, forse, alla sua complicità. 

Perché alla fine, se anche tu (in piccolo...) hai bisogno di quel favore, di quella raccomandazione, di quella furbata per sopravvivere, come puoi pretendere di alzare la testa?

Una volta c’era chi scendeva in piazza, chi rischiava la pelle per un ideale, chi credeva che la democrazia fosse una lotta quotidiana. Oggi no. Oggi prevale il calcolo: "Tanto cosa cambia?". 

E allora restiamo inerti, osservando ipocriti i politici che si mangiano il futuro di tutti, mentre noi ci consoliamo con la battuta sarcastica sul gruppo WhatsApp o con lo sfogo sotto un post, sempre rigorosamente in incognito.

Ma la verità è che il tempo delle rivolte è finito. Non perché manchino le ingiustizie, anzi, tutt'altro, è perché abbiamo smesso di credere di poterle combattere. Abbiamo scambiato la libertà con l’illusione del quieto vivere, e ora ci ritroviamo prigionieri di un sistema che ci divora, mentre fingiamo di non vedere. Perché è più comodo. Perché è più sicuro. Perché, in fondo, abbiamo già deciso che non vale la pena.

E forse è proprio questo il tradimento più grande: non quello dei politici ladri, ma il nostro!

Perché quando rinunciamo perfino a pretendere giustizia, diventiamo complici del male che denunciamo a denti stretti, solo quando nessuno ci sente.


lunedì 19 maggio 2025

La complicità invisibile: abitudine, compromesso, convenienza e soprattutto silenzio!

Cari lettori,

oggi vi propongo una riflessione che non è nata da me, ma che sento profondamente mia. È una riflessione necessaria, urgente, e ahimè ancora troppo attuale.

Per cui, le parole che seguiranno non sono le mie, ma quelle di uomini che hanno dedicato la loro vita alla lotta contro la mafia, pagando spesso con il prezzo più alto. 

Parole di verità pronunciate da Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e Giovanni Falcone, tre figure che ci hanno lasciato un'eredità pesante, fatta di coraggio, lucidità e dolore, verità che ancora oggi faticano ad aprirsi un varco nella nostra coscienza collettiva.

La mafia, lo sappiamo, non è solo sangue e stragi. La mafia è consenso. Ecco cosa intendeva Borsellino quando diceva: “La mafia non dichiara guerra, ma condiziona”. Non ha bisogno di sparare se può corrompere. Non deve minacciare se trova chi, per interesse o convenienza, si piega spontaneamente. Si insinua nelle maglie deboli dello Stato, ne occupa i vuoti, ne prende il posto. E lo fa grazie a chi abbassa lo sguardo, a chi si convince che “tanto non cambierà mai nulla”, a chi addirittura ci guadagna.

Caponnetto ce lo ricordava con forza: la mafia non è solo un fenomeno di periferia. È radicata nelle élite, è parte integrante del potere. Non è più un alleato subordinato, ma un concorrente diretto per il controllo delle istituzioni. E quando lo Stato è fragile, quando la società è distratta, allora la mafia avanza. Silenziosa, invisibile, ma pervasiva.

Ecco perché la mafia resiste. Perché siamo noi a nutrirla. Lo ripeteva Falcone: “Il terrorismo è stato sconfitto perché la società civile si è mobilitata”! Ma con la mafia? Noi reagiamo alle immagini scioccanti, ai cadaveri ammazzati. Ci indigniamo, ci commuoviamo. Poi voltiamo pagina. E continuiamo a tollerare quel sistema di favori, clientelismo, voto di scambio, piccole e grandi illegalità quotidiane. Perché tanto, si sa, “è così dappertutto”. E allora ci adattiamo. Accettiamo il compromesso. Preferiamo il silenzio alla denuncia!

Ma il vero nemico della mafia non è solo chi combatte, è chi sceglie di non arrendersi. Chi ogni giorno decide di non cedere al comodo, al facile, al “così fan tutti”. Chi pretende trasparenza da chi governa, da chi decide, da chi rappresenta. Chi rifiuta di far parte di quel gioco perverso in cui anche il più piccolo accomodamento alimenta un sistema malato.

Perché la mafia non teme le commemorazioni, gli applausi, le lapidi. Teme una società che smette di offrirsi. Che smette di piegarsi. Che smette di tacere.

Ecco, allora, la vera sfida: non aspettare gli eroi. Essere persone normali, ma coerenti. Essere cittadini che ogni giorno, con piccoli gesti, scelgono di stare dalla parte della legalità. Perché la mafia non è solo al Sud. È ovunque esiste qualcuno disposto a barattare il bene comune per un vantaggio personale.

Oggi, come ieri, la scelta è nostra. E su questo, Falcone ci ha lasciato un’ultima, dolorosa verità: “Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa. Chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola”.

domenica 18 maggio 2025

L'ora dell'amore e dell'unità: il coraggioso appello di Papa Leone XIV per un mondo in pace.

Sotto lo sguardo attento e partecipe del mondo intero, Papa Leone XIV si è rivolto all’umanità da quel luogo simbolo di unità e speranza che è il sagrato della Basilica. 

Non era solo un incontro ufficiale, né una semplice celebrazione diplomatica. Era qualcosa di più profondo: un momento carico di significati spirituali, culturali e umani. 

Davanti a lui, un autentico mosaico dell’umanità – 156 delegazioni internazionali, 39 rappresentanze ecumeniche, leader religiosi provenienti da ogni parte del mondo: dal Patriarca Bartolomeo di Costantinopoli al metropolita Nestor per il Patriarcato di Mosca, dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ai massimi esponenti delle fedi musulmane, buddiste, induiste, sikh, zoroastriane e giainiste.

E accanto a loro, volti noti della scena politica internazionale: il presidente Mattarella, il presidente israeliano Herzog, il vicepresidente americano Vance, il presidente ucraino Zelensky. Un crocevia di culture, credenze e visioni del mondo, riunito non per negoziare interessi o stabilire accordi temporanei, ma per ascoltare un messaggio urgente, diretto a tutti, senza distinzioni: la pace non è più una scelta, ma l’unica via possibile.

«Il nostro tempo è segnato da troppe ferite», ha esordito il Papa con voce forte ma pacata. «L’odio, la violenza, i pregiudizi, un sistema economico che sfrutta il pianeta e abbandona i poveri nel silenzio». Parole che non accusano singoli individui, ma denunciano una cultura diffusa, radicata, che sta divorando la società. Una cultura dell’esclusione, dello sfruttamento, della guerra come soluzione facile e immediata. Ed è proprio in questo contesto così fragile e frammentato che la Chiesa sente il dovere di parlare. Non per imporre verità, ma per ricordare all’umanità il suo destino comune: essere una sola famiglia.

«Guardate a Cristo!», ha proseguito il Pontefice. «Accogliete la sua Parola, che non divide ma unisce. In Lui, siamo chiamati a formarci come un’unica famiglia, dove l’autorità non è dominio, ma servizio». Questo è il cuore del messaggio cristiano: non un potere che schiaccia, ma un amore che eleva; non un comando che separa, ma un invito che avvicina. La Chiesa, dunque, non può rimanere muta davanti alle ingiustizie. Deve essere lievito nell’impasto, fermento di fraternità, luce nel buio. Deve diventare, con coraggio e umiltà, il volto visibile dell’amore di Dio per il mondo.

Papa Leone XIV ha poi affrontato uno dei temi centrali del suo magistero: il ruolo del Successore di Pietro. «Pietro non è un condottiero solitario, né un capo che domina dall’alto», ha detto con chiarezza disarmante. «È chiamato a camminare accanto ai fratelli, perché tutti, battezzati, siamo pietre vive di un unico edificio». E qui, con commovente semplicità, ha aggiunto: «Io sono qui senza meriti, con timore e tremore, come un fratello che vuole servire la vostra fede e la vostra gioia». Questo è il nuovo volto del papato: non un trono, ma un servizio; non un palazzo, ma una strada percorsa insieme; non un monologo, ma un dialogo aperto a tutti.

Ma il nucleo più intenso del suo intervento è stato l’appello a un’alleanza globale per la pace. «Questa strada va percorsa insieme», ha dichiarato il Papa, guardando idealmente oltre le mura vaticane, verso un orizzonte ampio e inclusivo. «Con le Chiese sorelle, con le altre religioni, con ogni uomo e donna di buona volontà». Nessuno è escluso da questa chiamata universale, perché la pace non è un privilegio di pochi, ma un diritto fondamentale di tutti. Non c’è pace vera se qualcuno ne è escluso; non c’è speranza se non è condivisa.

E qui il Pontefice ha lanciato una sfida precisa a tutti: superare la tentazione dell’autoreferenzialità. «Non siamo chiamati a chiuderci in noi stessi, né a sentirci superiori», ha ammonito. «Dobbiamo offrire al mondo l’amore di Dio, perché fiorisca un’unità che non omologa, ma valorizza ogni differenza». La pace non è uniformità, ma armonia tra diversità. Non è il livellamento delle identità, ma il rispetto reciproco che permette a ciascuno di donare il proprio talento unico per il bene comune.

La conclusione del discorso è stata una sorta di invocazione profetica: «Con lo Spirito Santo, costruiamo una Chiesa che abbraccia il mondo, annuncia la Parola senza paura, si lascia interrogare dalla storia e diventa lievito di concordia». Parole che indicano una rotta precisa: la Chiesa non può restare immobile, né isolata nei suoi recinti. Deve uscire, andare incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo, accompagnandoli con compassione e verità. Deve farsi spazio di incontro, laboratorio di fraternità, segno visibile di una speranza che non delude.

In un’epoca in cui conflitti antichi e nuovi dilaniano il mondo, in cui divisioni sociali, culturali e religiose sembrano impossibili da colmare, le parole di Papa Leone XIV risuonano come un faro di speranza. Il Papa non parla da un pulpito distaccato, ma da un cuore che palpita per l’umanità intera. La pace, ci dice, non è un sogno irrealizzabile, ma una responsabilità concreta. È qualcosa che si costruisce quotidianamente, con gesti piccoli e grandi, con scelte coraggiose e quotidiane aperture all’altro.

Perché, in fondo, siamo una sola famiglia. E solo uniti potremo cambiare il mondo.

sabato 17 maggio 2025

La criminalità che abita in noi (Parte 2).

Come riportavo ieri, se la criminalità fosse solo violenza, sarebbe più facile da combattere. 

Ma il suo vero potere non sta nelle armi o nei boss con la coppola: sta nella capacità di normalizzarsi, di diventare un pezzo accettato – o quantomeno tollerato – del sistema.

Ecco perché oggi la mafia non spara, ma si siede al tavolo delle trattative. Non minaccia, ma convince e purtroppo, ci riesce benissimo, perché trova una società che, in molti casi, le tende la mano senza nemmeno rendersene conto.

Ma c'è anche un altro grave problema da affrontare: l’ambiguità delle istituzioni, già... perchè Stato e criminalità si sfiorano e non parlo solo di funzionari corrotti o di politici collusi. 

Il problema è più sottile, più radicato: cosa succede quando chi amministra condivide, anche solo in parte, la stessa mentalità di chi delinque?

Pensiamo agli appalti “puliti” ma pilotati: già... un’impresa vicina alla criminalità vince una gara senza infrangere alcuna regola! Semplicemente, gli altri competitor sanno che non conviene partecipare. Nessuno viene arrestato, nessun documento è falso. Eppure, qualcosa non va...

O pensiamo ai politici condannati ma mai dimissionari. Un tempo, un semplice sospetto bastava a mettere fine a una carriera pubblica. Oggi, persino una sentenza definitiva non sempre induce all’esclusione. È un segnale chiaro: il successo – elettorale, economico, sociale – giustifica tutto.

In questo contesto, la criminalità non deve nemmeno faticare per infiltrarsi: basta aspettare che il sistema si adatti ai suoi valori.

Perché la violenza è solo l’ultima ratio; le sparatorie, i cadaveri per strada, i clan che si combattono fanno notizia, fanno paura, fanno scandalo, ma alla fine rappresentano solo la punta dell’iceberg.

Prima di arrivare alle armi, la criminalità organizzata preferisce lavorare nell’ombra, con metodi meno visibili ma infinitamente più efficaci: il consenso, offrire lavoro dove lo Stato manca, distribuire favori, creare dipendenze economiche, entrare nel tessuto sociale attraverso cooperative, fondazioni, attività commerciali.

Ecco quindi l’omertà culturale: non serve minacciare se basta uno sguardo, un silenzio, una frase sussurrata per far capire che “chi fa domande è un problema”. La paura si diffonde senza urla, senza colpi di pistola.

Ecco perché i periodi di “pace” sono spesso ingannevoli: la mafia  non è in crisi, sta semplicemente lavorando meglio che mai, in silenzio.

Come contrastarla? Meno crociate, più competenza!

La lotta alla criminalità organizzata non può affidarsi a slanci emotivi, indignazione a scaglie o commemorazioni retoriche. Serve altro. Serve di più.

Studiare il fenomeno senza pregiudizi: smettiamola di pensare alla mafia come a un gruppo di analfabeti arretrati. È un’organizzazione complessa, flessibile, imprenditoriale. Va studiata con metodo scientifico, con analisi serie e dati reali.

Servono osservatori permanenti, non solo indagini spot  non basta intervenire dopo il danno. Bisogna monitorare in anticipo, intercettare i segnali deboli, formare figure professionali capaci di leggere i territori.

Colpire i valori, non solo i comportamenti: se la società ammira il furbo, il “vincente” a tutti i costi, il “capace di arrangiarsi”, ogni arresto sarà vano. Dobbiamo cambiare linguaggio, cultura, modelli di riferimento. A cominciare dalla scuola, dai media, dal modo in cui raccontiamo il successo.

Ridare dignità alle istituzioni: se lo Stato non è credibile, la criminalità offre alternative. Servono uomini e donne che non siano solo onesti, ma culturalmente immuni alla mentalità mafiosa. Funzionari, dirigenti, politici che non solo rispettino le regole, ma ne siano convinti custodi.

Ecco perché la criminalità siamo noi!!!

Certo, non siamo tutti complici, ma viviamo in una società che, spesso inconsapevolmente, produce mafiosità, accettando quotidianamente piccole illegalità, idolatrando il denaro facile e giustificando chi “ce l’ha fatta a tutti i costi”.

Sì... c'è comunque una buona notizia, perché se il problema è culturale, allora la soluzione può esserlo altrettanto, ma serve una grande rabbia per vedere un cambiamento, ma soprattutto una rabbia quotidiana fatta di scelte concrete e di esempi autorevoli.

Perché non esistono dei mostri da abbattere, ma cè necessità di ricostruire una società: sì... dal basso, dall'alto, dentro ognuno di noi!

venerdì 16 maggio 2025

La criminalità che abita in noi (Parte 1).

Già... spesso pensiamo alla criminalità organizzata come a un corpo estraneo, un cancro da estirpare, un mostro da combattere.

Ma forse è proprio in questa visione che rischiamo di perdere il punto.

La criminalità non è un’escrescenza aliena rispetto alla società: al contrario, è un prodotto della società stessa, figlia di dinamiche storiche, economiche e culturali che ci riguardano da vicino. 

Non sto dicendo che siamo tutti mafiosi – evitiamo facili meccanismi autoflagellatori – ma dobbiamo ammettere di vivere in un tessuto sociale dove l’illegalità, in molte sue forme, è diventata una normalità silenziosa, talmente radicata da non farci più nemmeno accorgere della sua presenza.

Ed è proprio qui che nasce il problema: in questo contesto, la figura dell’affiliato non è più un’anomalia, ma una conseguenza quasi necessaria.

Limitarci alla semplice indignazione, allora, non serve a nulla. E ancor meno quando questa indignazione si manifesta solo occasionalmente, durante quelle “programmate” commemorazioni, senza mai tradursi in analisi profonde o azioni strutturate. Se continuiamo a fermarci alle parole, niente cambierà davvero.

C’è qualcosa che molti fanno finta di non capire: la criminalità non è una struttura immobile. È dinamica, si adatta ai cambiamenti sociali ed economici con una flessibilità impressionante. Ma non basta: da tempo essa si presenta come un modello d’impresa, operante anche su scala globale.

Oggi, infatti, i business sono ben diversi da quelli di una volta. Si va dalla gestione dei finanziamenti pubblici, allo smaltimento illegale dei rifiuti, dagli appalti per le infrastrutture alle costruzioni edilizie, fino alla gestione di attività commerciali legali. A questi si sommano, ovviamente, i traffici illegali tradizionali: droga, prostituzione, tratta di esseri umani, estorsioni. Ma soprattutto, c’è tutta una serie di metodi coercitivi, come il pagamento del pizzo, che non sempre vediamo o denunciamo.

Tutto questo genera un sistema sofisticato, fondamentale per riciclare il denaro sporco e renderlo pulito, legale agli occhi del mondo.

Ecco perché oggi la criminalità non è più quella di una volta: non si tratta più di “quattro pastori” sulle montagne, ma di vere e proprie multinazionali del crimine. Sanno dove investire, quando diversificare, come infiltrarsi nei settori legali con competenze professionali, spesso superiori a quelle di tanti professionisti onesti.

I nuovi mafiosi non sono più boss con la coppola: sono laureati, partecipano a concorsi pubblici, lavorano nella pubblica amministrazione, entrano in politica, si avvicinano alla magistratura. Usano la loro influenza finanziaria per manipolare appalti, associazioni, e soprattutto per orientare la volontà dei cittadini, fino a condizionare le loro scelte elettorali.

Non parliamo più di violenza esplicita, ma di una capacità sottile e pervasiva di normalizzare la propria presenza. Una presenza che non ha bisogno di imporsi con le minacce, perché trova terreno fertile in una società che, spesso senza rendersene conto, le concede spazi enormi.

Ecco perché i cittadini vivono una sorta di doppia appartenenza : da un lato lo Stato, dall’altro la criminalità organizzata. Due sistemi che si alternano nel ruolo di protettore e persecutore, creando una condizione psicologica e sociale profondamente ambigua.

Viene spontaneo chiedersi: da dove nasce questa ambiguità? Quali motivi vanno cercati per contrastare una cultura del successo a ogni costo, la legittimazione della sopraffazione, l’idea diffusa che la furbizia e la faccia tosta siano addirittura virtù?

Ed è proprio questa mentalità, questa idea distorta del “farla franca”, che alimenta il messaggio su cui si basa la cultura criminale. Un messaggio che non urla, non spara, ma si insinua piano piano tra le pieghe della quotidianità, finché non diventa parte integrante del nostro modo di pensare.

(Continua nella seconda parte...)

giovedì 15 maggio 2025

Catania Calcio: È stato bello finché è durato!

Già… avevamo sperato in una stagione diversa. Invece no. Ancora una volta, la delusione si è presentata puntuale, e oggi l'amarezza che respiriamo per le strade di Catania ha il sapore amaro del déjà-vu.

L'avevo scritto mesi fa: questa squadra mancava di personalità e, soprattutto, di un'idea di gioco. Pur avendo previsto i playoff, sapevo che non saremmo andati lontano. Perché? Semplice: quando costruisci una squadra senza logica, il fallimento non è un incidente di percorso, ma la matematica conseguenza di errori già scritti nel destino.

Partiamo da quest'ultimo punto: le cessioni di Cicerelli, Chiarella, Cianci, Di Carmine. Nomi che oggi fanno male, perché sono la prova che la dirigenza ha sbagliato tutto. Li abbiamo ceduti a parametro zero, regalandoli a squadre che, guarda caso, oggi festeggiano promozioni o playoff. Intanto, il Catania arranca, senza attaccanti, senza gol, senza un’identità.

Di Carmine, da solo, ha segnato 14 reti. Quattordici. Quanti punti in più avremmo avuto con quei gol? Quante partite avremmo chiuso prima, senza dover sperare nell’eroismo di Dini e nei miracoli dell’ultimo minuto?

Ma no, meglio buttare via talenti e ripartire da zero, senza un progetto. Perché pensare a lungo termine quando puoi navigare a vista?

E poi debbo sentire molti parlare di quell'illusione del "quinto posto" e di alcune decisioni discutibili compiute dall'allenatore : già...  questa ossessione per il bicchiere mezzo pieno. Il quinto posto non è un merito, è una condanna, perché dimostra che, nonostante tutto, c’erano le condizioni per fare meglio, e abbiamo preferito accontentarci!

Ripeto, il problema più grande, però, è in panchina. Un allenatore bravo sa far rendere una squadra anche senza campioni. Uno mediocre, viceversa, non sa cosa fare neanche con 11 fenomeni. E qui, purtroppo, abbiamo visto solo confusione: sostituzioni sbagliate, cambi di modulo a caso, una squadra che non ha mai saputo nemmeno passarsi la palla per più di tre volte di fila.

La circostanza più assurda mi è capitata di leggerla proprio una decina di giorni fa, non so se quella frase espressa sia dipesa da quanto avevo riportato in un mio post: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/04/dopo-lennesima-delusione-la-verita-sul.html e cioè quando favevo riferimento a un particolare evento: mi imbattei casualmente in un torneo giovanile, dove in campo, il Rimini affrontava il Barcellona (quello Catalano) e bastarono solo pochi minuti per capire come quei ragazzi non corressero semplicemente dietro un pallone, ma stavano interpretando il calcio nella sua forma più pura.

Siamo seri quindi: se in una scuola calcio insegnano il possesso palla e in Serie C... no, c’è qualcosa che non torna: la frase incriminata (prima dei "Playoff") diceva: "Non ci serve il bel gioco, basta il carattere". 

Ma davvero? Scusate, qualcosa non torna perchè proprio il sottoscritto (che possiede non solo  10/decimi... ma che quando partecipa saltuariamente a qualsivoglia competizione, anche la più banale, tenta sempre di vincere o quantomeno di perdere al secondo posto, sì... perché giungere quinto mi farebbe sentire profondamente umiliato...), beh... se quello descritto dal tecnico è carattere, mi dispiace dirlo, ma io non ne ho visto neppure l'ombra!  

E difatti questa frase, appena letta, mi ha fatto rabbrividire. Perché ha rappresentato la sintesi perfetta di tutto ciò che non è andato. Il carattere non sostituisce il gioco. Il coraggio non basta se non sai come muoverti in campo!

E allora, consentitemi di tirare le somme di questa stagione:

- una dirigenza che regala i migliori giocatori.

- un allenatore che non sa dare un’identità.

- una squadra che non sa compietre neppure i fondamentali.

Il risultato? Semplice... un’altra stagione finita nel nulla!

Peccato, perché Catania merita di più. Merita una squadra che giochi, che lotti, che abbia un’anima. Ma soprattutto, merita questo Presidente che con il cuore sta provando a costruirla per il meglio, ma forse è tempo che abbandoni i propri sentimenti e si dedichi, in maniera ahimè più razionale, a modificare quella sua struttura organizzativa, perchè sono anni che dimostra di non essere all'altezza delle aspettative!

Ed allora vi chiedo: secondo voi, dove si è sbagliato di più? Nelle cessioni, negli acquisti, o nella mentalità di chi crede che il "carattere" basti a vincere... 


mercoledì 14 maggio 2025

"TikTok": l’esodo è iniziato.

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una notizia che, in fondo, sapevo sarebbe arrivata presto, eppure, leggerla nero su bianco mi ha fatto per un momento riflettere sulle possibili conseguenze...

Negli Stati Uniti, sempre più utenti stanno abbandonando TikTok e non è solo una questione di trend che muoiono o algoritmi che cambiano: è un vero e proprio esodo, dettato da timori legati alla privacy, pressioni politiche e quel senso di precarietà che ormai avvolge ogni piattaforma social.

La scadenza del 19 gennaio 2025 - quella in cui "ByteDance" avrebbe dovuto cedere TikTok a un acquirente americano - è slittata, come spesso accade quando i giganti del tech e la politica si scontrano. 

Ma c’è una differenza rispetto al solito: questa volta, gli utenti non stanno ad aspettare, in particolare gli influencer che hanno troppo da perdere tra follower, collaborazioni e anni di lavoro costruito. E così, mentre a Washington si discute, loro hanno già iniziato a migrare.

Dove vanno? beh... la risposta potrebbe anche sorprenderti...

Tra le alternative che stanno emergendo, spicca "Xiaohongshu", conosciuta anche come "Little Red Book", una piattaforma cinese che unisce il visual appeal di Instagram alla logica di scoperta di Pinterest, e nelle ultime ore ha visto un’impennata di milioni di iscritti, molti dei quali ovviamente in fuga da TikTok.

Ma Xiaohongshu sarà davvero il nuovo TikTok? La risposta è più complicata di un semplice sì o no.

Da un lato, il potenziale c’è: l’interfaccia è intuitiva, il modello di contenuti è simile, e soprattutto, c’è un’intera generazione di creator pronti a ricostruirsi un pubblico. 

Dall’altro, però, ci sono ostacoli non da poco, ad esempio la barriera linguistica: la maggior parte dei contenuti è ancora in cinese, e senza una versione localizzata per il mercato occidentale, molti utenti potrebbero desistere.

La questione censura: Xiaohongshu opera sotto le regole di Pechino, il che significa limitazioni su temi che altrove sono considerati innocui (dalla politica ai diritti civili). Per molti creator, abituati alla relativa libertà di TikTok, potrebbe essere uno shock.

E poi c’è il paradosso più grande: se Xiaohongshu crescesse a sufficienza da sostituire TikTok, non finirebbe presto nel mirino degli stessi legislatori americani? Le preoccupazioni su controllo dei dati, sicurezza nazionale e influenza geopolitica sono identiche.

È qui che il discorso si fa più ampio. Il problema non è TikTok in sé, ma il sistema in cui operano questi colossi. Ogni volta che una piattaforma viene messa sotto torchio, migliaia di persone sono costrette a trasferirsi, a ricominciare da zero. Ma esiste davvero un posto neutrale, dove creatori e utenti possano esprimersi senza doversi preoccupare di confini, leggi o algoritmi dettati da logiche esterne?

Forse no. O forse, la soluzione è diversa: smettere di cercare un rifugio perfetto e imparare a navigare questa instabilità, accettando che nel mondo digitale, l’unica costante sia il cambiamento.

E tu, hai già pensato a dove atterreresti se TikTok dovesse chiudere?

martedì 13 maggio 2025

Un gesto encomiabile quello di Berlusconi Jr.! Ma non bastano i milioni per salvare la televisione italiana...

Bellissima la decisione di Piersilvio Berlusconi: "The Couple" chiude senza finale, e il montepremi da un milione di euro viene devoluto all’Istituto Giannina Gaslini. 

Un gesto importante, quasi poetico, soprattutto in un panorama televisivo che raramente pensa al bene comune.

Ma c’è un altro aspetto da considerare: è anche la resa di un programma che non ha funzionato. Un esperimento mal riuscito, incapace di intrattenere o raccontare, chiuso dagli ascolti prima ancora che dal palinsesto. Per fortuna, però, quel milione diventa speranza per tanti bambini.

Mediaset fa un passo avanti, mostrando (per una volta e auspico che non sia l'ultima) un volto diverso... 

Ma la domanda sorge spontanea: quanti altri programmi trash dovrebbero seguire la stessa sorte?

E la Rai? Qui il discorso si fa più amaro. Servizio pubblico dovrebbe significare qualità, cultura, informazione. Invece, tra dibattiti inconcludenti, conduttori riciclati e intrattenimento sterile, sembra solo un carrozzone che sopravvive per inerzia. 

Servirebbero inchieste, approfondimenti, spazio per l’arte e i giovani ed invece, si preferisce inseguire l’audience con format vuoti o quantomeno inconcludenti!

Intanto, la scelta di Mediaset diventa un esempio concreto. Il milione andrà alla nuova Terapia Intensiva pediatrica del Gaslini, come confermano le parole commosse del direttore Andrea Moscatelli e del presidente Edoardo Garrone.

Una tv commerciale che dà una lezione di responsabilità sociale: possibile che sia proprio lei a farlo? E possibile che la Rai, che paghiamo noi, non riesca a fare altrettanto?

Complimenti a Mediaset, allora. Ma non basta. Servirebbe un cambiamento più profondo: meno trash, più sostanza. Meno facce note, più idee nuove. Io intanto mi aggrappo a questo piccolo segnale di umanità. E sogno una televisione dove la qualità non sia un’eccezione, ma la norma.

lunedì 12 maggio 2025

Catania, ti scrivo perché ti amo troppo per stare zitto: lettera al Sindaco tra poesia e realtà.

Stasera su "lasicilia.it" ho letto una lettera straziante, inviata da un mio concittadino al Sindaco di Catania, Enrico Trantino.

Una denuncia in versi, scritta nel siciliano più crudo, che dipinge una città allo stremo: strade invase dai rifiuti, balconi che lanciano sacchetti come fossero boomerang, e quel senso di abbandono che fa mormorare: «Quasi mi vergogno di essere catanese».

Ma io non mi arrendo a questa narrazione, perché Catania è anche altro... 

E allora stasera, rispondo con un'altra poesia intitolata "Catania mia", che non cancella i problemi, ma ricorda chi siamo davvero:

"CATANIA MIA"

Tra il mare che abbraccia e il vulcano che canta,

tu sorgi, antica e nuova, con la tua santa...

Il blu del cielo si specchia nel tuo seno,

e l’Etna veglia, maestoso e sereno.


Sei pietra lavica e sale marino,

sei sole acceso sul corso mattutino.

Barocca e fiera, tra archi e colonne,

ogni tua strada risuona di madonne.


I tuoi vicoli raccontano di storie vere,

di uomini e donne che han lasciato tracce sincere,

greci, arabi e spagnoli, tutti mischiati.

ogni epoca ti ha vestita come sogni ricamati... 


La tua cucina è un atto d’amore:

arancini, scacciate, e quel tipico sapore

che qui sa di terra e di fuoco

ma solo chi t’ha amato davvero 

lo ha invocato a gioco.


Hai il clima dolce, ma non è il solo dono:

è la gente tua, quella col sorriso buono.

Il catanese è vero... un po' spaccone,

ma se lo conosci bene, 

ti tende la mano e ti canta una canzone


Sì... parlano forte, ma pensano con il cuore,

hanno genio e ingegno nell’odore

quel caffè preso la mattina con gli amici,

e una forza che lega, sì... come graniti.


In ogni angolo senti un brusio di vita,

è il suono del mercato, la voce infinita,

dai colori, dai gesti, da quelle risate in coro,

anche lo straniero si sente catanese... dopo il lavoro. 


Oh Catania, tu sei più di una città,

sei un abbraccio aperto, una mappa di fedeltà,

sei unica al mondo, per la tua bellezza:

hai il mare da un lato e il fuoco dell’Etna dentro, 

e tu come un faro acceso,

ti sei posta lì, meravigiosamente... al centro!

Consentitemi di chiudere questo post con una riflessione.

Quanto scritto sopra non vuole essere una critica. Quel cittadino che ha scritto al Sindaco ha certamente ragione: Catania oggi soffre, e la poesia in siciliano che ha voluto allegare non è un addio, ma un grido d’amore. Perché solo chi ama profondamente questa terra ha il diritto - e forse anche il dovere - di lamentarsi. Solo chi sente nel cuore il peso della sua bellezza e delle sue ferite può provare a cambiarla.

Ricordiamoci, da buoni catanesi, chi siamo davvero: figli di una città che ha saputo resistere a terremoti, eruzioni e dominazioni. Una città che non si è mai arresa, nemmeno quando tutto sembrava perduto. Una città che, sotto la cenere dell’Etna, nasconde un’anima indomita, capace di rialzarsi ogni volta.

Catania mia” è la mia risposta: un inno per non dimenticare che siamo un popolo forte, orgoglioso e resiliente. Un popolo che sa sempre come rinascere, anche nei momenti più bui.

Perché Catania non è solo una città: è un simbolo di vita, passione e speranza. E noi, suoi figli, abbiamo il compito di custodirla e amarla, anche quando fa male...


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